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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo arriva in una fase chiave del film “La la Land”: Mia è tornata da un’audizione andata male, ma non una delle tante. È quella che la porta al punto di non ritorno. Parla con Sebastian, ma in realtà sta mettendo in parole qualcosa che la sta mangiando da dentro da molto tempo. Non è una scena madre, non ha musica, non c’è un momento epico. È un’ammissione. E come tutte le ammissioni vere, arriva in modo quasi sommesso, pieno di frasi interrotte, pensieri che si contraddicono. Un momento in cui la delusione personale e la fine del sogno coincidono.
MINUTAGGIO:
RUOLO: Mia
ATTRICE: Emma Stone
DOVE: Amazon Prime Video
INGLESE
Because... I've been to a million auditions, and the same thing happens every time where I get interrupted because someone wants to get a sandwich! Or I'm crying, and they start laughing! Or there's people sitting in the waiting room, and they're like me, but prettier and better at the... Because maybe I'm not good enough! Maybe I'm one of those people that has always wanted to do it, but it's like a pipe dream for me, you know? And then, you said it, you change your dreams, and then you grow up. Maybe I'm one of those people, and I'm not supposed to. And I can go back to school, and I can find something else I'm supposed to do. 'Cause I left to do that, and it's been six years, and I don't want to do it anymore.
ITALIANO
Perché sì, perché sì. Ho fatto un milione di provini e va sempre allo stesso modo: vengo interrotta perché c'è qualcuno che vuole un bel sandwich, oppure io sto piangendo e loro si mettono a ridere, o vedo altre persone nella sala d'aspetto che sono come me ma più belle e più brave. Perché forse io non sono brava. Magari sono una di quelle che sognano da sempre di farlo, ma resterà in eterno una chimera per me, capisci? E anche tu, tu l'hai detto, che si cresce, che i sogni cambiano. Forse vale anche per me. Non sarò mai un'attrice e allora mi rimetto a studiare, e forse trovo qualcos'altro per cui sono portata. Io me ne sono andata per fare questo. Sono passati sei anni e non ho voglia di farlo più.
La La Land, scritto e diretto da Damien Chazelle nel 2016. Un film che, sulla carta, è un musical romantico ambientato a Los Angeles. Ma se ci fermiamo lì, ci perdiamo tutto quello che il film costruisce lentamente, scena dopo scena: un discorso sul fallimento, sull’ambizione, sul tempo che scorre e sul fatto che certe storie, anche quando finiscono, non sono meno importanti.
Sebastian (Ryan Gosling) è un pianista jazz che sogna di aprire un club tutto suo, dove si suoni jazz "vero". Mia (Emma Stone) è un’aspirante attrice che lavora come barista agli studios. Si incontrano, si innamorano, si spingono a inseguire i rispettivi sogni… e poi? Poi arriva la realtà, quella fatta di compromessi, strade che si dividono e sogni che, pur diventando veri, presentano un conto.
Chazelle si diverte (e si impegna) a costruire un musical “classico” dal punto di vista formale – numeri cantati e danzati, costumi sgargianti, omaggi a Jacques Demy (Les Parapluies de Cherbourg è un riferimento fondamentale), colori saturi e una regia fluida – ma lo riempie di elementi narrativi più crudi, quasi antitetici al genere.
Il cuore del film sta in una domanda precisa: "E se una storia d’amore importantissima fosse anche destinata a finire?"
La sequenza finale è una piccola sinfonia narrativa. Un “what if” lungo quanto un numero musicale. Mia e Sebastian si ritrovano con lo sguardo, e per un attimo il film ci mostra la loro versione del sogno: matrimonio, figli, successo condiviso. Ma poi la musica finisce, lo sguardo resta, e ognuno torna alla propria vita. Ecco il punto: non è detto che una storia per essere significativa debba durare per sempre.
Dal punto di vista della scrittura e della recitazione, è un pezzo interessante proprio perché non segue un andamento lineare. Non è una "dichiarazione d'intenti". È qualcosa che si srotola con fatica, dove la voce della protagonista si inceppa, cambia tono, si difende e si arrende. Vediamolo meglio. "Ho fatto un milione di provini e va sempre allo stesso modo: vengo interrotta perché c'è qualcuno che vuole un bel sandwich..." Qui c'è il primo indizio sul tono del monologo: banalità e umiliazione. Il rifiuto non è teatrale, è quotidiano. E questo è molto importante. Chi sogna di fare l’attore spesso si immagina “la grande occasione mancata”, invece Mia ci racconta che è molto più frustrante: è una lunga serie di micro-delusioni. "O vedo altre persone nella sala d'aspetto che sono come me ma più belle e più brave." Qui c’è un cambio. Dalla colpa esterna (i casting superficiali) si passa al dubbio interno. Questo è un classico momento da “sindrome dell’impostore”. La percezione che ci sia sempre qualcuno meglio di te, anche quando quel “meglio” è indefinito.
"Magari sono una di quelle che sognano da sempre di farlo, ma resterà in eterno una chimera per me, capisci?" Qui la frase è centrale. È il momento in cui Mia rinuncia al sogno. E non lo fa in modo melodrammatico. Lo fa con una lucidità sfinita. La parola chimera è pesante, quasi letteraria – e proprio per questo suona come una condanna. Il sogno non è più un obiettivo, è diventato un miraggio. "Tu l'hai detto, che si cresce, che i sogni cambiano. Forse vale anche per me." Qui la delusione personale viene razionalizzata. Mia prende in prestito le parole di Sebastian per trovare una giustificazione. Cerca di mettere un ordine a qualcosa che è ancora caos. Ma proprio perché lo fa citando l’altro, capiamo che non è convinta. Sta cercando di convincersi.
"Non sarò mai un'attrice e allora mi rimetto a studiare, e forse trovo qualcos'altro per cui sono portata." Questa parte è interessante perché introduce il “piano B”, ma lo fa in modo completamente stanco. Non c’è entusiasmo. Non c’è vera convinzione. È una scelta di ritirata. E qui l’interpretazione di Emma Stone è fondamentale: non cambia tono, non alza la voce, ma lascia trasparire che non si tratta di una vera alternativa, è una fuga. "Sono passati sei anni e non ho voglia di farlo più." Il colpo finale. Nessuna costruzione. Nessuna metafora. Solo una frase che ti arriva dritta. Sei anni non sono un numero messo lì a caso. È il tempo in cui un sogno può consumarti.
Quello che colpisce di questo monologo è la totale assenza di pathos retorico. Nessuna frase memorabile, nessuna grande affermazione. È un pezzo di dialogo scritto per sembrare vero, ed è qui che funziona. È un momento in cui il film mostra quanto sia sottile il confine tra la passione e lo sfinimento.
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