Monologo - Taraji P. Henson in \"Hidden Figures\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

INTRODUZIONE AL MONOLOGO

Il monologo di Katherine Johnson in Hidden Figures è uno dei momenti più potenti del film, un'esplosione di frustrazione e dignità che rivela la realtà di chi vive in un sistema oppressivo e segregato. Attraverso questo sfogo, Katherine, interpretata da Taraji P. Henson, denuncia con forza le assurdità e le umiliazioni quotidiane che affronta come donna di colore alla NASA, un ambiente dominato da uomini bianchi e da regole non scritte di esclusione. È un momento in cui il suo personaggio rompe il silenzio e, con parole cariche di rabbia e amarezza, mette a nudo la fatica di chi ogni giorno deve combattere per la propria dignità.

NON C'E' UN BAGNO PER ME

MINUTAGGIO: 1:01:41-1:02:50

RUOLO: Katherine

ATTRICE: Taraji P. Henson
DOVE: Netflix



INGLESE


There’s no bathroom for me, here. There’s no bathroom for me. There are no colored bathrooms in this building, or any building outside the West Campus, which is half a mile away. Did you know that? I have to walk to Timbuktu just to relieve myself! And I can't use one of the handy bikes. Picture that, Mr. Harrison. My uniform, skirt below the knees and my heels and simple necklace pearls. Well, I don't own pearls. Lord knows you don't pay the colored enough to afford pearls! And I work like a dog day and night, living on coffee from a pot none of you want to touch! So, excuse me if I have to go to the restroom a few times a day.



ITALIANO


Non c’è il bagno per me qui. Non c’è il bagno. In questo edificio non c’è il bagno per le persone di colore. E nessun edificio al di fuori del West Campus, che è a circa un kilometro da qui, lo sapeva? Devo camminare fino a Timbuktu solo per fare un bisogno, non posso usare le biciclette di servizio, che ne dice signor Harrison. La mia uniforme: gonna fino al ginocchio, scarpe con i tacchi, e un semplice filo di perle… beh, io non le ho le perle! Dio sa che non pagate i neri abbastanza perché si comprino le perle! E lavoro come un cane giorno e notte, vivendo di caffè da una caffettiera che nessuno di voi osa toccare! Perciò, mi perdoni se mi assento un paio di volte al giorno per andare alla toilette.

HIDDEN FIGURES

"Hidden Figures" è un film del 2016 diretto da Theodore Melfi che racconta la storia straordinaria e, per lungo tempo, dimenticata di tre donne afroamericane che hanno dato un contributo fondamentale alla NASA durante la corsa allo spazio negli anni ’60. Tratto dal libro omonimo di Margot Lee Shetterly, il film mescola storia e dramma sociale, portando alla luce temi come la discriminazione razziale e di genere, ambientato in un’epoca in cui il contesto lavorativo e sociale era intriso di barriere formali e informali per le donne di colore.


Il film è ambientato nel pieno della Guerra Fredda, in un’America lacerata dalla segregazione razziale e da divisioni culturali molto profonde. La NASA, impegnata nella competizione con l'Unione Sovietica per il primato spaziale, lavora febbrilmente al programma Mercury, finalizzato a lanciare il primo astronauta americano in orbita. In questo scenario, tre matematiche eccezionali - Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson - lavorano come "computer" umani in un settore segregato della NASA, l'unità West Area Computers, composta interamente da donne nere.


Katherine Johnson (Taraji P. Henson) è una matematica dotata di un talento straordinario per i calcoli complessi, in particolare quelli necessari per la traiettoria delle navicelle. Viene selezionata per supportare il team responsabile delle orbite e dei calcoli di rientro in atmosfera, entrando in un ambiente quasi esclusivamente maschile e bianco. La sua precisione nei calcoli si rivelerà determinante per garantire il successo della missione di John Glenn, il primo americano in orbita.


Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) lavora nella stessa divisione, ma nonostante svolga di fatto il ruolo di supervisore, non ha il titolo ufficiale né il riconoscimento salariale. Durante il film, dimostra grande lungimiranza e determinazione, studiando la programmazione del computer IBM che sta per essere introdotto alla NASA. Quando il computer inizia a sostituire i calcoli umani, Dorothy si assicura che il suo team impari a utilizzarlo, garantendo così una nuova prospettiva lavorativa per le sue colleghe.


Mary Jackson (Janelle Monáe), ingegnere di talento, desidera diventare ingegnere aerospaziale, ma per farlo deve superare ostacoli istituzionali e legali. Nel tentativo di ottenere l’autorizzazione per frequentare un corso necessario per la sua certificazione, Mary intraprende una battaglia legale contro il sistema segregazionista, arrivando a sfidare l’ordine costituito in un’aula di tribunale.


