Monologo femminile - Tecla Insolia in \"L'arte della gioia\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo è uno di quei momenti in cui Modesta rompe ogni ambiguità e si mette completamente a nudo. È una dichiarazione d’intenti, una presa di posizione, ma soprattutto un manifesto interiore. Qui non parla solo la protagonista: parla la filosofia dell’intera serie. Siamo nel punto della storia in cui le strutture di potere attorno a lei stanno crollando – o sono già crollate – e quello che resta, alla fine, è solo il corpo, il desiderio, l’urgenza di vivere pienamente. Questo monologo è, in un certo senso, la risposta di Modesta al mondo: un mondo che l’ha voluta sottomessa, adattata, quieta. Lei, invece, si dichiara impaziente, affamata e consapevole. Non cerca la pace. Cerca la gioia.

Basta fingere obbedienza

STAGIONE 1 EPISODIO 5

MINUTAGGIO: 16:00-17:00

RUOLO: Modesta

ATTRICE: Tecla Insolia

DOVE: Disney+

ITALIANO

Basta. Ero stanca di fingere obbedienza. Di sopportare che qualcuno disponesse delle vite di tutti noi, di questi vuoti esercizi di potere. Adesso era arrivata la pace a liberarci. Anche prima della guerra, non l'ho mai avuta. Io non la conosco la pace. Ma la gioia quella si. Quella so riconoscerla negli altri, quando gli esplode improvvisa nei corpi. Negli occhi che bruciano. E quella la volevo tutta per me.

L'arte della gioia

La storia segue Modesta, una ragazza nata nella Sicilia più arcaica e brutale, in un casolare che sembra il punto esatto dove la civiltà si è fermata. Violenza, miseria, ignoranza, desiderio inespresso: è questo il brodo in cui cresce. E non è una sopravvissuta modello: Modesta è un personaggio disturbante, ambiguo, violento. Una che non perdona e non dimentica. Una che impara che l’amore può essere tossico e il potere una forma di sopravvivenza. E decide di usarli entrambi. Dopo l’abuso subito dal padre, Modesta fugge. Un incidente “accidentale” le porta via la famiglia. Il primo segno che in lei la moralità è un concetto sfumato, non un dogma. Finisce in un convento per nobildonne, dove viene accolta dalla madre superiora Eleonora – interpretata da una Jasmine Trinca che riesce a incarnare perfettamente l’ambiguità tra rigore e desiderio represso. Qui Modesta impara, osserva, cresce, si educa. Ma non si redime: si trasforma.

Modesta vuole tutto. Non una piccola libertà, non una parità di facciata. Vuole possedere la vita. Vuole il piacere, il potere, la ricchezza, la bellezza, l’amore, il controllo. E se per ottenerli deve mentire, manipolare, sedurre, uccidere, tradire... lo farà. Ma mai senza consapevolezza. Mai per disperazione. Sempre per affermazione. Nel corso della serie – sei episodi diretti da Valeria Golino e Nicolangelo Gelormini – la vediamo scalare la società come un animale intelligente, capace di adattarsi a ogni ambiente. Dall’orfana sporca di terra alla padrona di una villa aristocratica, passando per noviziato, bordelli e salotti dell’alta società, Modesta recita un copione che scrive da sola, scena dopo scena. Nessun personaggio è al sicuro intorno a lei. Nessuna emozione è sacra, se non quella che la avvicina a ciò che desidera. Quello che L’arte della gioia riesce a fare, e che pochissime serie italiane hanno mai fatto, è mantenere un equilibrio costante tra esperienza concreta e dimensione simbolica. Ogni scena è reale e, insieme, archetipo.

