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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo è uno dei momenti più enigmatici e potenti de Il gabbiano. Lo spettacolo scritto da Konstantin e recitato da Nina, che contiene questo monologo, è un momento teatrale dentro il teatro: un atto meta-teatrale in cui Čechov, attraverso la voce di Nina, ci mette davanti non solo a un'idea di mondo post-apocalittico, ma anche al cuore di ciò che tormenta i personaggi e lo stesso teatro moderno. È un momento di rottura con il passato, una dichiarazione poetica (e disperata) che, pur nel suo eccesso simbolista, svela le ossessioni di entrambi i personaggi coinvolti: Nina e Konstantin.
Gli uomini, i leoni, le aquile e le pernici, i cervi dalle ampie corna, le oche, i ragni, i muti pesci abitanti nell’acqua, le stelle marine e quegli esseri che non si potevano scorgere a occhio nudo, – in breve tutte le vite, tutte le vite, tutte le vite, compiuto un malinconico ciclo, si spensero... Da migliaia di secoli ormai la terra non porta sul dorso nemmeno una sola creatura viva, e questa povera luna accende invano la propria lanterna. Sul prato ormai non si svegliano con un grido le gru, e non si sentono i maggiolini nei boschetti di tigli. Freddo, freddo, freddo. Vuoto, vuoto, vuoto. Paura, paura, paura. (Pausa.) I corpi delle creature viventi svanirono nella polvere, e l’eterna materia li mutò in pietre, in acqua, in nuvole, e le loro anime tutte si fusero in una. La comune anima dell’universo sono io... io... In me sono le anime di Alessandro Magno e di Cesare e di Shakespeare e di Napoleone, e dell’ultima sanguisuga. In me le coscienze degli uomini si fusero con gli istinti degli animali, ed io ricordo tutto, tutto, tutto, e rivivo in me stessa ogni vita. Sono sola. Una volta in cento anni io apro la bocca, per parlare, e la mia voce risuona squallida in questo vuoto, e nessuno la sente... Nemmeno voi, pallidi fuochi, mi udite... Verso il mattino vi genera la putrescente palude, e voi vagate sino all’aurora, ma senza pensiero, senza volontà, senza un palpito di vita. Temendo che in voi la vita risorga, il padre dell’eterna materia, il diavolo, ogni istante provoca in voi, come nelle pietre e nell’acqua, un avvicendarsi degli atomi, e voi vi trasformate incessantemente. Nell’universo rimane costante e immutabile soltanto lo spirito. (Pausa.) Come un prigioniero gettato in un vuoto pozzo profondo, non so dove mi trovo e che cosa mi aspetti. So solo che nella caparbia, crudele lotta col diavolo, principio delle forze materiali, sarà mia la vittoria, dopo di che la materia e lo spirito si fonderanno in una meravigliosa armonia e avrà inizio il regno della volontà universale. Ma ciò accadrà solo quando, a poco a poco, attraverso una lunga, una lunga sequela di millenni, anche la luna, e la luminosa Sirio, e la terra si muteranno in polvere... Ma sino a quel tempo orrore, orrore... (Pausa; sullo sfondo del lago appaiono due punti rossi). Ecco, si approssima il mio possente avversario, il diavolo. Vedo i suoi spaventosi occhi scarlatti...
Un testo che ha segnato un momento di svolta nel teatro moderno, spesso letto come un dramma sull’arte, sull’amore e sull’incapacità umana di essere felici. Ma la sua particolarità sta nel modo in cui queste cose si non-dicono — eppure stanno lì, sempre, in sottofondo. Siamo nella Russia di fine Ottocento, in una tenuta di campagna vicino a un lago. Il tempo scorre lento, come spesso accade nei drammi cechoviani. I personaggi non sono travolti da eventi esterni, ma da piccole fratture interiori che si accumulano. Qui, più che altrove, Čechov mette in scena il vuoto tra ciò che i personaggi vorrebbero essere e ciò che effettivamente sono.
Atto I
Tutto comincia con uno spettacolo teatrale amatoriale. Konstantin Treplev, giovane aspirante scrittore, ha scritto un'opera simbolista che viene recitata da Nina, la ragazza di cui è innamorato. Il pubblico è ristretto: la madre di Konstantin, Irina Arkadina, una celebre attrice egocentrica e possessiva, il suo compagno – lo scrittore affermato Trigorin – e pochi altri ospiti della tenuta.
Atto II
I personaggi iniziano a muoversi tra passioni incrociate e desideri non corrisposti. Masha ama Konstantin, ma lui è perso dietro Nina. Nina, a sua volta, resta colpita da Trigorin, che si lascia sedurre dalla sua ingenuità e ammirazione. Arkadina, gelosa sia dell’attenzione che Trigorin dedica a Nina sia della creatività del figlio, cerca di mantenere il controllo emotivo e professionale.
Atto III
Le relazioni degenerano. Trigorin decide di lasciare la tenuta con Arkadina, ma alla fine cede e promette a Nina che si rivedranno a Mosca. La madre riesce a convincere il figlio a non lasciare tutto, dopo un tentato suicidio fallito da parte di Konstantin. L'arte, l’amore, le ambizioni: tutto sembra collassare in una palude di compromessi e illusioni.
