Monologo femminile - Michelle Williams in \"Dying for sex\"

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Articolo a cura di...


~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

In questo monologo il linguaggio è diretto, asciutto, quasi cronachistico. Non c’è spazio per l’emozione esplicita: ogni dettaglio viene esposto in modo lineare, quasi distaccato. Ma è proprio questa distanza apparente che amplifica l’impatto. Non stiamo ascoltando una narrazione emotiva: stiamo assistendo a una ricostruzione. E, come spesso accade nel trauma, la memoria si ancora ai dettagli concreti – il succo d’arancia, la pioggia, l’orologio – per non perdersi nella voragine del dolore.

La protagonista non ci sta solo raccontando un abuso. Ci sta raccontando il momento in cui ha smesso di poter contare su chi avrebbe dovuto proteggerla.

Mio zio mi ha abusato

STAGIONE 1 EPISODIO 6
MINUTAGGIO
: 10:07-11:31

RUOLO: Molly
ATTRICE:
Michelle Williams
DOVE:
Disney+



INGLESE


The summer I turned seven, I was molested by my mom's new boyfriend. He was rich. He had a fancy watch that my mom loved. He was taking us to Florida. So the night before the trip, we stayed at his apartment. We took our suitcases over in the rain. My mom asked for orange juice. I was standing in the doorframe between the living room where my mom was, and the bedroom, where he was stirring powder into her juice with his finger. I didn't tell her. A few minutes later, she passed out cold. Then her boyfriend had me play oral sеx games, telling me he loved me. And... All I wanted to do was leave. But he'd hid my clothes. So I threw a brush at him and stormed out of his bedroom. I wanted to go home. I went to find my mom. I shook her as hard as I could. 'We have to go, ' I said. She woke up for three seconds and said, 'Go on, I'm sleeping.' Then I went back to the boyfriend and apologized for hitting him with a brush.



ITALIANO


L’estate in cui compii sette anni, fui molestata dal compagno di mia madre. Era ricco, aveva un costoso orologio che mia madre adorava. Era ricco, doveva portarci in Florida, e la sera prima del viaggio rimanemmo soli nel suo appartamento. Portammo lì le valigie sotto la pioggia. Mia madre chiese un succo d’arancia. Io ero in piedi sulla porta, tra il salone dove era mia madre e la camera da letto, dove lui mescolava della polverina nel succo. A lei non lo dissi. Qualche minuto dopo perse i sensi. Il suo compagno mi fece fare del sesso orale, dicendomi ch emi amava. Io volevo solo andare via, ma aveva nascosto i vestiti. Così gli tirai una spazzola, e uscii dalla camera. Volevo tornarmene a casa. Andai a cercare mia madre, la scossi più che potevo: “Dobbiamo andare”, le dissi. Si svegliò per tre secondi e disse:”Tu vai, sto dormendo“. Tornai in camera dal compagno di mia madre e mi scusai per averlo colpito.

Dying for sex

Dying for Sex” è una serie che racconta la storia vera di Molly Kochan, una donna a cui è stato diagnosticato un cancro metastatico al seno in fase terminale, e che, di fronte all’inevitabilità della morte, decide di riappropriarsi del proprio corpo attraverso un gesto tanto semplice quanto sconvolgente: il piacere. No, non la riconciliazione con il passato, non la serenità in un letto d’ospedale, non la spiritualità salvifica. Parliamo di orgasmi. Di esplorazione del desiderio. Di sesso vissuto come atto di autodeterminazione. E in questo senso il titolo della serie, “Dying for Sex”, è tutto tranne che una provocazione gratuita: è una sintesi lucida, e per nulla edulcorata, del progetto narrativo. Molly, interpretata da una Michelle Williams in stato di grazia, decide di lasciare il marito Steve (Jay Duplass) dopo aver ricevuto la diagnosi. Non lo fa per disperazione. Lo fa per coerenza. Perché capisce che la vita che stava vivendo non è quella che vuole vivere adesso, con il tempo che si è improvvisamente ristretto. La sua nuova missione? Provare a conoscere, sul serio, cosa significhi il piacere sessuale. Farlo fuori da qualsiasi cornice di norma o aspettativa sociale. E qui arriva la sua lista dei desideri sessuali. Dall’incontro con sconosciuti a sessioni di dominazione, Molly sperimenta tutto, lasciandosi accompagnare dalla sua migliore amica Nikki (Jenny Slate), che è il vero cuore emotivo della serie.


La loro amicizia è quel tipo di legame che non solo sostiene, ma riflette. Nikki non è lì solo per “esserci”: è lo specchio che rimanda a Molly un’immagine di sé nuova, liberata, viva. E il bello è che questa dinamica non è scritta con retorica o sentimentalismi. È concreta, imperfetta, spesso ironica, ed è proprio lì che la serie trova il suo tono autentico. La serie – otto episodi da mezz’ora, tutti disponibili su Disney+ – è figlia di un’operazione ibrida. A livello di formato si muove come una comedy (tempi rapidi, dialoghi brillanti, un tocco visivo alla “Fleabag” per intenderci), ma l’emotività che sprigiona è quella del dramma più intimo. E poi c’è il dettaglio che spacca tutto: è una storia vera. La vera Molly Kochan ha realmente intrapreso questo percorso, ha realmente raccontato questi incontri nel podcast “Dying for Sex” ideato insieme a Nikki Boyer, la sua amica del cuore, e lo ha fatto con un'onestà disarmante. La serie si prende qualche libertà, ovviamente, ma rimane fedele allo spirito del racconto originale.

