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~ LA REDAZIONE DI RC
Nel cuore disturbante dell’episodio “Bestia Nera” (Bête Noire), settima stagione di Black Mirror, c’è un personaggio che incarna perfettamente una nuova forma di potere: Verity, una mente brillante e profondamente disturbata, una vendicatrice silenziosa che usa la tecnologia non per distruggere, ma per umiliare con chirurgica precisione. Il suo monologo – pronunciato con un tono rilassato, quasi complice – è una dichiarazione di controllo assoluto, una dimostrazione di potenza mentale travestita da spiegazione tecnica.
STAGIONE 7 EPISODIO 2
MINUTAGGIO: 44:00-45:00
RUOLO: Verity
ATTRICE: Rosy McEwen
DOVE: Netflix
INGLESE
How can that little thing change reality? It's just a remote. Connects to the quantum compiler downstairs. That's what changes reality. I'll show you how it works. It really is just a remote. I've got loads of them. Technically, it's not changing anything. It just retunes our corporal frequency to one of the parallel realities where whatever I've said has always been true. There's infinite timelines, so I just pick the one where you're the only one who knows what's going on How... special. I built the system. Computer lab nerdo. I can change little things, like you chose a red top this morning instead of yellow. Make it so you've always spoken Chinese. Make it so we're having this conversation in the office. Or put it all back. It's quite cool, though, isn't it?
ITALIANO
Come fa quel cosino a cambiare la realtà? E’ solo un telecomando. Connesso al compilatore quantistico qui sotto. E’ quello che cambia la realtà. Sul serio, è solo un telecomando, ne ho tanti altri, e tecnicamente non cambia nulla, risintonizza solo le tue frequenze corporee a una delle realtà parallele dove qualsiasi cosa io dica è sempre stata vera. Esistono diverse linee temporali. Scelgo quella in cui tu sei l’unica a sapere che cosa succede, così puoi sentirti davvero… speciale. Ho costruito io il sistema. La secchiona di informatica. Cambio anche piccole cose, tipo che oggi hai una maglietta rossa invece che gialla. Oppure che hai sempre parlato cinese. O possiamo continuare a parlare in ufficio. O riportare tutto com’era. E’ molto figo, però, vero?
La settima stagione di Black Mirror è un ritorno al cuore stesso della serie: una riflessione (amara, inquieta, a tratti dolorosa) su un futuro che non sembra poi così distante, e che parla molto più del nostro presente di quanto vorremmo ammettere. Dopo il passo falso del sesto ciclo, che flertava troppo con il paranormale e con una vena retro poco in linea con l’anima high-tech della serie, Charlie Brooker riporta la narrazione dentro coordinate più familiari: distopie possibili, ansie contemporanee e una tecnologia che evolve più in fretta della nostra capacità di comprenderla e gestirla.nQuesta settima stagione è meno "avveniristica" nel senso sci-fi classico e più ancorata a un futuro molto prossimo, che potremmo tranquillamente vedere fra cinque anni, massimo dieci. I sei episodi sono tutti autoconclusivi, come da tradizione, ma per la prima volta si percepisce un’anima più sentimentale, quasi umanista. Non si parla solo di tecnologia, ma di come essa si intrecci con le emozioni, con i legami, con la memoria e l’identità personale.
Se c’è un tema dominante, è il prezzo del progresso. Ma non un prezzo metaforico o etico: proprio il prezzo in senso economico. Gli abbonamenti digitali, le clausole nascoste, le versioni freemium della vita stessa. E la domanda più disturbante non è “quanto siamo disposti a pagare?”, ma “cosa accade quando non possiamo più permettercelo?”.
1. Common People
È l’episodio manifesto della stagione. La distopia è lucida e concreta: il backup digitale della coscienza come abbonamento mensile. Ma la potenza del racconto non sta nella tecnologia in sé, bensì nella lentezza del suo deterioramento e nell’inflessibilità del sistema che la gestisce. Amanda diventa un software a pagamento. Mike, l’uomo che la ama, guarda la donna che conosceva diventare una versione sempre più limitata, sempre più “trial”. Chris O’Dowd è devastante nel rendere il senso di impotenza di fronte a un sistema che non si può combattere, solo subire. È Black Mirror nella sua forma più pura: un dramma umano con un contesto tecnologico spietato.Tema chiave: monetizzazione dell’esistenza – e la disumanizzazione mascherata da progresso.
2. Bête Noire
Una rivisitazione in chiave distopica del confronto tra vittima e carnefice, in un setting che flirta con il concetto di realtà alternative. La tensione qui non deriva tanto dalla tecnologia, quanto dalla paranoia, dal non sapere se quello che accade è vero o solo percepito. L’episodio è un interessante studio sul potere e sulla memoria, su chi detiene il controllo della narrazione. E sul desiderio, spesso sottovalutato, di rivincita sociale. Tema chiave: riscrittura del passato e vendetta emotiva, con uno sguardo malato sull’apparenza.
3. Hotel Reverie
Una delle puntate più ambiziose, visivamente e concettualmente. Un film classico viene “abitato” da attori digitali, con risultati che sfiorano la malinconia di Her e la nostalgia cinefila di The Artist. Ma il tema vero è quello dell’autenticità in un mondo in cui ogni emozione può essere programmata. Può un amore nato da un copione essere reale? L’episodio non trova una risposta chiara – e va bene così. Tema chiave: l’illusione dell’autenticità nei mondi sintetici. E il bisogno umano di crederci lo stesso.