Uno dei temi centrali del film è la resistenza delle protagoniste contro le barriere di razza e genere. La NASA del tempo è un ambiente dominato da uomini bianchi, e sia Katherine che Dorothy e Mary sono costantemente costrette a giustificare il proprio valore e a conquistare ogni piccolo passo con immenso sforzo. Questo viene rappresentato in momenti molto eloquenti, come la scena in cui Katherine deve percorrere lunghe distanze per raggiungere l’unico bagno riservato ai neri nell'edificio, una sottile ma potente rappresentazione dell’iniquità sistematica di quegli anni.

ANALISI MONOLOGO

Questo monologo di Katherine Johnson, cristallizza in pochi minuti le assurdità e le crudeltà della segregazione razziale. In una scena intrisa di frustrazione, Katherine, che fino a quel momento si era dimostrata docile e rispettosa delle regole, esplode con una denuncia che finalmente lascia emergere il peso dell'ingiustizia che sopporta ogni giorno sul lavoro.

Il monologo avviene in un momento di esasperazione, quando Katherine viene ripresa dal suo capo, Al Harrison (Kevin Costner), per le frequenti assenze dalla sua scrivania.


A quel punto, Katherine è costretta a spiegare perché queste assenze siano inevitabili: non ci sono bagni per le persone di colore nell'edificio. Questa confessione, che inizialmente può sembrare un semplice chiarimento, si trasforma rapidamente in un grido di dolore per le umiliazioni quotidiane che Katherine subisce da tempo in silenzio.


La costruzione del monologo è graduale: Katherine parte dal descrivere un fatto concreto – la mancanza di un bagno – per poi far emergere tutti i dettagli di ciò che è costretta a sopportare. Ogni frase aggiunge un peso emotivo, trasformando la sua semplice richiesta di poter svolgere il proprio lavoro in dignità in una denuncia più ampia delle condizioni di disuguaglianza.


Il linguaggio che Katherine usa è semplice e diretto, privo di retorica o decorazioni. "Non c’è il bagno per me qui. Non c’è il bagno." Questa ripetizione introduce immediatamente lo spettatore al problema di base, sottolineando la sua assurdità con un ritmo quasi sincopato, come se Katherine stesse cercando di far capire a tutti l’assurdità dell’ovvio. L'espressione “Devo camminare fino a Timbuktu” rende tangibile la distanza, evocando un percorso interminabile e aggiungendo un tocco di ironia amara, che però non fa sorridere: rende solo più evidente il peso dell’assurdità a cui è sottoposta ogni giorno.


In un altro passaggio, Katherine descrive “la mia uniforme: gonna fino al ginocchio, scarpe con i tacchi, e un semplice filo di perle…”. Questa è una delle frasi più taglienti del monologo: il filo di perle è richiesto come parte del codice di abbigliamento per le dipendenti donne, un accessorio di classe che le donne bianche indossano come segno di status. Ma Katherine ribadisce con amara ironia che lei non le ha, quelle perle, perché "Dio sa che non pagate i neri abbastanza perché si comprino le perle!". È una frase che condensa tutta l'ipocrisia di un sistema che impone requisiti estetici ma non fornisce i mezzi per rispettarli.


Il monologo culmina quando Katherine, ormai esausta, sottolinea quanto dia al suo lavoro: “E lavoro come un cane giorno e notte, vivendo di caffè da una caffettiera che nessuno di voi osa toccare!” Qui, il riferimento alla caffettiera è simbolico: il razzismo non si manifesta solo nelle norme segregazioniste ufficiali, ma anche in dettagli minimi e offensivi. La caffettiera riservata, che nessuno osa toccare, rappresenta una sorta di “barriera invisibile” tra Katherine e i suoi colleghi bianchi, una prova della sua esclusione anche nelle cose più banali e quotidiane.


La conclusione del monologo, “mi perdoni se mi assento un paio di volte al giorno per andare alla toilette”, è un colpo di genio retorico. Katherine abbassa il tono, quasi scusandosi ironicamente, dopo aver appena rovesciato tutta la sua rabbia. Il suo tono è sarcastico e disperato allo stesso tempo: si scusa, ma è evidente che non dovrebbe essere lei a farlo.

Questo monologo rappresenta un richiamo alla dignità che Katherine cerca disperatamente di preservare, nonostante tutto. È il momento in cui Katherine smette di nascondersi, rivelando la frustrazione e l'ingiustizia che la sua calma esteriore aveva celato fino a quel momento. Il monologo serve a rivendicare il diritto a essere trattata come un essere umano.

CONCLUSIONE

Portare in scena questo monologo richiede un equilibrio tra la vulnerabilità di Katherine e la forza della sua denuncia, tra la stanchezza di chi ha sopportato per troppo tempo e il coraggio di chi decide di farsi sentire. Ogni gesto, ogni pausa e ogni parola devono restituire la complessità di una donna che si trova finalmente a reclamare il rispetto che le è dovuto.

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