Monologo femminile - Lisa Gilroy in \"Black Mirror 7: Gente Comune\"

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Articolo a cura di...


~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo è la forma più pura di propaganda futurista alla Black Mirror. Non c’è dramma, non c’è conflitto, non c’è minaccia apparente. Ma è proprio questo a renderlo agghiacciante. Si presenta come uno spot pubblicitario patinato, rassicurante, rivolto a un target ben preciso – le madri, le donne che vogliono "riprendersi il controllo", sentirsi vive, desiderabili, performanti. E lo fa con le stesse parole che sentiamo ogni giorno: potenziamento, controllo, felicità a comando. Solo che qui, come sempre in Black Mirror, la patina luccicante nasconde un abisso.

Rivermind mi ha salvato la vita

STAGIONE 7 EPISODIO 1
MINUTAGGIO
: 36:15- 37:30

RUOLO: Mamma
ATTRICE:
Lisa Gilroy
DOVE:
Netflix



ITALIANO


Dopo l’intervento di liposuzione quasi fatale, RiverMind mi ha salvato la vita. E adesso, c’è qualcosa di ancora meglio. RiverMind Lux. RiverMind Lux non si limita a far funzionare il cervello. Esalta i vostri sensi, le immagini, i suoni, i sapori, e la sensazione di questa brezza. Tutte le sensazioni fisiche sono semplicemente più… sensazionali che mai. E siete voi al comando. Regolate le intensità a vostro piacimento. Controllate il vostro umore, con l’App riverMind. E con l’esclusivo Browser di RiverMind Lux, prendere in prestito capacità e caratteristiche di altri utenti. Se pensate di non poter fare parkour, non è così! RiverMind Lux: La vita, ma non come la conoscete.

Black Mirror 7

La settima stagione di Black Mirror è un ritorno al cuore stesso della serie: una riflessione (amara, inquieta, a tratti dolorosa) su un futuro che non sembra poi così distante, e che parla molto più del nostro presente di quanto vorremmo ammettere. Dopo il passo falso del sesto ciclo, che flertava troppo con il paranormale e con una vena retro poco in linea con l’anima high-tech della serie, Charlie Brooker riporta la narrazione dentro coordinate più familiari: distopie possibili, ansie contemporanee e una tecnologia che evolve più in fretta della nostra capacità di comprenderla e gestirla.nQuesta settima stagione è meno "avveniristica" nel senso sci-fi classico e più ancorata a un futuro molto prossimo, che potremmo tranquillamente vedere fra cinque anni, massimo dieci. I sei episodi sono tutti autoconclusivi, come da tradizione, ma per la prima volta si percepisce un’anima più sentimentale, quasi umanista. Non si parla solo di tecnologia, ma di come essa si intrecci con le emozioni, con i legami, con la memoria e l’identità personale.


Se c’è un tema dominante, è il prezzo del progresso. Ma non un prezzo metaforico o etico: proprio il prezzo in senso economico. Gli abbonamenti digitali, le clausole nascoste, le versioni freemium della vita stessa. E la domanda più disturbante non è “quanto siamo disposti a pagare?”, ma “cosa accade quando non possiamo più permettercelo?”.



1. Common People


È l’episodio manifesto della stagione. La distopia è lucida e concreta: il backup digitale della coscienza come abbonamento mensile. Ma la potenza del racconto non sta nella tecnologia in sé, bensì nella lentezza del suo deterioramento e nell’inflessibilità del sistema che la gestisce. Amanda diventa un software a pagamento. Mike, l’uomo che la ama, guarda la donna che conosceva diventare una versione sempre più limitata, sempre più “trial”. Chris O’Dowd è devastante nel rendere il senso di impotenza di fronte a un sistema che non si può combattere, solo subire. È Black Mirror nella sua forma più pura: un dramma umano con un contesto tecnologico spietato.Tema chiave: monetizzazione dell’esistenza – e la disumanizzazione mascherata da progresso.



2. Bête Noire


Una rivisitazione in chiave distopica del confronto tra vittima e carnefice, in un setting che flirta con il concetto di realtà alternative. La tensione qui non deriva tanto dalla tecnologia, quanto dalla paranoia, dal non sapere se quello che accade è vero o solo percepito. L’episodio è un interessante studio sul potere e sulla memoria, su chi detiene il controllo della narrazione. E sul desiderio, spesso sottovalutato, di rivincita sociale. Tema chiave: riscrittura del passato e vendetta emotiva, con uno sguardo malato sull’apparenza.



3. Hotel Reverie


Una delle puntate più ambiziose, visivamente e concettualmente. Un film classico viene “abitato” da attori digitali, con risultati che sfiorano la malinconia di Her e la nostalgia cinefila di The Artist. Ma il tema vero è quello dell’autenticità in un mondo in cui ogni emozione può essere programmata. Può un amore nato da un copione essere reale? L’episodio non trova una risposta chiara – e va bene così. Tema chiave: l’illusione dell’autenticità nei mondi sintetici. E il bisogno umano di crederci lo stesso.



4. Come un giocattolo


Il più anomalo della stagione, quasi un horror psicologico travestito da retro game. Lì dove ci si aspetterebbe nostalgia, Brooker tira fuori un senso di colpa generazionale. I nerd degli anni ‘90, creatori di mondi, diventano oggi figure ambigue, cariche di traumi e contraddizioni. Il Tamagotchi come metafora della responsabilità verso le intelligenze artificiali che abbiamo creato. E l’umano, ancora una volta, si rivela il vero mostro. Tema chiave: responsabilità creativa, abuso tecnologico, e la crudeltà connaturata all’essere umano.