4. Come un giocattolo
Il più anomalo della stagione, quasi un horror psicologico travestito da retro game. Lì dove ci si aspetterebbe nostalgia, Brooker tira fuori un senso di colpa generazionale. I nerd degli anni ‘90, creatori di mondi, diventano oggi figure ambigue, cariche di traumi e contraddizioni. Il Tamagotchi come metafora della responsabilità verso le intelligenze artificiali che abbiamo creato. E l’umano, ancora una volta, si rivela il vero mostro. Tema chiave: responsabilità creativa, abuso tecnologico, e la crudeltà connaturata all’essere umano.
5. Eulogy
Un racconto che parte come una riflessione sul lutto ma vira verso un territorio più ambiguo: quello della memoria falsata. Paul Giamatti è struggente nel dare voce a un uomo che si aggrappa ai ricordi per non affondare, mentre lo spettatore viene lentamente spinto a dubitare della verità di quei ricordi. Cosa ricordiamo davvero? E cosa invece scegliamo di ricordare per proteggerci? Tema chiave: soggettività della memoria e illusione terapeutica della tecnologia.
6. USS Callister: Into Infinity
Il primo vero sequel della serie – e una scelta audace. Brooker decide di espandere l’universo narrativo di USS Callister, ma lo fa con intelligenza: anziché ripetere lo schema del primo episodio, mette in scena un conflitto etico tra due visioni opposte dell’individuo: si può cambiare, o restiamo sempre uguali? Il tono resta quello di una space-opera satirica, ma il cuore dell’episodio è profondamente filosofico. Tema chiave: identità, rieducazione e redenzione, nel contesto di una simulazione senza regole.
Questa settima stagione non inventa nulla di nuovo, ma torna a porre domande scomode con una lucidità narrativa che mancava da un po’. Il futuro immaginato non è fatto di robot o navicelle spaziali, ma di contratti, abbonamenti, backup digitali, simulazioni cinematografiche e videogiochi che assomigliano fin troppo alla nostra vita reale.
“Come fa quel cosino a cambiare la realtà? È solo un telecomando.” La battuta iniziale è volutamente ironica. Verity minimizza l’oggetto che ha in mano, lo chiama “cosino”, proprio mentre sta per rivelarne la portata devastante. È il classico tono da nerd che ha appena hackerato l’universo, ma che vuole ancora sembrare casuale. Eppure, dietro questa falsa modestia, si cela una supremazia intellettuale assoluta. È il reverse gaslighting: ti convince che tutto ciò che hai vissuto potrebbe essere stato riscritto... senza che tu te ne sia accorta. “Connesso al compilatore quantistico qui sotto. È quello che cambia la realtà.” Ora entra in scena il vero protagonista del discorso: la tecnologia. Ma è importante notare come viene presentata. Non come un mostro o una macchina minacciosa, ma come un semplice strumento, neutro. È l’uso che ne fa Verity – e la motivazione dietro quell’uso – a renderlo inquietante.
È qui che l’episodio tocca una delle paure più sottili della nostra epoca: la realtà come sistema modificabile. Non simulata, modificabile. Le tue certezze non vengono messe in discussione: vengono risintonizzate.
“Risintonizza solo le tue frequenze corporee a una delle realtà parallele dove qualsiasi cosa io dica è sempre stata vera.” Questa è la frase chiave. Il linguaggio tecnico (“frequenze corporee”, “realtà parallele”) serve solo a rendere credibile l’assurdo. Il punto non è tanto come funziona, ma cosa implica: Verity può scegliere una versione della realtà in cui ha sempre avuto ragione. Tu, invece, non puoi controbattere. Perché ogni tua obiezione… non è mai successa. Qui siamo nel territorio più profondo della paranoia esistenziale. Bête Noire non parla di AI o algoritmi. Parla del desiderio di riscrivere il passato per vendetta. Di avere l’ultima parola – letteralmente – sulla versione dei fatti.
“Ho costruito io il sistema. La secchiona di informatica.” Verity si auto-definisce “la secchiona di informatica”, con sarcasmo e autocompiacimento. Sta affermando che non è arrivata lì per caso. È merito suo. Si è costruita il potere che ora esercita. E lo fa per ribaltare una dinamica sociale passata, quella in cui lei era ignorata, bullizzata, ridotta a una spalla. Questa battuta non è solo un dettaglio autobiografico. È la motivazione nascosta del personaggio: la rivincita dell’invisibile.
“Cambio anche piccole cose... tipo che oggi hai una maglietta rossa invece che gialla.” Questo è un momento particolarmente disturbante. Il potere di Verity non si limita ai grandi eventi: può manipolare i dettagli, le minuzie. E se può cambiare anche le cose più insignificanti, come puoi fidarti di qualsiasi tuo ricordo? È la trasformazione della realtà in una timeline liquida. In una narrazione soggetta al gusto (o al rancore) di chi la controlla. Tu non vivi più: sei vissuta.
“O riportare tutto com’era. È molto figo, però, vero?” Il finale è la parte più fredda. Verity ti concede di scegliere – ma solo perché sa che la tua scelta è ormai irrilevante. Il controllo è totale. La concessione è parte della tortura. E quando dice “È molto figo, però, vero?”, l’effetto è straniante: sembra voler condividere l’entusiasmo, quasi come una bambina che mostra un gioco nuovo. Solo che quel gioco è la riscrittura della realtà. L’orrore non sta nella minaccia, ma nel tono: affettuoso, quasi giocoso. Verity non vuole annientarti. Vuole che tu capisca quanto sei inutile, ora che lei ha il potere di cancellare e riscrivere tutto.
Il monologo di Verity è una delle dimostrazioni di potere più eleganti e crudeli di tutta Black Mirror 7. Non è solo una scena espositiva: è una messa in scena del trauma trasformato in dominio. Verity è un personaggio che ha sofferto nell’ombra e ora riscrive le regole – letteralmente. Ma il punto non è solo la vendetta. Il punto è: può ancora esistere una verità oggettiva in un mondo dove ogni dettaglio può essere risintonizzato?
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