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Articolo a cura di...
~ LA REDAZIONE DI RC
Nel corpo femminile della Donna di Orgia Pasolini riversa un’altra parte della sua riflessione sull’identità, sulla colpa e sull’impossibilità di trovare salvezza nei ruoli imposti. Se l’Uomo rappresenta la coscienza tragica della diversità repressa e finalmente esplosa, la Donna è l’altra faccia del potere borghese interiorizzato: una coscienza sommersa, che parla a sé stessa attraverso la lente del rimorso, del sogno e di un desiderio che ha il volto della morte.
Episodio IV
Ruolo: La donna
Sai cosa vuol dire vivere un sogno?
Ciò che tu non sei, sei:
e, ogni notte, lo frequenti.
Va bene, spieghiamo tutto,
tu e io, ora, poi i nostri figli.
Ma se le origini della ragione
sonor nel tempo,
il suo limite è nella profondità.
Non voglio arrivare a quel limite, io.
Voglio se mai andare indietro nel tempo,
dove posso sognare
di essere come mio padre e mia madre.
Non voglio sapere un’altra volta
come un innocente può fare orrore.
Ma se dormo, che sogni farò?
Quelli del passato vicino o del passato lontano?
Per quanto, poi, io sappia bene
che anche nel passato lontano...
anche allora...
nei tempi del grano che lambiva le città,
e delle ciminiere confuse con le torri grigie
sopra gli stagni... la ragione che spiegava la vita
non era che un modo per andare avanti.
Ma quanto mi servirebbe, ora, quell’inganno?
Non ho sonno.
Vorrei dirti: Non voglio star meglio,
per poi sognare, comunque, ciò che non devo sognare.
Tanto, sono trascinata ugualmente nel fango
dalla mia insonnia che vuole aver sogni!
Non so uscire da qui.
Non so immaginare altro, intorno a me,
perché non ne sono capace, perché
sono come te una piccola borghese,
col suo bagaglio disperato di idee.
Questo è indubbiamente un delirio.
E perché adesso mi alzo?
(si alza dal letto)
Ora s’è mosso qualcosa
dentro la stanza,
come un batticuore in un corpo: l’ho sentito.
Dentro l’aria s’è mossa l’aria...
una specie di colpo dalle profondità del cielo!
E il contraccolpo è giunto fin qui,
irrisorio alito d’aria
che dà un’irriconoscibile emozione.
Dunque il tepore, dentro e fuori,
non è più uguale! Qualcosa
ha turbato la sua perfetta serenità.
È forse solo la notte che si fa più fresca.
O tutto questo non emanerà dal mio cuore
che vuole esternare i suoi rimorsi?
Sì, io, nella veglia, parlo di rimorsi.
E di cos’altro dovrei parlare?
E dei rimorsi, per la precisione,
di aver violato terrorizzata
quel mondo...
quel mondo dove vola una lucciola
al suono delle ultime campane
(il cui ricordo è annerito in fondo all’orizzonte)...
Quando scoppiano, talvolta, i fuochi artificiali
in un altro paese... dietro le viti.
E i militari, usciti dalle caserme,
passeggiano per le strade asfaltate vuote.
Una grande sapienza è allora diffusa in quel mondo...
I vecchi (i vecchi che ora non contano niente,
come corpi inutili), ne sono
i venerati testimoni; e i ragazzi, futuri vecchi,
innocenti solo perché digiuni di quel sapere
che possederanno — giocano là dove le lucciole
rigano più domestiche l’aria.
Era destino, che prima lo facessi,
e, ora, lo sapessi.
Bisogna scandalizzare e tradire quel mondo!
Altrimenti... esso si sperde
ripetendosi nella sua eternità...
sarà solo posseduto da altri
identici a questi...
Bisogna sporcarlo e bestemmiarlo
perché decada — perché si muova
e non dia più... rimorsi.
In questa «pace» che è caduta sulla mia vita
e vi si è fissata, come una stagione
che non cambia mai, una interminabile mattina
di pace,
di lavoro,
di cose nude e severe
(condivise coi vicini, al suono della televisione)
di raccoglimento, di mancanza di espressione
(che tanto piace alla cerchia fatta di uomini d’ordine
e di ribelli)
di discrezione e di dignità,
di mistero famigliare (così caro ai vecchi e ai nuovi
moralisti), ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah,
quanti rimorsi!
Grazie ai rimorsi,
non facevo altro che pensare al passato
(quello lontano, sì, ma anche a quello vicino).
Con lo straccio delle pulizie in mano,
ero lì che pensavo —
invece di cantare come le altre donne di casa
nei loro matti eremitaggi diurni —
con rimorso... a ciò che questa Pasqua è finito.