5. Eulogy


Un racconto che parte come una riflessione sul lutto ma vira verso un territorio più ambiguo: quello della memoria falsata. Paul Giamatti è struggente nel dare voce a un uomo che si aggrappa ai ricordi per non affondare, mentre lo spettatore viene lentamente spinto a dubitare della verità di quei ricordi. Cosa ricordiamo davvero? E cosa invece scegliamo di ricordare per proteggerci? Tema chiave: soggettività della memoria e illusione terapeutica della tecnologia.



6. USS Callister: Into Infinity


Il primo vero sequel della serie – e una scelta audace. Brooker decide di espandere l’universo narrativo di USS Callister, ma lo fa con intelligenza: anziché ripetere lo schema del primo episodio, mette in scena un conflitto etico tra due visioni opposte dell’individuo: si può cambiare, o restiamo sempre uguali? Il tono resta quello di una space-opera satirica, ma il cuore dell’episodio è profondamente filosofico. Tema chiave: identità, rieducazione e redenzione, nel contesto di una simulazione senza regole.

Questa settima stagione non inventa nulla di nuovo, ma torna a porre domande scomode con una lucidità narrativa che mancava da un po’. Il futuro immaginato non è fatto di robot o navicelle spaziali, ma di contratti, abbonamenti, backup digitali, simulazioni cinematografiche e videogiochi che assomigliano fin troppo alla nostra vita reale.

Analisi Monologo

Dopo l’intervento di liposuzione quasi fatale, RiverMind mi ha salvato la vita.” La prima frase è già tutto un manifesto. La narrazione inizia con una confessione personale, quasi tragica – ma subito svoltata in chiave promozionale. È una struttura classica degli spot motivazionali: caduta e riscatto. Solo che qui il riscatto è garantito da una tecnologia che resuscita, riplasma e ottimizza. L’intervento estetico quasi fatale non è un incidente: è un promemoria di quanto sia fragile il corpo umano… e quanto “inutile” possa diventare nel mondo del potenziamento digitale.


“E adesso, c’è qualcosa di ancora meglio. RiverMind Lux.” Qui inizia la vera pubblicità. “Ancora meglio”: frase fatta, volutamente vuota, ma familiare. Introduce la nuova versione del prodotto – RiverMind Lux – come si farebbe con un nuovo iPhone. Lo schema è chiaro: non solo ti salvi, adesso puoi migliorarti. Il salto non è più tra morte e vita. È tra vita e vita potenziata. La normalità non basta più.


Esalta i vostri sensi, le immagini, i suoni, i sapori, e la sensazione di questa brezza.” Il tono qui diventa sensoriale, quasi poetico. La promessa è un ritorno a un’esperienza corporea intensificata. La tecnologia non è più solo un supporto: è un filtro sensoriale, un amplificatore del reale. Siamo oltre l’estetica. Ora è il sistema nervoso ad essere “curato”. Tutto diventa più forte, più vivido. E soprattutto: più controllabile.


“E siete voi al comando. Regolate le intensità a vostro piacimento.” Questa è la chiave centrale del monologo: l’illusione del controllo. È la fantasia definitiva del consumatore moderno. Non vogliamo solo vivere meglio, vogliamo scegliere come sentirci. È la psicologia trasformata in un’interfaccia. Qui Brooker ci dice: cosa succede quando l'umore diventa un parametro da settare, come la luminosità dello schermo?

Controllate il vostro umore, con l’App RiverMind.” Una sola frase, e siamo in pieno body hacking. La mente, lo stato d’animo, l’identità… tutto regolabile da un’app. È il sogno dell’auto-miglioramento spinto all’estremo: non più solo “esserci”, ma essere la versione che più ci conviene in quel momento. Qui la tecnologia non ci aliena più, ci ridefinisce. La mente non è più uno spazio personale, ma un sistema operativo con settaggi.

E con l’esclusivo browser di RiverMind Lux, prendere in prestito capacità e caratteristiche di altri utenti.” Qui Brooker cala l’asso. Siamo nella logica della sharing consciousness. Non solo posso modificare me stesso, ma posso caricare parti di altri. Competenze, emozioni, tratti. In un certo senso: identità-on-demand. È la forma estrema della performance sociale. Se sui social media possiamo “mostrare” ciò che non siamo, ora possiamo esserlo davvero. O almeno far finta.


Se pensate di non poter fare parkour, non è così!” Questa battuta è geniale nella sua leggerezza. Un esempio ridicolo – il parkour – per far sembrare tutto accessibile, giocoso, friendly. Ma è proprio in questo dettaglio che si svela l’inganno: stanno vendendo l’impossibile come fosse fitness. È un’esca. È lo spot che ti dice: non serve cambiare te stesso, basta aggiornarti. Sei l’unico limite al tuo potenziale. O meglio: lo eri. Ora non più.


RiverMind Lux: La vita, ma non come la conoscete.” Lo slogan finale suona familiare perché lo è. Ricalca decenni di marketing tecnologico – da “Think Different” a “The future is now”. Ma qui assume una connotazione più inquietante. La vita non è più quella che conosciamo, e va bene così. L’anomalia diventa standard.

Conclusione

Questo monologo è uno spot perfetto per un mondo imperfetto. Scritto per sedurre, non per informare. Ma Brooker, da autore abituato a dissezionare i linguaggi del presente, lo costruisce come una trappola semantica. La protagonista non parla davvero a noi, ma per noi. Dice tutto quello che vogliamo sentirci dire.

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