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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo incarna perfettamente il registro ironico e meta-riflessivo con cui Greta Gerwig racconta la storia. Parte come una specie di fiaba (“fin dalla notte dei tempi…”), si trasforma in un saggio breve sul femminismo e il marketing, e si chiude con una stoccata sottile ma tagliente a Ken — che anticipa molto di ciò che accadrà dopo. C’è un uso brillante della voce narrante: non onnisciente in senso tradizionale, ma cosciente di parlare al pubblico di oggi, con tutto il bagaglio culturale, storico e satirico che Barbie si porta dietro. È una narrazione che flirta con il documentario, ma poi rientra nel surreale. E il tono? Oscilla tra l’affettuoso e il corrosivo. Il monologo non giudica Barbie, ma ne mette a nudo le contraddizioni.
MINUTAGGIO: 1:10-3:16
RUOLO: Narratrice
ATTRICE: Helen Mirren
DOVE: Netflix
INGLESE
Since the beginning of time, since the first little girl ever existed, there have been dolls. But the dolls were always and forever baby dolls. The girls who played with them could only ever play at being mothers. Which can be fun, at least for a while, anyway. Ask your mother. This continued until… Yes, Barbie changed everything. Then, she changed it all again. All of these women are Barbie, and Barbie is all of these women. She might have started out as just a lady in a bathing suit, but she became so much more. She has her own money, her own house, her own car, her own career. Because Barbie can be anything, women can be anything. And this has been reflected back onto the little girls of today in the Real World. Girls can grow into women, who can achieve everything and anything they set their mind to. Thanks to Barbie, all problems of feminism and equal rights have been solved. At least that’s what the Barbies think. After all, they’re living in Barbie Land. Who am I to burst their bubble? And here is one of those Barbies now, living her best day every day. When you’re playing with Barbies… …nobody bothers to walk them down the stairs and out the door, et cetera. You just pick them up and put them where you want them to go. You use your imagination. Barbie has a great day every day, but Ken only has a great day if Barbie looks at him.
ITALIANO
Fin dalla notte dei tempi, da quando nel mondo è esistita la prima bambina, sono esistite le bambole. Ma le bambole erano sempre, per sempre… bambolotti. Le bambine che ci giocavano potevano giocare soltanto ad essere madri. Che può essere divertente, almeno per un pò, comunque. Chiedete a vostra madre. La cosa è andata avanti, finché… Si, Barbie ha cambiato tutto. E poi ha cambiato tutto di nuovo. Tutte queste donne sono Barbie, e Barbie è tutte queste donne. Se anche ha cominciato come donna in costume da bagno, è diventata molto di più: ha i suoi soldi, la sua casa, la sua macchina, la sua carriera… dato che Barbie può essere chiunque voglia, le donne possono essere chiunque vogliano, e questo si riflette sulla vita delle bambine oggi nel mondo reale. Le bambine diventano donne che possono raggiungere qualsiasi obiettivo si mettano in testa. Grazie a Barbie tutti i problemi del femminismo degli uomini ricchi sono stati risolti. Almeno questo è ciò che pensano le Barbie, dopotutto vivono a Barbieland. Chi sono io per rovinare la festa? Ed ecco una di quelle Barbie, ora, che vive il giorno più bello ogni giorno. Quando giochi con le Barbie non ti preoccupi di farle scendere dalle scale, uscire dalla porta, eccetera, semplicemente le prendi e le porti dove stiano. Usi l’immaginazione. Per Barbie, ogni giorno è un grande giorno, ma per Ken è un grande giorno solo se Barbie lo guarda.
Il film Barbie (2023), diretto da Greta Gerwig, parte da un’idea apparentemente semplice e pop: Barbie vive a Barbieland, un mondo perfetto, pieno di colori pastello, routine impeccabili, sorrisi eterni e case dei sogni. Tutte le Barbie sono donne di successo: ci sono Barbie astronauta, giudice della Corte Suprema, chirurga, premio Nobel, presidentessa. I Ken? Sono accessori decorativi. Presenti, ma marginali.
La protagonista è Stereotypical Barbie, interpretata da Margot Robbie. È la Barbie “classica”, quella bionda con il sorriso fisso e la vita perfetta. Un giorno, però, qualcosa si incrina: inizia ad avere pensieri di morte, si sveglia con l’alito cattivo, i piedi piatti, si sente fuori posto. Per capire cosa le sta succedendo, si rivolge a Weird Barbie (Kate McKinnon), una sorta di sciamana disfunzionale, che le consiglia di entrare nel mondo reale per trovare la bambina che ci sta giocando: perché qualcosa nella realtà sta interferendo con il suo mondo.
