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~ LA REDAZIONE DI RC
All’interno di Reservatet, ogni parola pesa. Ogni gesto è trattenuto, ogni emozione è gestita come una risorsa da amministrare con cura. È per questo che quando Cecilie, solitamente composta e razionale, pronuncia questo breve monologo, lo spettatore percepisce un piccolo cortocircuito. Non è una confessione, non è una rivelazione — è un tentativo incerto, spezzato, di mettere in parole qualcosa che non rientra nel linguaggio del suo mondo.
STAGIONE 1 EP 1
MINUTAGGIO: 5:00-6:15
RUOLO: Cecilie
ATTRICE: Marie Bach Hansen
DOVE: Netflix
ITALIANO
Ho vissuto un esperienza strana, in Francia. Un giorno, ero tra le montagne, ero in una cappella, in una zona stupenda, del tutto isolata. Verso la cima di Moustiers-Saint-Marie. E poi… dentro la chiesa… c’era una luce estremamente bella. C’era un silenzio… E a un certo punto… ho cominciato a piangere. Si, le lacrime uscivano a dirotto, ero come sopraffatta. Non lo so… E’ stato assurdo, io… E’ stato come se… non riesco a spiegarmelo.
Nell’’alta borghesia danese, dove le emozioni si tengono sotto controllo come i giardini all’inglese, Reservatet – tradotto da Netflix come “La Riserva” – affonda lo sguardo dove non si dovrebbe guardare: nei margini oscuri di una società che vive di regole implicite, silenzi condivisi e apparente perfezione. Sei episodi che non gridano, ma sussurrano inquietudine. E fanno molto più rumore così. La scomparsa di Ruby, giovane au pair filippina, è l’innesco narrativo. Un evento che, in un altro contesto, sarebbe forse solo un fatto di cronaca, ma che qui assume il peso di un piccolo terremoto morale. Perché Ruby non svanisce nel nulla: viene inghiottita da un sistema che preferisce non vedere. E la serie è tutta costruita su questa tensione: la tensione tra ciò che si mostra e ciò che si nasconde. La serie è ambientata a nord di Copenaghen, in un quartiere residenziale che sembra uscito da una brochure di architettura scandinava. Un luogo in cui il disordine è vietato, anche quello emotivo.
Qui vive Cecilie (Marie Bach Hansen), madre, moglie, ex professionista e oggi pienamente integrata in quel rituale borghese fatto di compostezza, sorrisi calibrati e brunch educati. Ma Cecilie non dorme più tranquilla. C’è qualcosa nella scomparsa di Ruby che la scuote, che non si allinea con le spiegazioni frettolose della polizia o con i commenti distratti dei vicini. E non è la sola. Angel, l’au pair che vive nella sua casa, è amica di Ruby. Le racconta cose. Non troppe, ma abbastanza perché qualcosa inizi a incrinarsi.
A indagare sul caso ufficialmente è Aicha (Sara Fanta Traore), giovane investigatrice trasferita da poco nella zona, che incontra subito i muri passivi-aggressivi del quartiere. La sua presenza è mal tollerata, e non solo perché fa domande scomode. Ma La Riserva non è una crime story classica: è una discesa lenta, e psicologicamente dolorosa, nel territorio della colpa condivisa.
Cecilie e Angel, guidate da una strana alleanza che unisce mondi lontanissimi, cominciano a scavare. Ma quello che trovano non è solo la verità sulla scomparsa di Ruby: trovano come funziona quel mondo. E quanto tutti – anche chi si crede “una brava persona” – siano parte del problema.
“Ero tra le montagne… verso la cima di Moustiers-Saint-Marie…” Il luogo scelto non è neutro. Moustiers-Saint-Marie è un piccolo villaggio del sud-est della Francia, noto per essere letteralmente incastonato nella roccia, vicino a un santuario mariano. Una località antica, verticale, remota. La descrizione iniziale ha una qualità quasi mistica, e introduce subito un tono straniante, fuori asse rispetto all’universo iper-razionale in cui Cecilie vive. “C’era una luce estremamente bella. C’era un silenzio…” Qui entra in gioco il linguaggio sensoriale. Cecilie non analizza, non razionalizza. Sente. È immersa nella luce e nel silenzio, elementi che – in cinema come in architettura – sono carichi di significato. La luce non illumina, rivela. Il silenzio non è solo assenza di suono, ma spazio dove qualcosa può emergere.
E infatti qualcosa emerge. “Ho cominciato a piangere… ero come sopraffatta… è stato come se… non riesco a spiegarmelo.” È in questa parte che il monologo prende forma come momento di cedimento emotivo. Non c’è evento scatenante. Non c’è trauma immediato, né un motivo apparente. Le lacrime non arrivano per qualcosa, ma da qualcosa. È come se il corpo di Cecilie, per un istante, agisse al posto suo. Come se avesse bisogno di far uscire qualcosa che lei, mentalmente, non è ancora in grado di nominare.
Il punto forte di questa scena è proprio questo: la frammentazione del discorso riflette l’incapacità – o la non volontà – di razionalizzare l’esperienza. Cecilie, che in altri contesti è precisa, ordinata, pulita nel linguaggio, qui balbetta. Ripete. Tentenna. La sua grammatica interiore si incrina. “È stato assurdo, io… è stato come se…” Quel “come se” mai concluso è forse il momento più autentico del monologo. Non c’è bisogno che ci dica a cosa stava pensando, o cosa stava ricordando. Il vuoto del linguaggio dice più di mille spiegazioni.
Questo monologo, pur breve, è uno dei momenti chiave della serie perché mostra qualcosa che precede la consapevolezza. Non è un’epifania: è un cedimento. È il primo varco aperto nel sistema di autodifesa che Cecilie ha costruito negli anni. È come se, in quella cappella remota, lontana dai codici sociali della sua vita, il dolore che non ha mai guardato avesse trovato uno spiraglio per uscire.
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