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~ LA REDAZIONE DI RC
Siamo nel cuore di Sirens, quando Kiki (Julianne Moore) si apre con Simone (Milly Alcock) in uno dei pochi momenti in cui il suo tono, di solito giocoso e manipolatorio, lascia spazio a una vulnerabilità più scoperta. Siamo lontani dai sorrisi di facciata e dai tè profumati nella veranda della Cliff House. Il contesto è un dialogo privato, quasi intimo, ma carico di sottotesti.
MINUTAGGIO: 13:00-15:07
RUOLO: Kiki
ATTRICE: Julianne Moore
DOVE: Netflix
ITALIANO
Oh, lo è stata, all’inizio. I miei colleghi erano attoniti quando sono diventata la signora Kell. Ero sempre in viaggio per Aspen, o Mallorca, o il lago di Como. Si aspettavano che lasciassi il lavoro, ma io dicevo: “No, no no, la mia carriera è la mia identità, ma poi succede. Sei così impegnata con la casa, le cene, e a cercare di rimanere in cinta. E poi lui continua a dire: “Michela, lascia che mi prenda cura di te”. E così un giorno ti convinci: mandi qualcuno a sgombrare quell’ufficio che significava tanto per te. Quindi… la tua vita diventa immensa, quando sei la signora qualcuno. Ma alla fine tu svanisci. Se pETER dovesse divorziare da me perderei tutto: la riserva, la voliera, la mia vita dipende dalla sua professione. Io lavoro per lui. Lo facciamo tutti. Qui non si tratta di me, però, si tratta di me. Tu non… non devi scegliere di accontentarti. Tu hai uno splendido futuro davanti a te. Voglio che inizi a presiedere la nostra Fondazione a New York.
"Sirens", miniserie Netflix rilasciata a maggio 2025, scritta e creata da Molly Smith Metzler (già autrice di Elemeno Pie, pièce da cui è tratta la serie), è un racconto che si muove sul confine sfumato tra satira sociale e noir relazionale. Otto episodi che portano lo spettatore dentro una gabbia dorata piena di uccelli rapaci, verità taciute e dinamiche di potere tutte al femminile. Una serie che fa il verso ai ricchi viziati di The White Lotus e The Perfect Couple, ma con una sua voce riconoscibile, disturbante e magnetica. La storia si apre in modo molto semplice, quasi da commedia amara: Devon (Meghann Fahy), trentenne fallita con tendenze autodistruttive, si rimette in contatto con la sorella minore Simone (Milly Alcock), ormai inserita nella ristretta cerchia di fiducia di una milionaria eccentrica e potentissima, Michaela “Kiki” Kell (Julianne Moore). Da questo pretesto nasce il vero nucleo narrativo: il ritorno a una relazione familiare che non ha mai smesso di bruciare, ora però travolta dal fascino tossico di un potere femminile manipolatore, raffinato e narcisista.
Devon è il personaggio che ci introduce in questo mondo: grezza, impulsiva, priva di filtri. Simone è l’esatto opposto: levigata, contenuta, funzionale. Tra loro si inserisce Kiki, figura enigmatica e potentemente simbolica, che trasforma la sua fondazione ornitologica in un dispositivo di controllo quasi settario. Tutta la serie si svolge nella sontuosa Cliff House, sulla costa di Martha’s Vineyard. Un’ambientazione da fiaba per adulti, che però ha i tratti visivi e narrativi di un incubo lucido. Kiki governa la casa come una sovrana assoluta: ogni stanza, ogni camera, ogni oggetto è sorvegliato, scelto, disposto secondo criteri che sembrano estetici ma in realtà sono strumenti di controllo.
La villa diventa così una prigione invisibile. I domestici non possono mangiare carboidrati, i telefoni sono monitorati, le conversazioni intercettate. La libertà è sostituita da una routine rassicurante e totalitaria, dove ogni gesto è parte di una coreografia pensata da Kiki.
Tre donne, tre generazioni (idealmente), tre visioni del mondo. Devon rappresenta l’autenticità abrasiva: non si è mai adattata, ha scelto l’autosabotaggio come forma di resistenza. È un personaggio senza filtro, spesso sgradevole, ma profondamente umano. Simone è la donna che ha scelto di cancellarsi per rinascere. Ha eliminato il passato, cambiato il volto, rinnegato la sorella. La sua evoluzione è il cuore pulsante della serie: da assistente remissiva a nuova dominatrice della scena, ma a caro prezzo. Kiki, invece, incarna un potere femminile ambiguo e disturbante. Madre surrogata, seduttrice emotiva, guru manipolatrice: usa l’empatia come strumento di dominio. L’attenzione che rivolge a Simone non è affetto, è investimento.
