Monologo femminile - Valeria Bruni Tedeschi in \"L'arte della gioia\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo della principessa Brandiforti, tratto dall’ultimo episodio de L’arte della gioia, è uno dei momenti più densi e tragici della serie. Non solo perché rappresenta la resa finale di un personaggio chiave, ma perché in poche righe racchiude il tramonto di un mondo intero: quello dell’aristocrazia, del privilegio, della stabilità apparente. È un discorso che si muove tra delirio e lucidità, tra sarcasmo e confessione, e diventa una sorta di testamento esistenziale, pronunciato non a caso davanti a Modesta, la donna che più di tutte incarna la rottura di quel vecchio ordine.

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STAGIONE 1 EPISODIO 5

MINUTAGGIO: 20:00-21:00

RUOLO: Valeria Bruni Tedeschi

ATTRICE: Principessa Brandiforti

DOVE: Disney+

ITALIANO

Come lei, chi? Chi sono io? Qui...queste stanze pronte ad accogliere i miei morti sono...la principessa Brandiforti...ma domani? Sento già tutto il chiasso...le folle, alla porta dei palazzi...cani, come te. Feroci come te...ma più codardi di te. Che chiedono, che invocano...Una Sicilia nuova. Un'Italia nuova. Un uomo nuovo. In nome della giustizia. Tutto questo muoversi, questo affannarsi...questo cercare di afferrare un pò di vita...di difenderla fino allo stremo. Che pena. Che pena. Questa vecchiezza...è un'autentica rovina. Sapessi come ero allegra quando ero bambina. Ridevo, ridevo, ridevo. Ero davvero gaia. E sia. Dammi da bere. Avrò diritto di andarmene.

L'arte della gioia

La storia segue Modesta, una ragazza nata nella Sicilia più arcaica e brutale, in un casolare che sembra il punto esatto dove la civiltà si è fermata. Violenza, miseria, ignoranza, desiderio inespresso: è questo il brodo in cui cresce. E non è una sopravvissuta modello: Modesta è un personaggio disturbante, ambiguo, violento. Una che non perdona e non dimentica. Una che impara che l’amore può essere tossico e il potere una forma di sopravvivenza. E decide di usarli entrambi. Dopo l’abuso subito dal padre, Modesta fugge. Un incidente “accidentale” le porta via la famiglia. Il primo segno che in lei la moralità è un concetto sfumato, non un dogma. Finisce in un convento per nobildonne, dove viene accolta dalla madre superiora Eleonora – interpretata da una Jasmine Trinca che riesce a incarnare perfettamente l’ambiguità tra rigore e desiderio represso. Qui Modesta impara, osserva, cresce, si educa. Ma non si redime: si trasforma.

Modesta vuole tutto. Non una piccola libertà, non una parità di facciata. Vuole possedere la vita. Vuole il piacere, il potere, la ricchezza, la bellezza, l’amore, il controllo. E se per ottenerli deve mentire, manipolare, sedurre, uccidere, tradire... lo farà. Ma mai senza consapevolezza. Mai per disperazione. Sempre per affermazione. Nel corso della serie – sei episodi diretti da Valeria Golino e Nicolangelo Gelormini – la vediamo scalare la società come un animale intelligente, capace di adattarsi a ogni ambiente. Dall’orfana sporca di terra alla padrona di una villa aristocratica, passando per noviziato, bordelli e salotti dell’alta società, Modesta recita un copione che scrive da sola, scena dopo scena. Nessun personaggio è al sicuro intorno a lei. Nessuna emozione è sacra, se non quella che la avvicina a ciò che desidera. Quello che L’arte della gioia riesce a fare, e che pochissime serie italiane hanno mai fatto, è mantenere un equilibrio costante tra esperienza concreta e dimensione simbolica. Ogni scena è reale e, insieme, archetipo.

Ogni gesto è carne e mito. La sessualità di Modesta, ad esempio, non è raccontata come trasgressione, ma come linguaggio. È lo strumento con cui si riappropria di sé e degli altri. È l’arma e la carezza, lo strumento di conquista e il luogo di perdita. La serie – come il romanzo di Goliarda Sapienza da cui è tratta – non ci chiede di amare Modesta. Ci obbliga a guardarla. Anche quando è crudele. Anche quando ci disturba. Anzi, proprio lì sta il punto: è una donna che rifiuta la funzione consolatoria del “femminile”. Non vuole essere “compresa”. Vuole esistere. E questo, ancora oggi, è scomodo.

Analisi Monologo

“Come lei, chi? Chi sono io?”