Ogni gesto è carne e mito. La sessualità di Modesta, ad esempio, non è raccontata come trasgressione, ma come linguaggio. È lo strumento con cui si riappropria di sé e degli altri. È l’arma e la carezza, lo strumento di conquista e il luogo di perdita. La serie – come il romanzo di Goliarda Sapienza da cui è tratta – non ci chiede di amare Modesta. Ci obbliga a guardarla. Anche quando è crudele. Anche quando ci disturba. Anzi, proprio lì sta il punto: è una donna che rifiuta la funzione consolatoria del “femminile”. Non vuole essere “compresa”. Vuole esistere. E questo, ancora oggi, è scomodo.

Analisi Monologo

Basta. Ero stanca di fingere obbedienza.” L’incipit è un taglio netto. Il “Basta” iniziale ha il sapore di uno strappo definitivo, quasi fisico. Non è solo una ribellione alle regole, è una ribellione all’ipocrisia che l’ha accompagnata per anni. “Fingere obbedienza” significa aver indossato una maschera, aver giocato un ruolo in una sceneggiatura non scritta da lei. Questo finto asservimento è stato una strategia, sì, ma ora non serve più. Adesso Modesta vuole solo verità.

Di sopportare che qualcuno disponesse delle vite di tutti noi, di questi vuoti esercizi di potere.” Qui il bersaglio è chiaro: il potere, nella sua forma più sterile e impersonale. Non è solo la nobiltà, la Chiesa, o gli uomini. È chiunque abbia usato il proprio ruolo per governare le vite altrui senza comprenderle. Il potere come “esercizio vuoto” è un’immagine fortissima: qualcosa che si perpetua senza scopo, per inerzia, solo per mantenere se stesso. E Modesta non ci sta. Vuole sottrarsi, rompere questo circuito.

Adesso era arrivata la pace a liberarci.” Questa frase, apparentemente conciliatoria, è in realtà ironica. La “pace” arriva come risultato di una guerra (forse quella mondiale, forse quella privata di Modesta), ma non è una liberazione vera. È uno stato di quiete imposta, di tregua apparente, che non ha nulla a che vedere con ciò che lei desidera. È un’illusione. “Anche prima della guerra, non l'ho mai avuta. Io non la conosco la pace.” Ed ecco il punto centrale: Modesta non ha mai conosciuto la pace. Non le è stata concessa, né l’ha mai trovata da sola. La sua vita è stata una sequenza di conflitti, abusi, fughe, manipolazioni. Questa riga è importante perché sfida l’idea romantica del “ritorno alla pace” dopo il dolore. Per lei, la pace è un concetto astratto, quasi ostile. Non è il suo linguaggio. “Ma la gioia quella sì.

Qui cambia tutto. La voce si abbassa, il ritmo si rallenta. Questo “ma” segna una cesura emotiva: se la pace è distante e sconosciuta, la gioia è vicina, tangibile, reale. È quasi carnale. E Modesta la riconosce, la sa vedere, la desidera. “Quella so riconoscerla negli altri, quando gli esplode improvvisa nei corpi. Negli occhi che bruciano.” Questa è una delle immagini più potenti dell’intera serie. La gioia non è uno stato mentale, è un’esplosione viscerale. “Negli occhi che bruciano” – non sorrisi composti o silenzi beati, ma bruciature, fiamme, vitalità incontrollabile. È un momento in cui il corpo dice la verità, dove l’identità si sfalda e rimane solo l’essenza. “E quella la volevo tutta per me.” Qui c’è il vero cuore del monologo. Non è una dichiarazione altruistica, non è un’idea astratta di emancipazione collettiva. Modesta vuole la propria gioia. Non una porzione, non un riflesso. La vuole intera. È un desiderio radicale, che rifiuta i compromessi. Perché ha capito che tutto ciò che è stato definito “per il suo bene” finora, era in realtà una forma di controllo.

Conclusione

Questo monologo è uno spartiacque nel percorso di Modesta. È il punto in cui non solo si emancipa, ma ridefinisce i termini stessi della libertà. Non chiede giustizia. Non cerca vendetta. Vuole la gioia. E questa scelta – così istintiva, quasi infantile nella sua purezza – è ciò che la rende pericolosa agli occhi del vecchio mondo.

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