Barbie finisce a Los Angeles insieme a Ken (Ryan Gosling), che la segue senza invito. Qui succedono due cose importanti: Barbie scopre che il mondo reale non è come Barbieland — le donne non comandano, anzi, spesso sono oggetto di sessismo e controllo. Ken, invece, si sente finalmente visto. Scopre il concetto di patriarcato e se ne innamora. Quando tornano a Barbieland, Ken porta con sé il patriarcato e lo instaura come nuovo ordine sociale: cavalli ovunque, birra, TV a schermo gigante e Barbie ridotte a ruoli di supporto. A questo punto, Barbie — disorientata e sfiduciata — deve decidere chi è, e cosa vuole essere. Qui entra in gioco il monologo di Gloria (America Ferrera), che è uno dei punti centrali del film, ma ci torno in un’altra analisi perché merita un approfondimento tutto suo. La trama si chiude con un ribaltamento: le Barbie riconquistano Barbieland, ma soprattutto Barbie (quella stereotipata) decide di non tornare a essere una bambola perfetta. Vuole essere umana, con tutto il caos e la libertà che comporta.
Un incipit volutamente mitico e solenne, che richiama i toni delle narrazioni bibliche o dei documentari stile Planet Earth. Si parte dalla prima bambina del mondo, una figura archetipica. Ma l’ironia è già lì: stiamo parlando di bambole, non di civiltà. Eppure, si capisce subito che Gerwig vuole parlare di come le donne sono state rappresentate nella cultura, a partire dal gioco infantile. “Le bambole erano sempre, per sempre… bambolotti.” Qui arriva la prima osservazione diretta: le bambole, fino a un certo punto della storia, erano solo rappresentazioni della maternità. Il gioco con le bambole era un gioco di proiezione del ruolo sociale. Le bambine giocavano a fare le mamme. E stop.
“Si, Barbie ha cambiato tutto.” Con questa frase il film dichiara la sua intenzione di rivalutare il mito di Barbie, partendo però da una base ambigua. Barbie ha cambiato tutto, ma anche no. C’è un tono celebrativo — “è diventata molto di più” — ma anche una sottile ironia: “se anche ha cominciato come donna in costume da bagno…”. È una verità scomoda che viene subito messa in luce. L’estetica iperfemminile e commercializzata non viene nascosta, ma assorbita e messa in discussione. “Ha i suoi soldi, la sua casa, la sua macchina…” Barbie diventa un simbolo di autonomia femminile. Ha cose sue, non deve dipendere da nessuno. In un certo senso, è un’immagine di empowerment. Ma il film ci sta già avvisando: c’è una differenza tra empowerment narrativo e realtà vissuta. Barbie può essere tutto, e quindi — per estensione — le donne possono esserlo. Ma è davvero così semplice? “Grazie a Barbie tutti i problemi del femminismo degli uomini ricchi sono stati risolti.”
Qui arriva la frase chiave, satirica fino all’osso. È una battuta. E fa male. L’idea che Barbie abbia risolto il femminismo dal punto di vista degli uomini privilegiati è uno schiaffo a chi crede che basti mostrare una CEO in tailleur rosa per sistemare decenni di disuguaglianza strutturale. È un commento sarcastico sull’illusione del progresso rappresentativo: far vedere che “una donna può essere tutto” non vuol dire che tutte le donne abbiano effettivamente la possibilità di esserlo.
“Chi sono io per rovinare la festa?” Questa battuta apparentemente innocua in realtà smonta tutto il discorso precedente. È il narratore che fa un passo indietro, consapevole della costruzione fittizia che sta raccontando. E lancia un messaggio potente: siamo dentro un sogno color pastello, ma fuori da Barbieland le cose sono molto più complicate.
Ecco il doppio binario narrativo su cui il film si muove per tutta la sua durata. “Per Barbie, ogni giorno è un grande giorno. Ma per Ken…”
La chiusa è una miniatura perfetta del personaggio di Ken. Ken esiste solo se Barbie lo guarda. In questa frase c’è la premessa della crisi identitaria che esploderà nel secondo atto del film: Ken non ha un’identità autonoma, esattamente come Barbie non ce l’aveva all’inizio nel mondo reale. In un colpo solo, Gerwig ci mostra come entrambi siano vittime di una narrazione che assegna loro ruoli fissi, e li confonde con ciò che possono essere davvero.
Questo monologo è tutto tranne che introduttivo. È una tesi travestita da favola, e apre già tutte le domande che il film cercherà di esplorare e sovvertire: Chi decide cosa una donna può essere? La rappresentazione conta più della sostanza? Si può uscire da una narrazione prefabbricata e diventare qualcosa di non scritto?
La risposta non arriva subito, ma il seme è piantato.
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