Era un rimorso lungo, oh, lungo,
un rimorso totale
che mi riempiva tutta e non mi lasciava mai.
Attraverso quel rimorso,
oh guarda,
non facevo altro che pensare al male
che avevo fatto, in tutti i suoi particolari!
Non ne dimenticavo uno!
E tutto ciò che avevo fatto
— attraverso il rimorso —
mi richiamava alla mente ciò che mi era rimasto da fare
(e a cui avevo rinunciato
per quell’improvviso ritorno della virtù... pasquale).
Quanto soffrivo!
Trallallà,
rimorso, conservazione di sofferenza!
Sofferenza, godimento impossibile da dimenticare!
(E mai dimenticato, infatti.)
Questo alito d’aria che il rinfrescarsi della notte...
Questo alito d’aria che il rinfrescarsi della notte
precedendo la breve agonia,
mi ricorda solo ciò che riguarda l’amore,
il più sporco amore,
che è l’unica cosa che, dopo l’agonia,
va veramente perduta.
Veramente perduta...
perché è fatta di carne, che si corrompe...
E tanto più quanto è fatto di sola carne
— di seno, di ventre,
di cosce, di sesso:
se ne va, se ne va,
è l’unica cosa che va perduta per sempre,
tutto il resto pazienza,
ma nella carne c’è la sola cosa sicura che se ne va,
ed è tutto, tomba mia!
Vediamo: cosa pensavo, grazie ai miei rimorsi?
Pensavo, giusto, alla carne.
Ma non alla carne bella, con la sua dignità,
del viso, delle spalle, della nuca.
No: ma alla carne dov’è più carne, e quindi più muore.
La grazia di un viso o la fierezza
di un paio di spalle o l’innocenza di una nuca,
non muoiono. Ma ciò che la stoffa di un paio di calzoni
(in un riserbo severo e quasi immacolato)
protegge, se rigida, e, se molle,
stinta e gualcita, rivela quasi infantilmente
— con brutale innocenza — questo muore.
E poiché ogni volta che è stato (per miracolo) goduto
ritorna a quella sua naturalezza proibita —
nella grazia sbadata della vita — bisogna
goderlo mille volte; non lasciarlo
nemmeno per un istante, non concedere un solo spiraglio
al ricrearsi della sua lontananza... del suo mistero...
della sua immacolatezza che significa tragedia...
Solo chi, con tutto ciò che esso può violare,
ne è violato, sempre, ogni giorno, ogni ora,
può dire di vivere. Perché vivere è tremare.
Poi, quando tutto finirà, tutto finirà:
non ci sarà un volto immortale e un sesso mortale.
Rinuncia idiota, anticipazione di morte, cretina,
fatta in nome dei vicini di casa —
di una non meglio precisata vita cittadina —
di un padre e di una madre, giganti, sì, va bene,
ma piccoli borghesi e fascisti — di alti ideali
che alla fine non contano nulla;
come moralità, religione,
e tutte le altre sciocchezze del genere;
tutte chiacchiere della vita,
mentre conta solo il profondo silenzio
con cui si tocca, tremando, un grembo.
Nei miei rimorsi,
io sognavo quel grembo
— con un solo sguardo, nel sogno, al viso,
tanto per capire di che grembo si trattava...
e meglio, certo, se quel viso era bello
— un giovane col naso un po’ corto, mettiamo,
il labbro superiore sospeso
come quello di un pesciolino,
i capelli biondi quasi rasati
ridotti a un pulviscolo di steli —
oppure un giovane bruno,
con la bocca dell’arabo adolescente,
cattivo, ma affettuoso come una madre...
Ah, questo terribile alito d’aria...
Quei calzoni di ogni giorno della vita
feticci del sesso e del lavoro...
Ecco, quello che voglio, senza rimorsi!
Voglio la sua onesta brutalità,
la sua pretesa, la sua fretta,
per la trasgressione che in una sera qualunque
si compie nel leggero puzzo sacro del seme.
Voglio, anche, da parte sua un po’ di ironia
che renda staccata e in fondo impartecìpe
la sua complicità di giovane scelto per caso tra i giovani.
Divento tutta rigida, pura tensione,
dovuta al violento batticuore,
che mi rende spirito,
e mi attrae fuori di me.
In questa ascesi
non si può verificare altro
che ciò che io voglio.
Vieni, figlio con pretesa di padre,
o padre ancora figlio, vieni,
compi il tuo semplice atto.
Ma poiché siamo in una sera
qualunque, possiamo non rispettare nulla
e fare ciò che finora ignori
di cui la tua bocca, aprendosi, sorride.
Tu accetti subito, ci stai,
perché sei figlio della sera,
che non ti ha insegnato e imposto nulla,
e nelle tue povere case — di cui laggiù si accendono
le prime luci — la vita costa così poco
che si può farne ciò che si vuole.
