Monologo femminile - Julia Roberts in \"Mangia, Prega, Ama\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il film “Mangia, prega, ama” si apre con questo racconto in voice-over. Liz Gilbert riflette sulla natura umana, su quanto sia radicata dentro di noi la tendenza a cercare il significato della nostra esistenza – spesso – attraverso l’amore. Non l’amore universale, astratto, ma quello privato, intimo, disordinato. Siamo nella primissima fase del film, e la battuta finale – “voglio parlare della mia storia d’amore” – funziona come una chiave d’accesso al resto della narrazione. Lì capiamo che Mangia, prega, ama non sarà una ricerca “alta”, filosofica. Sarà una discesa dentro qualcosa di molto più umano: il desiderio, la dipendenza, la fragilità.

Sciamani e relazioni d'amore

MINUTAGGIO: 00:20-2:44

RUOLO: Liz

ATTRICE: Julia Roberts

DOVE: Netflix

INGLESE

l have a friend, Deborah, a psychologist... ...who was asked by the city of Philadelphia... if she could offer psychological counseling to Cambodian refugees... ...boat people, who had recently arrived in the city. Deborah was daunted by the task. These Cambodians... had suffered genocide, starvation, relatives m*rder*d before their eyes... ...years in refugee camps, harrowing boat trips to the West. How could she relate to their suffering? How could she help these people? So guess what all these people wanted to talk about... ...with my friend Deborah, the psychologist. lt was all, "l met this guy in the refugee camp. I thought he really loved me, but when we got separated... ...he took up with my cousin. Now he says he loves me... ...and keeps calling me. They're married now. What should l do?" This is how we are. May I help you? I'm Liz Gilbert. I'm writing a magazine article on Bali. l mean, here I am with a ninth-generation medicine man... ...and what do I wanna ask him about? Getting closer to God? Saving the world's starving children? Happy to see you. l am Ketut Liyer. Nope. l wanna discuss my relationship.

ITALIANO

Ho un’amica, Deborah, è una psicologa, alla quale fu chiesto dalla città di Filadelfia di dare aiuto psicologico a un gruppo di rifugiati cambogiani, boat people, arrivati recentemente in città. Deborah era atterrita dall’incarico: questi cambogiani avevano patito il genocidio, la fame, l’uccisione di parenti davanti ai loro occhi, anni nei campi dei rifugiati, massacranti viaggi in barca verso occidente. Come poteva lei relazionarsi con le loro sofferenze? In che modo poteva aiutarli. Indovinate di che cosa volevano parlare queste persone con la mia amica Deborah la psicologa? Era tutto un… “Ho conosciuto un tizio nel campo dei rifugiati, pensavo che mi amasse veramente, ma quando sulla barca ci hanno separati lui si è messo con mia cugina. Adesso però dice che in realtà chiama me e continua a chiamarmi, ma loro due sono sposati che cosa devo fare, io lo amo ancora!” Siamo fatti così. Beh, eccomi qui, con uno sciamano da nove generazioni a disposizione. E che cosa gli voglio chiedere? Come avvicinarmi a Dio? Come salvare i bambini che muoiono di fame del mondo? Nossignore, voglio parlare della mia storia d’amore. 

Mangia, Prega, Ama

Mangia, prega, ama (titolo originale: Eat Pray Love), film del 2010 diretto da Ryan Murphy e tratto dall’omonimo bestseller autobiografico di Elizabeth Gilbert. Un film che, a prima vista, potrebbe sembrare una favola di auto-scoperta tutta viaggi, cibo e spiritualità. Ma sotto quella patina da diario patinato, se lo si guarda con attenzione, c’è una struttura narrativa molto precisa, con tematiche che ruotano attorno a concetti come il desiderio di controllo, la fuga da sé stessi, la ricerca del perdono (soprattutto verso se stessi) e il significato concreto di connessione.

Liz Gilbert (interpretata da Julia Roberts) è una scrittrice di successo che vive a New York, ha un marito, una bella casa e una carriera ben avviata. Ma qualcosa dentro di lei è fuori fuoco. La sua crisi esistenziale esplode nel momento in cui si rende conto che sta vivendo una vita che non sente più sua.

Decide di divorziare e intraprende un viaggio lungo un anno in tre Paesi diversi:

Italia (Mangia) – Dove si concede il lusso di vivere e gustare il piacere del cibo e della convivialità.
India (Prega) – Dove si ritira in un ashram per cercare un contatto profondo con la spiritualità e provare a fare i conti con la colpa e il senso di vuoto.
Bali (Ama) – Dove incontra Felipe (Javier Bardem) e dove inizia a rimettere insieme i pezzi del suo cuore, ma da una prospettiva diversa.


