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~ LA REDAZIONE DI RC
In un film dove la fiducia è una moneta falsa che tutti continuano a scambiarsi, questo monologo rompe la superficie. È pronunciato da Irina, la giovane detenuta nell’ambasciata americana, e arriva in un momento di apparente stallo narrativo, dove i ruoli sembrano ormai definiti: Sara è la madre in cerca del figlio, Erik il funzionario sospetto, e Irina… una prigioniera privilegiata. Ma con questa confessione, il suo personaggio cambia forma: da figura secondaria a detonatore morale del film. Il monologo agisce come un cuneo che apre nuove fratture nei temi portanti della storia — potere, corruzione, identità.
MINUTAGGIO: 45:16-47:13
RUOLO: Kira
ATTRICE: Lera Abova
DOVE: Netflix
INGLESE
I didn't know if I could trust you. My name isn't Irina. It's Kira Wolkowa. We were one of the richest families in Belarus. My father laundered money. On a massive scale. To be honest, he was a criminal, like many others in the government. Then, when my father joined the opposition, they got scared. They k*lled him. If I hadn't made it to the US embassy in Minsk, I would have been next. He saved all evidence on the flash drive. And those people want it back. But why Frankfurt? The CIA got me out of the country. I was supposed to go straight to the US. But now I'm stuck here. Nothing's happening. Just excuses, for almost two months. Two days ago, Donovan requested my passport. That's when I knew something's off. They've managed to get people in here. To come and get me.
ITALIANO
Non sapevo se fidarmi di te. Irina non è il mio vero nome. Mi chiamo Kira Wolkova. La mia famiglia era una delle più ricche in Bielorussia. Mio padre riciclava denaro. In grossa quantità. Era un criminale, in tuttà onestà. Come diversi altri membri del governo. Quando mio padre è passato all'opposizione, più di qualcuno si è spaventato. E l'hanno ammazzato. E se io non fossi andata all'ambasciata statunitense di Minsk avrei fatto la sua stessa fine. Aveva salvato le sue prove su quella chiavetta. E ora vogliono riprendersela. La CIA mi ha fatto lasciare il mio Paese. Ora sarei dovuta essere negli Stati Uniti, ma sono qui, come vedi. E qui rimango. Hanno sempre qualche scusa, da quasi due mesi. E quando Donovan mi ha chiesto il passaporto due giorni fa, ho capito che qualcosa non andava. Hanno permesso a qualcuno di entrare qui, per rapirmi.
Exterritorial – Oltre il confine è un thriller tedesco distribuito da Netflix che si muove in un territorio familiare agli amanti del genere, ma lo fa con una struttura e un'ambientazione che giocano costantemente sul senso di prigionia e sul dubbio come dinamica narrativa.
La trama ruota attorno a Sara, interpretata da Jeanne Goursaud, un’ex soldatessa delle forze speciali che vive in Germania con il figlio Joshua. Quando, durante una visita apparentemente ordinaria all’ambasciata americana di Francoforte, il bambino sparisce nel nulla, si innesca un thriller psicologico e d’azione dove la dimensione personale si scontra con la burocrazia impenetrabile e i meccanismi del potere diplomatico. La parte disturbante? Nessuno sembra ricordarsi di Joshua. Nessuna telecamera lo ha registrato. È come se non fosse mai esistito.
E da quel momento, Exterritorial si trasforma in una caccia paranoica, in cui la protagonista deve fare affidamento solo sul proprio istinto e sul proprio addestramento. Il film gioca con la nozione di "extraterritorialità" non solo come concetto legale (l’ambasciata come territorio estero), ma anche come stato mentale. Sara si ritrova fuori da ogni luogo sicuro, fuori da ogni certezza, fuori da se stessa. Tutti gli altri personaggi — da Erik Kynch (Dougray Scott), il capo della sicurezza, fino alla misteriosa Irina (Lera Abova) — sembrano portare in faccia due maschere: una pubblica e una che non possiamo mai vedere del tutto.
Il cuore del film, però, è la domanda morale e psicologica su chi diventa un individuo quando perde tutto ciò che lo definisce: la famiglia, il ruolo, la fiducia negli altri. Ed è proprio qui che il film gioca la sua partita più interessante: mostrare come anche il soldato più addestrato può ritrovarsi disarmato se il nemico non si vede, se le regole smettono di funzionare e se il campo di battaglia è dentro casa.
Il testo si sviluppa in modo volutamente lineare, ma sotto la sua semplicità scorre una tensione narrativa costruita parola per parola. La prima frase, “Non sapevo se fidarmi di te”, è una chiave d’accesso: è ciò che accomuna tutte le figure del film, nessuno si fida di nessuno. Subito dopo, la rivelazione del vero nome (Kira Wolkova) è il primo scarto identitario: una persona che ha dovuto diventare altro per sopravvivere. Il cuore del monologo è nella parte centrale: “Mio padre riciclava denaro. In grossa quantità. Era un criminale, in tutta onestà. Come diversi altri membri del governo.” Qui non c’è il tentativo di giustificarsi, né di abbellire la verità. C’è una freddezza chirurgica nella confessione, che contrasta con la vulnerabilità della situazione. Il linguaggio è diretto, spoglio, quasi burocratico. Kira racconta un’architettura del potere dove il crimine è sistemico, non un’eccezione.
Poi arriva la svolta: il padre passa all’opposizione e viene eliminato. Qui il linguaggio cambia tono. “Più di qualcuno si è spaventato. E l’hanno ammazzato.” Non c’è enfasi, ma c’è condanna. Queste due frasi spezzano il ritmo narrativo, e rendono chiaro che la verità in questo mondo non è mai neutrale: è qualcosa per cui si può morire. La parte finale del monologo è un'accusa in piena regola verso le istituzioni che dovrebbero proteggerla. La CIA, gli Stati Uniti, Donovan. Nessuno è innocente. “Quando Donovan mi ha chiesto il passaporto, ho capito che qualcosa non andava.” È il momento in cui Kira capisce che anche il “luogo sicuro” (l’ambasciata) è una trappola, e che la diplomazia ha le stesse dinamiche predatorie del regime da cui scappava. In questo senso, la frase “Hanno permesso a qualcuno di entrare qui, per rapirmi” è la chiosa più dura: lo spazio extraterritoriale non è un rifugio, ma un territorio conteso.
Questo monologo è la scena in cui il confine tra rifugio e prigione diventa definitivo. È l'istante in cui il thriller lascia spazio alla denuncia e il personaggio secondario si trasforma in specchio deformante della protagonista. Kira è ciò che potrebbe diventare Sara se non riuscirà a rompere il cerchio della manipolazione e della menzogna. Entrambe sono donne che hanno perso tutto e che ora vivono in uno spazio dove la verità è pericolosa e il silenzio è complice.
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