Legami le mani...
Che cosa faccio?
Cammino?
Vado verso la camera dei figli?
(fa qualche passo)
Agisco prima di aver deciso?
Oppure, ho già deciso, senza saperlo?
Sono spinta a fare: e so soltanto quello che devo fare.
Il seguito delle mie azioni è ben preciso nella mia mente.
C’è un fiume, che scorre in una pianura, qui vicino.
La primavera rende la sua acqua torbida e quasi gialla
(mentre nei periodi di magra è azzurra, d’avorio
tra il cenere e il ruggine dei rami secchi).
Andrò sulle rive di quel fiume — con la luce
che disegna l’immensità... delle vite che passano,
nel giorno...
Starò un momento su quella riva dei primi di giugno;
poi scomparirò, nell’acqua, resa, così, tragica
(ma ben presto di nuovo intenta solo a correre via).
Prima, avrò attraversato tutta la grande città.
E quel po’ di campagna rimasta tra essa e il fiume:
attraverserò cioè il mio presente e il mio passato.
Ma non sarò sola, perché — prima ancora —
qui, dentro questa casa — nel silenzio
dei primi sonni — avrò guadagnato la stanza dei bambini.
Essi saranno dunque con me, a farmi compagnia.
Non saranno due compagni vivi, però, ma due compagni
morti
Infatti, prima di guadagnare la loro cameretta,
andrò a prendere un coltello, nella cucina, di qua.
Ed è quello che, muovendo i passi, mi accingo a fare.
(muove qualche passo)
Ecco tutto!
Si dirà: è morta per un alito d’aria.
“Orgia” di Pier Paolo Pasolini è una delle sue opere teatrali meno frequentate ma tra le più dense e difficili, scritta nel 1968 e parte del ciclo definito “Teatro di Parola”, insieme a testi come Affabulazione, Pilade e Porcile. Siamo lontani da un teatro classico o realistico: Pasolini punta a un linguaggio astratto, spesso provocatorio, radicale, che scardina la forma tradizionale per esprimere conflitti interiori e sociali in modo quasi rituale. Il testo è costruito su un impianto fortemente simbolico e rituale. Due soli personaggi: Lui e Lei. Non hanno nome proprio, e già questa scelta porta la storia fuori da ogni localizzazione storica o realistica. Siamo in una stanza chiusa, uno spazio privato e metaforico, dove si consuma un “rito borghese” di distruzione, degradazione e autodistruzione. Pasolini struttura l’opera come una sequenza di gesti, parole e confessioni che oscillano tra la tensione erotica, la crudeltà, la colpa, il desiderio e la morte. È un’orgia che non ha nulla di liberatorio: è un cerimoniale tragico, dove il piacere è solo un altro volto della violenza.
Nel suo “Teatro di Parola”, Pasolini rifiuta l’azione come motore drammaturgico: qui tutto si gioca sul linguaggio. Ma attenzione, non un linguaggio “letterario” nel senso classico. Il parlato in Orgia è violento, interrotto, contorto. Le parole non spiegano, ma spaccano. Rivelano. È un teatro che non vuole piacere, vuole disturbare. E attraverso il fastidio e lo sconcerto, spingere chi guarda (o legge) a interrogarsi sul senso della propria identità, della morale, del corpo, della storia. Tutti temi pasoliniani, qui portati all’estremo.
Temi principali
Pasolini, in Orgia, mette il corpo al centro come spazio politico. Il corpo è luogo del desiderio, della colpa, della punizione. È “campo di battaglia” tra morale borghese e pulsioni personali. Il corpo viene esibito, sporcato, offeso, sacrificato. Non c’è mai piacere puro, ma solo dolore erotizzato, nella scia di Bataille.
Lui è un uomo borghese, Lei una donna proletaria. Ma non c’è dialettica: c’è dominio. Lui vuole degradarsi e degradare Lei, per liberarsi dalla propria condizione. Lei partecipa, ma non è mai davvero in controllo. Pasolini racconta una classe che non sa più che farsene del proprio potere e una sottoclasse che viene ancora una volta consumata, come oggetto. Il rapporto è violento, squilibrato, senza possibilità di riscatto.
L’orgia diventa un suicidio rituale. Un modo per portare a compimento un processo di annientamento identitario e sociale. In Pasolini, la borghesia è un soggetto morto che si trascina, e Orgia è una delle sue messe funebri.
Il legame tra amore, desiderio, e morte è continuo. Ogni gesto erotico è un passo verso la distruzione. Non c’è spazio per l’amore, ma solo per la messa in scena della propria fine. Pasolini, qui, si fa nietzschiano: la tragedia è l’unico linguaggio possibile per raccontare la verità dell’uomo.
