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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo, recitato da Kate Siegel alla fine di Hypnotic, è uno dei pochi momenti in cui il film si spoglia del suo impianto da thriller e si apre a una dimensione più intima e umana. È come se, dopo aver giocato con la tensione mentale, il film si concedesse finalmente uno spazio per far respirare i sentimenti, e per mostrare ciò che davvero stava sotto: un dolore sospeso, mai risolto, e un bisogno autentico di perdono. Siamo alla fine del film. Il villain è stato smascherato, la minaccia è passata. Ma il vero confronto che Jenn (Kate Siegel) deve affrontare non è con il dottor Meade, bensì con suo marito in coma – e con tutto quello che tra loro si è spezzato ben prima degli eventi principali del film.
MINUTAGGIO: 1:18:00-1:19:30
RUOLO: Jenn
ATTRICE: Kate Siegel
DOVE: Netflix
INGLESE
I'm definitely moving. You'll like the new place. You don't have to. I understand. I know you're very particular about your things. I'm sorry. I'm sorry I left. I'm sorry I didn't share my grief with you. I'm sorry that I thought losing Daniel was harder for me than it was for you. And I know it's not my fault what happened to him. No matter how much I wanna blame myself. But it is my fault what happened to us. And for that, I'm really, truly sorry. The doctors say your tests are promising. That's really good news. And when you wake up, I'll be sitting right here. My condolences on your promotion. I'm regretting it already. I left you alone, but I did wanna say thank you for everything. I wasn't sure when I'd see you again, but... I figured you'd come around eventually. A token of my appreciation. Take care of yourself, yeah?
ITALIANO
Ho deciso di Trasferirmi. Ma ti piacerà la nuova casa, non sei obbligato. So che hai un rapporto particolare con le tue cose. Mi dispiace. Scusa se me ne sono andata. E per non aver condiviso il mio dolore con te. Scusa se ero convinta che perdere Daniel fosse più difficile per me che per te, e so che non è colpa mia quello che è successo, per quanto mi sforzi di incolpare em stessa. Ma è mia la colpa, di quello che è successo a noi. E per quello ti chiedo di perdonarmi. I medici dicono che ci sono ottime speranze, è una notizia fantastica. E quando ti sveglierai, mi troverai qui.
Hypnotic di Matt Angel rientra in quella categoria di thriller domestici che Netflix ha prodotto in quantità negli ultimi anni, molto legati a un’estetica pulita, ambientazioni moderne e tematiche che ruotano attorno al controllo mentale, alla manipolazione psicologica e alle dinamiche tossiche mascherate da normalità. Il film racconta la storia di Jenn (Kate Siegel), una donna che sta cercando di rimettere insieme i pezzi dopo un trauma personale.
Entra in contatto con uno psicoterapeuta specializzato in ipnosi, il dottor Collin Meade (interpretato da Jason O’Mara), che si presenta come la figura rassicurante e competente capace di rimetterla in piedi. Ma da lì le cose iniziano a scivolare piano piano verso un terreno più oscuro, dove la fiducia si trasforma in controllo, e la terapia in un abuso di potere. L’elemento più interessante di Hypnotic non è tanto la trama in sé (che resta piuttosto lineare), quanto l'idea di invasione del privato attraverso la mente. L’ipnosi qui non è trattata come uno strumento terapeutico, ma come un’arma. Il corpo non viene mai aggredito direttamente, ma è la volontà a essere manipolata. Il film lavora molto su questa ambiguità: quando sei davvero tu a scegliere? Quante delle azioni che compi sono veramente tue? Chi decide, in fondo?
Il personaggio di Collin Meade è costruito come una figura carismatica, a metà tra il medico e il predatore. C'è qualcosa in lui che ricorda i villain alla Hitchcock, quelli che non hanno bisogno di urlare o alzare le mani per far paura, perché la loro forza sta nella calma, nella convinzione con cui riescono a entrare nella testa degli altri. Non a caso, molte scene sono girate con una regia che insiste sugli sguardi, sulle pause nei dialoghi, su quella tensione sospesa che si crea quando una persona finge di ascoltarti ma in realtà sta già scavando dentro di te.