Atto IV (due anni dopo)
Il tempo è passato. Nina ha vissuto la sua “storia” con Trigorin, ma è stata abbandonata. Ha perso un figlio, ha fallito come attrice e vive un’esistenza precaria in provincia. Konstantin è diventato scrittore, ma non ha mai superato la sua insoddisfazione. Quando Nina ricompare, stanca e distrutta, tra i due c’è un ultimo scambio intenso e malinconico. Lei continua a sentirsi come quel gabbiano — nonostante tutto, continua a volare.
Nessuno ottiene ciò che vuole: Konstantin vuole innovare ma viene ignorato, Nina vuole diventare attrice e fallisce, Trigorin è schiavo della sua routine da scrittore affermato, Arkadina è ossessionata dal proprio passato glorioso. L’arte, invece che liberare, intrappola. Ogni personaggio ama qualcun altro che non lo ricambia. È un girotondo tragico, dove l’amore non trova mai sponda. I due anni tra il terzo e il quarto atto pesano come piombo. Non c’è catarsi, solo uno scorrere lento verso la disillusione. Il gabbiano è un simbolo aperto: libertà distrutta, innocenza sacrificata, sogni infranti. Ma anche, in un certo senso, la testardaggine di chi continua a volare, nonostante tutto.
Il monologo si apre con un catalogo di esseri viventi, una sorta di mini-enciclopedia naturale in dissoluzione. Non c’è più niente di vivo, né sulla terra né nel cielo. Il mondo è morto. La ripetizione ossessiva ("tutte le vite, tutte le vite") genera un effetto rituale, apocalittico. È la descrizione di un universo svuotato, un universo post-umano. È il sogno di Konstantin? Forse. Ma è Nina che lo pronuncia, e questo è fondamentale.
"Freddo, freddo, freddo. Vuoto, vuoto, vuoto. Paura, paura, paura."
Tre parole, ripetute tre volte: è il ritmo della disperazione. Non c'è calore, né compagnia, né senso. Questo è anche il clima emotivo in cui galleggiano i personaggi della pièce. Tutti sono immersi in una sorta di vuoto interiore, tutti provano paura, tutti si sentono fuori posto. Il linguaggio qui diventa pura sensazione: evoca. E questo lo rende un passaggio chiave nella poetica cechoviana, che lavora sempre più con ciò che non viene detto, con il non-detto emozionale.
"La comune anima dell’universo sono io." Qui la voce narrante – quella della figura che Nina interpreta – si proclama coscienza universale. In sé coesistono Alessandro Magno e l’ultima sanguisuga, Cesare e Shakespeare. È un’idea che mescola il panteismo, l’occultismo e un senso di onniscienza tragica. Eppure, subito dopo, viene la solitudine: “Sono sola.” C’è qualcosa di quasi schizofrenico in questo passaggio. Dalla fusione totale con l’universo si passa al vuoto dell’abbandono. È la contraddizione fondamentale del personaggio di Nina, e della gioventù poetica e idealista: voglia di totalità e, al tempo stesso, paura di restare invisibili. "Come un prigioniero gettato in un vuoto pozzo profondo..."
Questo è il punto in cui il monologo raggiunge il suo vertice. Il tono si fa quasi mitico: la voce della protagonista è quella di un’entità eterna, intrappolata nel nulla, destinata a combattere contro il “padre dell’eterna materia”: il diavolo. Il conflitto tra spirito e materia, tra aspirazione e realtà, è la vera chiave. Il diavolo, qui, è forse il simbolo del mondo reale che impedisce ai sogni di prendere forma. Ma anche della caducità, dell’impossibilità di fermare il tempo. "Ma sino a quel tempo orrore, orrore..." Il monologo si chiude nel presagio. La visione cosmica non dà pace: non ci sarà armonia se non tra millenni. Per ora resta l’orrore. E nel momento in cui il testo si fa quasi cinematografico ("ecco, si approssima il mio possente avversario..."), la scena si interrompe. Arkadina irrompe con ironia, smonta tutto, e il sogno crolla.
Questo monologo è centrale per capire Nina come personaggio. All’inizio, lei è una ragazza che sogna il palcoscenico, l’arte, il significato. Quando recita questo testo, è come se stesse prestando voce non solo al delirio cosmico di Konstantin, ma alla propria sete di assoluto. Nina non è ancora il “gabbiano ucciso”, ma è già in volo su un cielo pieno di illusioni.
Lo spettacolo non viene compreso, né rispettato. E il fallimento pubblico della rappresentazione è l’anticamera del fallimento privato dei personaggi. La crisi del teatro tradizionale che Konstantin vorrebbe superare coincide con la crisi dei sogni personali, e Nina sarà la prima a pagarne il prezzo: illusa da Trigorin, abbandonata, distrutta dall’esperienza della vita vera, tornerà dopo due anni completamente cambiata.
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