Liz attraversa una crisi personale che mette in discussione le fondamenta su cui aveva costruito la propria identità: il matrimonio, la carriera, la routine sociale. Il film mostra che la ricerca di sé non passa attraverso una risposta definitiva, ma attraverso l’accettazione del cambiamento e dell’instabilità. In Italia, Liz si libera dalla colpa del “non fare abbastanza”. È la parte del viaggio che parla del corpo, del piacere non finalizzato a uno scopo. È lì che pronuncia una delle battute chiave: “You don’t need a man, Liz. You need a champion.” E quel campione, lo capirà, deve essere prima lei stessa.

Durante il soggiorno in India, Liz affronta la sua necessità di avere sempre il controllo delle situazioni. L’ashram diventa il simbolo del tentativo di gestire il caos interiore con la disciplina, ma anche del fallimento di un certo approccio “razionale” alla guarigione emotiva. La spiritualità, nel film, non viene trattata come una verità assoluta, ma come un processo. Gente come Richard from Texas (uno dei personaggi più riusciti del film) serve a ricordare che i demoni interiori non si sconfiggono con un mantra, ma guardandoli in faccia.

Il film insiste molto sul perdono, ma non lo mostra come un gesto eroico o simbolico. È qualcosa che Liz fatica a concedere, soprattutto a sé stessa. L’India è il capitolo in cui si fa i conti con la colpa del fallimento matrimoniale, con l’orgoglio ferito e la delusione di non essere stata “abbastanza”. Qui il perdono è una cosa sporca, faticosa, non illuminata da aure spirituali.

Quando arriva a Bali, Liz ha fatto il pieno di parole, silenzio, cibo e riflessioni. Ma resta ancora qualcosa: l’idea che l’amore non debba servire a riempire un vuoto, ma che possa esistere nonostante l’autosufficienza. Felipe non è il salvatore, non è la chiusura del cerchio. È un compagno di percorso. E il fatto che Liz lo accetti senza annullarsi segna il vero punto di svolta del suo viaggio.

Analisi Monologo

Liz mette a confronto due livelli di sofferenza: quello “storico”, enorme, indicibile dei rifugiati cambogiani, e quello “relazionale”, confuso e apparentemente banale, delle storie d’amore finite male. Il contrasto è volutamente sbilanciato. Si parte dal genocidio e si finisce con il tradimento sentimentale. Eppure, il monologo ci dice che, anche dopo aver vissuto l’orrore, ciò che resta è il cuore. L’amore, le sue complicazioni, i suoi nodi non risolti. Il punto non è dire che le sofferenze sono equivalenti. È dire che, a livello emotivo, quello che ci muove – e ci tormenta – è spesso qualcosa di molto piccolo in confronto al mondo.

Ma è nostro.

Liz si prende in giro. È una donna che ha avuto tutto: carriera, viaggi, cultura. E ora ha uno sciamano balinese davanti a sé, un maestro spirituale. Potrebbe chiedergli come illuminarsi, come diventare una persona migliore, come trovare la pace. E invece cosa fa? Parla di un uomo. Di quella storia d’amore. È un modo sottile per dirci: “Non ho capito niente, ma voglio capirlo”. E il film comincia proprio da questo punto.

C’è una risata trattenuta in questa narrazione, ma è una risata che copre una voragine. Liz usa l’ironia per sopportare il peso della propria crisi. In questa scena Julia Roberts recita in sottrazione: la voce è calma, quasi neutra, ma c’è una malinconia latente. È il tono di chi ha già pianto molto e ora sta cercando di mettere ordine. Di darsi una narrazione accettabile. Il monologo serve anche a normalizzare una cosa che spesso viene stigmatizzata: soffrire per amore. In un mondo pieno di problemi ben più gravi, sentire che la fine di una relazione ti sta consumando può sembrare superficiale. E invece, qui, quella sofferenza viene legittimata. Esiste. È reale. E va attraversata.

Conclusione

Questo monologo iniziale è una dichiarazione di poetica. Liz Gilbert ci sta dicendo fin da subito che questo film parlerà di un viaggio, sì, ma non verso la spiritualità nel senso astratto del termine. È un viaggio dentro la ferita dell’amore, dentro la paura di rimanere soli, dentro il bisogno di essere visti e scelti. E il fatto che tutto cominci con un’autoironia lucida e senza retorica, è ciò che lo rende credibile. Liz non cerca di elevarsi, non vuole apparire superiore. È semplicemente una donna che, davanti a tutto ciò che il mondo potrebbe offrirle, è ancora incastrata nella cosa più semplice e più complessa di tutte: la fine di una relazione.

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