Michelle Williams ci ha abituato a ruoli di donne complesse, spesso devastate da una forma di dolore silenzioso (“Blue Valentine”, “Manchester by the Sea”, “Fosse/Verdon”). Qui il registro cambia.


Molly è piena di contraddizioni: è ironica, sessualmente curiosa, rabbiosa, tenera, cinica. E Williams – che è anche produttrice della serie – non cerca mai la simpatia dello spettatore. Non edulcora. Non addolcisce. Porta in scena la sessualità come bisogno e come gesto estremo di espressione di sé. Una scena su tutte (che lei stessa ha commentato con grande sincerità): Molly sola in una stanza d’albergo che si masturba usando… un pesce rosso in una boccia. È una scena assurda, sì. Ma è anche il simbolo di quanto la serie voglia dire: “eccoci, questo è il corpo. Questo è il desiderio. Questo è il nostro modo di dire: io ci sono ancora”. Jenny Slate interpreta Nikki e probabilmente firma la sua miglior interpretazione in carriera. C’è qualcosa di raro nel modo in cui riesce a passare da momenti comici a quelli di dolore puro con una naturalezza che ti fa dimenticare che sta recitando. È la sua presenza che tiene insieme la serie. E questo è coerente con la storia reale: Nikki era davvero il pilastro di Molly. Era quella che l’ascoltava, che rideva con lei delle assurdità dei suoi incontri, che piangeva in macchina e poi le stringeva la mano mentre il corpo si spegneva. Questa non è una storia d’amore romantico. È una storia d’amore amicale. Ed è potentissima.


Il miracolo di “Dying for Sex” è che non c’è mai un tentativo di nobilitare la malattia. Né il sesso. Non ci sono monologhi che cercano di insegnarti qualcosa. Eppure impari tanto. Soprattutto una cosa: che il desiderio – soprattutto quello femminile – può essere un atto politico. Un gesto di libertà. Un modo per dirsi: “Sono ancora qui, e il mio corpo non è solo un luogo del dolore, ma anche del piacere”.

E poi sì, ci sono anche peni che svolazzano, gag assurde, scene inaspettate. Perché questa serie non è fatta per essere semplice. È fatta per essere viva. Proprio come Molly.

Analisi Monologo

Era ricco, aveva un costoso orologio che mia madre adorava.” Il monologo si apre con un riferimento materiale: la ricchezza dell’uomo, l’orologio. Sono dettagli che definiscono il potere. L’uomo non è descritto per le sue azioni, ma per ciò che possiede. Questo ci dice molto: agli occhi della madre, probabilmente, lui era una promessa di stabilità, forse di felicità. Agli occhi della bambina, invece, è una figura ambigua, pericolosa, ma a cui non sa dare un nome. Io ero in piedi sulla porta…La protagonista è letteralmente in bilico tra due stanze: simbolicamente è in bilico tra due mondi. Da una parte c’è la madre, apparentemente distratta, inconsapevole. Dall’altra c’è l’uomo, che manipola e prepara la violenza. Questa immagine di lei sulla soglia è potentissima: è lì che inizia a perdersi l’infanzia. È lì che smette di essere una figlia protetta, e diventa una bambina sola.


Mi molestò… mi disse che mi amava.Qui il monologo tocca un punto agghiacciante: la confusione tra amore e violenza. L’aggressore usa parole che appartengono al lessico dell’affetto per coprire un atto predatorio. È un corto circuito che spesso si verifica nei racconti di abuso, e che spezza in due la capacità della vittima di leggere ciò che sta accadendo. Questo è uno dei passaggi più duri da digerire, proprio perché mette in discussione il significato stesso della parola “amore”. Tornai in camera dal compagno di mia madre e mi scusai per averlo colpito.Qui arriva il colpo più doloroso. La bambina – che ha appena subito un atto di violenza – chiede scusa. Non lo fa per convinzione, ma perché non ha alternative. La madre è assente, l’ambiente è ostile, e lei capisce che, per sopravvivere, deve compiacere l’aggressore. È un meccanismo psicologico tristemente noto nelle vittime di abuso: il “falso sé” che si crea per adattarsi al contesto e placare il pericolo. Questo momento è narrativamente straziante, perché ci restituisce una verità feroce: quando sei piccolo e vulnerabile, chiedere scusa può sembrare più sicuro che chiedere aiuto.

Conclusione

Il monologo non cerca riscatto. Non cerca giustizia. Non cerca nemmeno di scioccare. È, più che altro, una testimonianza fredda. Ma proprio in questa freddezza c’è tutto: il peso del ricordo, la lucidità del trauma, la solitudine profonda. La protagonista non sta condividendo il dolore per ricevere comprensione. Lo sta facendo per dirsi la verità, forse per la prima volta. È un gesto di restituzione. Di consapevolezza. Di controllo.

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