Col procedere degli episodi, la tensione cresce in modo sotterraneo. Le dinamiche di controllo diventano sempre più evidenti, le allucinazioni emotive più complesse. La relazione tra Simone e Peter (Kevin Bacon), marito di Kiki, è il punto di rottura. Un bacio fortuito, e Kiki reagisce come un predatore ferito: caccia Simone, isola Devon, e fa crollare il castello. Ma Simone non è più la stessa. Il potere l’ha contaminata. Manipola a sua volta, si insinua tra le crepe emotive di Peter e ottiene ciò che vuole: una vita di lusso, il ruolo che fu di Kiki. Ma a differenza di Kiki, non è in grado di gestirlo con freddezza. La sua ascesa è il preludio alla sua solitudine. Il finale è circolare, ma senza redenzione. Simone ha vinto, ma è rimasta sola. Kiki è scomparsa, ma il suo fantasma resta in ogni gesto. Devon torna alla sua vita, definitivamente estranea alla sorella. Il legame di sangue non basta più. Il potere ha fatto il suo corso.
Più che una semplice black comedy o un dramma familiare, Sirens è un’indagine sulla trasformazione. Su come i traumi si trasmettono, su come il potere si eredita e si corrompe, su quanto sia facile scambiare l’amore per controllo e il successo per libertà. Julianne Moore è al centro come un buco nero che inghiotte tutto, ma sono Fahy e Alcock a renderlo vivo, contrastando quel fascino con la loro vulnerabilità ferita.
"Oh, lo è stata, all’inizio." Il monologo parte in modo quasi frivolo, con una frase apparentemente casuale: Kiki parla della sua vita da moglie del ricco Peter Kell. "Lo è stata" si riferisce alla gioia, all'euforia, alla percezione di un privilegio. E qui sta il primo inganno: Kiki si posiziona come una donna che ha avuto tutto, ma lo fa con il tono di chi racconta una parabola. Non c’è gioia, ma una rassegnazione lucida. "Ero sempre in viaggio per Aspen, o Mallorca, o il lago di Como." Questa parte serve a disegnare il lifestyle aspirazionale che caratterizza l’alta borghesia americana. Kiki enuncia i luoghi come se fossero tappe obbligate di un copione già scritto. Aspen, Mallorca, Como… nomi evocativi, ma nel suo tono diventano vuoti. Come cartoline da una vita che non ha scelto davvero.
"La mia carriera è la mia identità..." Qui il nodo emotivo si stringe. Kiki lascia trapelare che prima del lusso c’era un lavoro, una professione, una persona. Ma subito dopo arriva la resa: “E poi succede”. È un passaggio che spiega con poche parole come si scivola nella dipendenza affettiva e finanziaria: senza un gesto preciso, ma per erosione lenta. Una frase che suona quasi come una giustificazione, o forse come una condanna autoimposta. "Mandi qualcuno a sgombrare quell’ufficio..." Questa immagine è potentissima. Non è lei che svuota l’ufficio: lo fa “qualcuno”. Come se non volesse sporcarsi le mani. È un distacco emotivo che comunica perfettamente la dissociazione interna. Quell’ufficio rappresentava l’ultima traccia di identità personale. Una volta tolto, non resta che il ruolo: la moglie, la filantropa, la padrona di casa. "La tua vita diventa immensa, quando sei la signora qualcuno. Ma alla fine tu svanisci."
Ecco il cuore del monologo. Una frase che sembra tratta da un dramma teatrale classico. L’immensità qui è ironica: è la grandezza del ruolo pubblico che schiaccia l’individuo. È una vita ampia, visibile, ma completamente svuotata. Il verbo “svanire” chiude la riflessione con una nota quasi tragica. Kiki è una presenza ingombrante, ma in realtà è già un’assenza. Una donna cancellata dietro un titolo.
"Io lavoro per lui. Lo facciamo tutti." Questa frase è un’accusa implicita, e qui Kiki si mostra per ciò che è veramente: una donna che ha interiorizzato il potere maschile al punto da diventarne ingranaggio e perpetuatrice. Non è più una moglie, è un’ingranatura del sistema Peter Kell. E il “lo facciamo tutti” rivela che non si sente sola: vede attorno a sé solo altri esseri umani incastrati in ruoli funzionali, pronti a obbedire. "Tu hai uno splendido futuro davanti a te. Voglio che inizi a presiedere la nostra Fondazione a New York." Il monologo si chiude con un’offerta che è anche una trappola. Il “consiglio” diventa proposta. E la proposta è un passaggio di testimone. Ma non è un regalo: è l’inizio di un altro ciclo di svuotamento. Kiki offre a Simone la stessa illusione di scelta che ha distrutto lei. Solo che stavolta lo fa con la consapevolezza di chi sa perfettamente come va a finire.
Questo monologo di Kiki è uno snodo narrativo fondamentale perché, pur essendo una dichiarazione apparentemente sincera, funziona su due livelli: confessione e seduzione. Kiki si presenta come una donna disillusa, ma in realtà sta cercando di riprodurre il proprio modello fallimentare in Simone. È come se le stesse dicendo: "Io ho fallito, ora tocca a te… ma fallo meglio".
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