Due domande che aprono il vuoto. È l’inizio di una smagliatura interiore. Il personaggio che per tutta la serie ha rappresentato l’autorità, l’ordine, la fermezza, ora vacilla. E lo fa partendo dal linguaggio: la domanda che nega l’identità è la forma più diretta del collasso psicologico. Sta cercando un centro, un riferimento, e non lo trova. C’è anche qualcosa di teatrale in questa formula – “Chi sono io?” – che echeggia Shakespeare, Pirandello, ma in chiave tutta siciliana, tutta radicata nel corpo e nella terra.

“Qui...queste stanze pronte ad accogliere i miei morti sono...la principessa Brandiforti...ma domani?” La principessa guarda il proprio mondo – le stanze, i ritratti, gli arredi – e capisce che non sono più garanzia d’identità. Erano simboli di potere, ora sono sepolcri borghesi, stanze in attesa di ospitare la morte, non più la vita. La domanda “ma domani?” è un’anticipazione del collasso: oggi lei è ancora “la principessa Brandiforti”, ma domani? Con quale autorità, in quale sistema?

“Sento già tutto il chiasso...le folle, alla porta dei palazzi...cani, come te. Feroci come te...ma più codardi di te.” Questo passaggio è profondamente politico. È una visione apocalittica della modernità, quella che irrompe dal basso: la folla, il popolo, il cambiamento. I “cani” sono la metafora del popolo che reclama, che vuole entrare, che desidera. Eppure, pur nel disprezzo, riconosce a Modesta una qualità superiore: la ferocia sincera, il coraggio dell’individuo che agisce senza nascondersi dietro una massa. È una forma perversa di rispetto, quasi una dichiarazione indiretta di stima. Modesta è il futuro che la principessa disprezza, ma non può ignorare.

“Che chiedono, che invocano...Una Sicilia nuova. Un’Italia nuova. Un uomo nuovo. In nome della giustizia.” Qui la voce della principessa si fa profetica e amara. È il punto in cui capiamo che lei vede arrivare la rivoluzione, o quantomeno il crollo delle strutture sociali che ha sempre abitato. Ma ciò che la disturba davvero non è tanto la fine di un ordine, quanto la retorica con cui viene giustificata. “In nome della giustizia”: è un’espressione che lei sputa con sarcasmo. Per lei, è un’illusione che non salverà nessuno.

“Tutto questo muoversi, questo affannarsi...questo cercare di afferrare un po’ di vita...di difenderla fino allo stremo. Che pena. Che pena.” Siamo in piena disillusione esistenziale. La principessa guarda il desiderio altrui di vivere come qualcosa di grottesco, quasi patetico. Ma dietro il disprezzo, c’è una malinconia enorme: chi parla così della vita è qualcuno che non riesce più a desiderarla. “Che pena” è ripetuto due volte, come un lamento che si rifrange su sé stesso. È una frase che viene da lontano, come un’eco stanca.

“Questa vecchiezza...è un’autentica rovina.” Qui arriva il momento forse più crudo. La principessa smette ogni finzione e nomina la vecchiaia per quello che è per lei: non una fase della vita, ma una catastrofe personale. È la rovina dell’essere, l'impossibilità di provare ancora, di godere, di spostare qualcosa nel mondo. E questa consapevolezza le pesa più della sconfitta politica.

“Sapessi come ero allegra quando ero bambina. Ridevo, ridevo, ridevo. Ero davvero gaia.” Questa battuta è devastante nella sua semplicità. È il controcampo emotivo del personaggio. Ci mostra che, prima della corazza, c’è stata una bambina viva, spensierata, felice. Il passato viene evocato in modo quasi lirico, con quella parola scelta con cura: gaia. Non felice, non allegra, gaia. Un termine che richiama leggerezza, canto, infanzia. E proprio per questo, l’abisso con il presente è più doloroso.

“E sia. Dammi da bere. Avrò diritto di andarmene.” Il commiato. La frase che chiude il cerchio. La principessa non si impone, non cerca redenzione. Chiede da bere – forse veleno, forse altro – con una freddezza rituale. È una richiesta che ha il tono del diritto. Non chiede pietà, chiede dignità nell’uscita. Come a dire: se non posso più essere “la Brandiforti”, almeno voglio poter decidere quando scomparire. È un finale che non cerca la pietà dello spettatore. È una dichiarazione di lucidità, quasi di stile. Il suo ultimo gesto è il controllo sulla propria uscita di scena.

Conclusione

Questo monologo è il tramonto di un’intera visione del mondo. Un mondo in cui l’aristocrazia si auto-legittimava come élite morale e sociale, un mondo fatto di stanze chiuse, di titoli, di poteri che non tollerano il cambiamento. Ma è anche il ritratto di una donna che ha perso la capacità di desiderare, e che guarda al futuro con la lucidità di chi sa di non avere più posto.

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