“Ho deciso di trasferirmi. Ma ti piacerà la nuova casa, non sei obbligato.” Qui c’è un movimento fisico – un cambiamento pratico, un trasloco – che riflette un movimento interno. Trasferirsi è un modo per segnare una nuova fase. Eppure, Jenn non impone questo cambiamento. Lo comunica con delicatezza, quasi come se stesse parlando a qualcuno sveglio. Questo ci dice due cose: che lei non ha mai smesso di considerarlo presente, e che dentro di sé ha ancora bisogno della sua approvazione. “So che hai un rapporto particolare con le tue cose. Mi dispiace.” Questa frase minuscola è una bomba emotiva. Perché racchiude la memoria di una relazione fatta di piccoli gesti, di conoscenza reciproca. E il “Mi dispiace” è già un primo passo verso una forma di riconciliazione. Non è un rimpianto generico, è il tentativo di rispettare ancora una sensibilità che forse si è smesso di capire.
“Scusa se me ne sono andata. E per non aver condiviso il mio dolore con te.” Qui si entra nel cuore del discorso. Jenn ammette una fuga – non fisica, ma emotiva. Il vero strappo non è stato causato da un litigio, ma da un isolamento nel dolore. E questo è un tema fortissimo nel film: la solitudine che si crea nei rapporti quando il dolore non viene condiviso. Non perché non si voglia, ma perché si crede, a torto, che l’altro non possa capirlo. “Scusa se ero convinta che perdere Daniel fosse più difficile per me che per te...” Questo è probabilmente il momento più vulnerabile del monologo. Jenn riconosce una forma di egoismo nel proprio lutto. Il fatto che abbia messo il proprio dolore davanti a quello del compagno non è una colpa, ma una ferita non guarita. E qui emerge uno dei temi più forti del film: la competizione silenziosa tra i dolori, l’illusione che si possa misurare chi soffre di più. “...e so che non è colpa mia quello che è successo, per quanto mi sforzi di incolpare me stessa.”
Questa è una frase centrale. È il punto in cui Jenn cerca di separare il senso di colpa oggettivo da quello soggettivo. Il fatto che razionalmente sappia di non avere colpe non le impedisce di sentire addosso il peso della responsabilità. È l’essenza del trauma: sapere una cosa, ma sentirne un’altra. “Ma è mia la colpa, di quello che è successo a noi.” Qui il tono cambia. Jenn accetta la sua parte di responsabilità nella frattura della relazione, non nella tragedia. Non è più vittima, ma parte attiva di ciò che è andato perduto. E questa assunzione di responsabilità è anche una forma di rispetto. Dice: non potevo salvare nostro figlio, ma potevo forse salvare noi. E non l’ho fatto. “E per quello ti chiedo di perdonarmi.”
La richiesta di perdono è vera, essenziale, senza orpelli. Non c’è dramma, non c’è enfasi. Solo un bisogno autentico. Ed è per questo che funziona: perché arriva dopo tutto un percorso di consapevolezza. “I medici dicono che ci sono ottime speranze, è una notizia fantastica. E quando ti sveglierai, mi troverai qui.” Il finale è sospeso ma pieno di tenerezza. Jenn ha deciso di restare. Nonostante tutto. Non per dovere, ma per scelta. Mi troverai qui non è solo una promessa, è un patto. E forse anche una seconda occasione.
Questo monologo è la vera risoluzione narrativa. Perché il thriller si chiude con l’arresto del colpevole, ma il film si chiude con queste parole. E non è un caso. Hypnotic parla di controllo mentale, ma questo momento mostra che il vero potere sta nella consapevolezza, nella possibilità di guardarsi dentro e riconoscere gli errori non per cancellarli, ma per dargli un senso.
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