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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo iniziale fa da prologo narrativo e da dichiarazione d’intenti. Questo monologo apre a Il Giardiniere e ne imposta il tono, lo sguardo, e soprattutto l’ambiguità morale. È la prima voce che sentiamo, ed è la voce di La China Jurado, madre di Elmer e figura cardine dell’intera miniserie. È qui che ci viene raccontato il punto di partenza della storia: l’incidente d’infanzia che ha segnato per sempre Elmer, e che ha fornito alla madre la scusa perfetta per trasformarlo in ciò che è diventato.
A livello narrativo, è una scelta molto precisa: la serie non ci introduce subito l’azione, ma ci presenta una giustificazione. Parte da una spiegazione medica – il danno al lobo frontale – per aprire una riflessione più profonda: quando una madre vede nel trauma del figlio non un problema, ma un’opportunità.
Il tono è dolce, quasi affettuoso. Ma c’è qualcosa che non torna. E quel qualcosa cresce frase dopo frase.
STAGIONE 1 EPISODIO 1
MINUTAGGIO: 0:20-2:29
RUOLO: La China Jurado
ATTRICE: Cecilia Suárez
DOVE: Netflix
ITALIANO
Mio figlio, Elmer. Abbiamo avuto un incidente stradale quando lui aveva sei anni. La corteccia del suo lobo frontale destro fu gravemente danneggiata, e perse la capacità di provare emozioni. Da allora, per anni, non ha provato affetto, né gioia. Né amore. Sembra terribile, è vero, ma a volte è stato un gran vantaggio. E’ tutto più facile, quando non provi alcun tipo di ansia, di paura, o di colpa. C’erano giorni in cui sentiva che gli mancava qualcosa. E mi chiedeva perché non fosse come tutti gli altri. Ma poi se ne dimenticava. Gli bastava avere le sue piante, i suoi libri, il suo furgone. E soprattutto, l’amore che gli davo io.
Debuttata l’11 aprile 2025 su Netflix (e disponibile anche su Sky Glass, Sky Q e Now), Il Giardiniere (El Jardinero in originale) è una miniserie thriller in sei episodi creata da Miguel Sáez Carral, autore già noto per Ni una más. La regia è affidata a Miker Rueda, che costruisce una tensione costante in una storia dove i sentimenti si seppelliscono nella terra, insieme ai cadaveri. La storia segue Elmer (interpretato da Álvaro Rico, volto noto di Élite), un giovane uomo che gestisce un vivaio con sua madre, La China Jurado (Cecilia Suárez). Ma il vivaio è solo una facciata. Elmer è un sicario su commissione, addestrato fin da piccolo dalla madre, una donna calcolatrice e manipolatrice che ha sfruttato una sua fragilità psicologica a proprio vantaggio. Dopo un trauma infantile, Elmer ha smesso di provare emozioni. Nessun rimorso, nessun attaccamento. È il killer perfetto, e la madre lo usa per eliminare persone su richiesta, seppellendole tra le serre e le piante. Un’azienda familiare dell’orrore.
Ma qualcosa cambia. Durante una delle sue “missioni”, Elmer incontra Violeta (Catalina Sopelana), una maestra d’asilo che diventa una variabile non prevista nel suo algoritmo emotivo. Violeta non doveva sopravvivere. Ma Elmer non riesce a ucciderla. Qualcosa si muove dentro di lui. Un sentimento. O forse un’illusione di sentimento. Ed è qui che l’intero castello di carte costruito da La China comincia a tremare.
Per la prima volta, Elmer si rifiuta di obbedire. E per la prima volta, è pronto a tradire sua madre. Il vero cuore nero della storia, però, è La China Jurado. È lei che tiene le fila. È lei che prega ogni giorno sua madre morta, come se fosse una divinità da supplicare, ma agisce sempre e solo in base a ciò che serve a lei. Elmer per lei è uno strumento, un mezzo per fare soldi e riacquistare la villa in Messico da cui era stata cacciata.
