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~ LA REDAZIONE DI RC
In The Hill (2023), tra i momenti emotivamente più intensi c’è un monologo di Hellen Hill, madre di Rickey, rivolto al marito — il pastore James Hill — in un momento di rottura familiare e spirituale. È una scena di conflitto domestico, ma anche di rivelazione emotiva: Hellen prende parola per difendere il figlio, ma anche per mettere in discussione la rigidità del marito, la sua incapacità di vedere ciò che ha davanti. Il monologo non ha la struttura classica di un grande discorso cinematografico, ma funziona proprio per la sua forma spezzata, semplice, quasi quotidiana. Una madre che finalmente dice la verità. Senza filtri.
MINUTAGGIO: 1:39:00-1:40:00
RUOLO: Hellen Hill
ATTRICE: Joelle Carter
DOVE: Netflix
ITALIANO
Mi manca mia mamma. lei riusciva a capire. diceva che non facevi nessun errore. tuo figlio non è un mostro. e’ speciale. E’ perfetto. Quando è nato, e l’ho visto con le gambe così piccole e fragili, mi hanno detto: “nON camminerà mai”, ma lui ha corso. Hanno detto: "lui non sopravvivrà mai alle operazioni, ma lui è sopravvissuto". Hanno detto che non sarebbe mai stato abbastanza bravo, ma lui è il migliore! Di quanti altri miracoli hai bisogno? Smettila.
Il film The Hill del 2023 è un biopic sportivo, diretto da Jeff Celentano, incentrato sulla vera storia di Rickey Hill, un giovane texano cresciuto negli anni ’60 con una grave malformazione alla colonna vertebrale, appassionato di baseball fin da bambino. La sua storia è il classico racconto di chi sfida limiti fisici e sociali per inseguire un sogno apparentemente irraggiungibile. Rickey Hill nasce in una famiglia molto religiosa: suo padre, pastore battista (interpretato da Dennis Quaid), è una figura austera e severa, convinta che il baseball sia una distrazione dai veri valori della vita. Rickey, però, non riesce a togliersi dalla testa quel gioco. Sin da piccolo cammina con apparecchi ortopedici, ma questo non gli impedisce di lanciare, colpire, allenarsi da solo nei campi polverosi del Texas. Col tempo, grazie a un recupero fisico sorprendente, riesce a togliersi i tutori e comincia a giocare davvero, prima in contesti amatoriali, poi con un talento che non passa inosservato.
Il cuore della narrazione si gioca su due fronti: il conflitto con il padre, che teme per la salute del figlio e non crede che Dio lo voglia su un campo da baseball, e la determinazione personale di Rickey, che vuole essere giudicato per quello che può fare, non per quello che ha sofferto. Quando finalmente arriva un provino con uno scout professionista, Rickey deve dimostrare che la sua è più di una favola a lieto fine: è il risultato di anni di sacrifici, dolore fisico e isolamento.
“Mi manca mia mamma. lei riusciva a capire.” L’apertura è intima. Non si parla ancora di Rickey: si parla della madre di Hellen, come se il suo spirito fosse l’unico che, in quel momento, riesce a darle forza. È un modo indiretto per dire: “Mi sento sola in questa famiglia”, “tu non mi capisci”, ma detto attraverso l’assenza di un’altra donna. Questo è l’innesco emotivo. “diceva che non facevi nessun errore. tuo figlio non è un mostro. e’ speciale. E’ perfetto.” Qui il monologo si muove su un piano duale: è una difesa del figlio, ma è anche un’accusa rivolta al marito. La parola mostro pesa tantissimo. Non è un insulto letterale, ma è il riflesso del modo in cui il padre guarda Rickey: come un problema, un’anomalia, qualcosa da correggere o nascondere. Speciale e perfetto, invece, sono parole che rifiutano ogni logica razionale. Hellen parla da madre. Non sta giudicando con la mente, ma con la memoria del dolore, dell’ansia e delle speranze.
“Quando è nato, e l’ho visto con le gambe così piccole e fragili, mi hanno detto: ‘non camminerà mai’, ma lui ha corso.” Questa parte è costruita con una ripetizione retorica molto chiara: mi hanno detto... ma lui. È la struttura dei miracoli laici. Della resilienza, se vogliamo usare una parola abusata ma qui calzante. Ogni frase è una smentita di ciò che i medici, la società o anche il padre hanno preteso di stabilire. Rickey è sempre stato più forte delle diagnosi, dei limiti imposti. Questa sezione è il cuore pulsante del monologo: è la prova vivente dell’errore di chi giudica in anticipo. “hanno detto che non sarebbe mai stato abbastanza bravo, ma lui è il migliore!” Qui il discorso si allarga dal piano fisico a quello morale e sportivo. È una dichiarazione d’amore, ma anche di rabbia. “Il migliore” non vuol dire “tecnicamente il più forte”, ma “nessuno ha mai lottato più di lui”. In una società (e in un contesto familiare) in cui il valore è definito dall’efficienza, Hellen rivendica un altro tipo di grandezza. “Di quanti altri miracoli hai bisogno? Smettila.” La chiusura è tagliente. Siamo davanti a un ultimatum emotivo. Non ci sono più spiegazioni, né dolcezze. Smettila è una parola secca, netta, che contiene tutta la frustrazione accumulata. È l’unico punto in cui Hellen non cerca di far capire: ordina. È il momento in cui il personaggio esce dalla dolcezza materna e prende una posizione attiva, concreta.
Questo monologo funziona non perché sia retoricamente perfetto, ma perché nasce da un dolore reale e da una tensione interna che attraversa tutta la narrazione di The Hill. Hellen Hill, finora figura laterale, si impone in scena con un tono quasi evangelico al contrario: se il marito legge la volontà di Dio come restrizione, lei la legge come possibilità. È un monologo che parla di fede, sì, ma filtrata attraverso gli occhi di una madre: fede nella vita, nella lotta, nel figlio. E nel fatto che, davanti a certi miracoli, non ci si può ostinare a chiudere gli occhi.
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