Orgia è scritta per non essere rappresentata nel senso tradizionale. Pasolini era profondamente critico verso il teatro borghese, fatto di scenografie, costumi, attori che “fingono”. Il suo è un teatro che va letto o recitato “a nudo”, anche letteralmente, come atto performativo e politico. Le didascalie sono invadenti, quasi a scoraggiare qualsiasi regia realistica. È un testo pensato più per la mente che per il palcoscenico, un teatro “da camera” mentale.
Orgia non è un testo che offre risposte o catarsi. È un’esperienza che mette a disagio e chiede di essere affrontata più volte, con attenzione. È un esercizio di verità scomoda, che parla della perdita di senso, dell’implosione del desiderio, del peso della Storia e della classe sociale sulle nostre scelte più intime.
Un testo difficile da digerire, che ha ancora oggi un potere abrasivo, perché costringe chi lo legge o lo mette in scena a confrontarsi con ciò che di più rimosso abbiamo dentro: il piacere del dominio, il fascino della colpa, e l’orrore di un’identità che ci soffoca.
L’apertura del monologo mette subito a fuoco il tono: la Donna si chiede cosa significhi vivere un sogno, se il sogno è lo spazio dove si può essere “ciò che non si è”. È una donna che non riesce a dormire, ma che ha bisogno di sognare. C’è una tensione tra desiderio e razionalità, tra coscienza e rimozione. Lei vuole tornare indietro, “dove posso sognare di essere come mio padre e mia madre”, ma sa che anche il passato è contaminato. Sa che l’innocenza non è mai stata realmente pura.
Pasolini lavora qui su una contraddizione profonda: il sogno non è rifugio, ma uno spazio di contaminazione, di colpa e di verità. L'insonnia non è solo mancanza di riposo, ma una forma di veglia che apre al delirio lucido.
L’intero monologo è percorso da un’ossessione: il rimorso. Ma non come pentimento morale, quanto piuttosto come forma di conoscenza. La Donna non dimentica niente: ogni gesto, ogni deviazione dalla norma, ogni residuo di colpa viene ricordato con precisione sensoriale. “Non ne dimenticavo uno!”
In questo senso, la sua è una coscienza femminile nel senso più pasoliniano del termine: materica, introversa, associata al corpo, ma anche capace di un pensiero impietoso e analitico. La Donna è lucida nei suoi ricordi e nelle sue ossessioni. Sa che l’ordine sociale in cui vive – fatto di “stagioni che non cambiano mai”, di “vicini di casa” e “cerchie di uomini d’ordine” – è un simulacro di pace, costruito sulla repressione del desiderio e della carne.
La Donna si concentra a lungo sulla carne, ma con un linguaggio che rompe ogni retorica erotica. La carne che conta non è quella bella, del viso o delle spalle, ma quella che “più muore”: il sesso, il ventre, le cosce. La fisicità, qui, è esibita in tutta la sua fragilità e materialità. Non c’è idealizzazione, ma desiderio crudo. Un desiderio che non cerca romanticismo, ma “la pretesa, la fretta, la trasgressione”.
La carne è anche strumento di conoscenza, ma non spirituale. Conoscere è toccare. Vivere è tremare. Solo chi vive il corpo nella sua porosità e nella sua perversione può dire di esistere. Pasolini affida a questa donna una consapevolezza che è quasi religiosa, ma rovesciata: non c’è redenzione fuori dalla carne.
L’ultima parte del monologo è una progressione inquietante, e costruita con precisione tragica. Il desiderio culmina in un’azione: la Donna sa cosa deve fare. Prenderà un coltello. Andrà nella stanza dei bambini. Li porterà con sé. Li ucciderà. E poi si getterà nel fiume.
Ma non è solo un delitto: è una rappresentazione totale. La Donna non agisce per follia, ma come atto performativo assoluto. Quel gesto raccoglie tutto: rifiuto della maternità come istituzione borghese, rifiuto della pace familiare, rifiuto del ciclo eterno del tempo domestico. Uccidendo i figli e sé stessa, si sottrae al destino che ha fatto di lei una madre repressa e una donna mortificata dal senso del dovere.
La Donna compie ciò che l’Uomo ha solo immaginato: sovverte i simboli, agisce in base a un desiderio lucido, e si dissolve nella morte, ma non prima di aver tracciato la mappa del suo inferno interiore.
La Donna di Orgia è una coscienza incarnata, uno specchio infranto in cui si riflette la verità del mondo borghese che Pasolini mette sotto accusa. Vive in uno stato di veglia perenne, immersa nel rimorso e nella consapevolezza della propria prigionia. Ma, a differenza dell’Uomo, non cerca una via simbolica: agisce.
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