Il rapporto madre-figlio qui è il centro della narrazione. Ma non è amore, non è protezione. È un dominio psicologico mascherato da cura. Una maternità che diventa gabbia, veleno, manipolazione.
Uno degli elementi più discussi della miniserie è come vengono rappresentate le figure femminili. Non ci sono “salvatrici”. Né madri amorevoli, né eroine. Sono tutte, a loro modo, portatrici di un’umanità corrotta. Perfino Violeta – che dovrebbe essere il contraltare dolce e puro – mostra sfumature più ambigue. La poliziotta che indaga sulle sparizioni, invece, è guidata più dall’ossessione e dal bisogno personale che da un reale desiderio di giustizia.
È come se la serie volesse dire: non importa il genere, importa cosa ne fai del tuo potere sugli altri.
“Mio figlio, Elmer. Abbiamo avuto un incidente stradale quando lui aveva sei anni.” La madre si pone come narratrice e testimone, ma anche come unica depositaria della verità. Da subito si appropria della voce sulla vita del figlio: “abbiamo avuto” – il trauma è condiviso, ma è suo il compito di raccontarlo. Suo il filtro. “La corteccia del suo lobo frontale destro fu gravemente danneggiata, e perse la capacità di provare emozioni.” Qui la narrazione assume un tono clinico, quasi documentaristico. Come se stesse parlando di un esperimento. La spiegazione scientifica non è usata per suscitare empatia, ma per introdurre un concetto: Elmer non è più come gli altri. E questo lo rende, implicitamente, più utile.
“Sembra terribile, è vero, ma a volte è stato un gran vantaggio.” Ecco il momento in cui il monologo cambia direzione. L’apparente compassione si rivela per quello che è: una razionalizzazione della manipolazione. La madre ammette che la condizione del figlio ha avuto un’utilità. Non per lui. Per lei. “Tutto è più facile, quando non provi ansia, paura o colpa.” Questa è la frase-chiave. Perché, se da un lato descrive la condizione neurologica di Elmer, dall’altro ci racconta quanto questa “anestesia emotiva” abbia aperto le porte a tutto ciò che seguirà: un’esistenza costruita intorno al controllo, all’obbedienza e alla rimozione del conflitto morale. È la premessa per il ruolo di Elmer come sicario.
Ed è detta con una calma che inquieta più di qualsiasi minaccia.
“C’erano giorni in cui sentiva che gli mancava qualcosa. E mi chiedeva perché non fosse come gli altri.” Elmer, in fondo, cerca ancora qualcosa. Un legame, una risposta. Ma ogni volta che si avvicina a un barlume di consapevolezza, la madre lo riporta nel suo recinto. Non è lui che si arrende. È lei che lo tiene fermo. “Poi se ne dimenticava.” “Gli bastava avere le sue piante, i suoi libri, il suo furgone. E soprattutto, l’amore che gli davo io.” Questa chiusura è perfetta nel suo doppio livello: da un lato dipinge la madre come un rifugio, un’ancora per un figlio fragile. Dall’altro rivela il punto centrale della sua visione dell’amore: non un sentimento, ma un possesso esclusivo. L’amore che Elmer riceve è quello che lei decide di dargli. Non c’è spazio per altro. Non c’è spazio per nessun’altra forma di affetto.
Con questo monologo, Il Giardiniere definisce il terreno su cui cresceranno i suoi temi principali: l’identità rubata, il trauma trasformato in metodo, e soprattutto l’amore come forma di controllo. La voce di La China è calda, ma sotto quella voce c’è il freddo. La distanza emotiva, la manipolazione, la costruzione di un destino che non appartiene a Elmer, ma alla madre.
In fondo, questa non è un’introduzione “neutrale”. È già una presa di posizione, una narrazione alterata da chi ha tutto l’interesse a raccontare le cose in un certo modo. Perché se la madre è la narratrice, allora la storia è già falsata. Ed è proprio questo il gioco psicologico della serie: farci entrare in un mondo dove la verità è coltivata come una pianta. Tagliata, potata, addomesticata.
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