Monologo - Florence Pugh in \"We live in time\"

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Articolo a cura di...


~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il monologo di Almut è il cuore emotivo del conflitto tra lei e Tobias. Dopo una discussione carica di tensione, Almut finalmente espone la sua paura più profonda: non essere ricordata. Non si tratta solo del cancro o della sua carriera, ma della lotta contro l’oblio. Per lei, la malattia rischia di cancellare tutto ciò che è stata, riducendola a un ricordo fragile e doloroso per la figlia. In queste parole c’è la sua disperazione, il suo bisogno di lasciare un segno e il rifiuto di essere definita solo dalla sua morte imminente.

Voglio fare qualcosa nella vita

MINUTAGGIO: 1:30:00 circa

RUOLO: Almut
ATTRICE:
Florence Pugh
DOVE:
Al cinema!



ITALIANO


Il fatto che per la miseria tu non pensi che forse non voglio essere solo la cazzo di mamma morta di qualcuno? Ormai niente mi terrorizza di più del pensiero che lei non abbia assolutamente niente per cui ricordarmi. E' come se ci fosse una parte di me che desidera disperatamente che lei sappia che non mi sono arresa. E non sarebbe fantastico se magari un giorno lei decidesse di ripensare a questo periodo e lei scegliesse di ripensare a questa... cosa tremenda che ci è capitata e pensasse: "Cavolo, quella è la mia mamma!" Io non... Io non voglio che il mio rapporto con Ella rimanga limitato solo alla mia malattia. O magari non sopporto di essere dimenticata. Non so cosa sia peggio.

We live in time - Tutto il tempo che abbiamo

"We Live in Time - Tutto il tempo che abbiamo" è un film che esplora il tempo come elemento cardine della vita e delle relazioni umane. Al centro della storia troviamo Tobias e Almut, due persone che si incontrano per caso e costruiscono una vita insieme, attraversando amore, malattia e scelte difficili. Non è solo una storia romantica, ma un racconto che affronta la paura del tempo che scorre e di ciò che lasciamo dietro di noi. Fin dal primo incontro tra Tobias e Almut, il film imposta il suo tema principale: il tempo e il modo in cui lo viviamo. Tobias, un uomo nel mezzo di un divorzio, e Almut, una chef focalizzata sulla sua carriera, si trovano in un momento di transizione. Il loro legame nasce in modo spontaneo e cresce velocemente, ma viene messo alla prova dalla malattia. La relazione tra i due segue una traiettoria che passa dal desiderio di costruire qualcosa insieme all’inevitabile confronto con la fragilità della vita. La decisione di Almut di non sottoporsi subito al trattamento è un punto centrale del film: è una scelta che esprime il suo desiderio di vivere il tempo che le resta senza compromessi. Eppure, quando Tobias le propone di sposarsi, lei cambia idea, dimostrando che l’amore e la paura di lasciare chi si ama possono influenzare anche le scelte più difficili.


Uno degli aspetti più toccanti del film è il modo in cui Almut vuole essere ricordata. Non vuole che sua figlia la veda solo come una malata, ma come una persona piena di passione e talento. Questo spiega perché accetta di partecipare al Bocuse d'Or, nonostante le condizioni di salute. È un atto che può sembrare egoistico, ma in realtà è una forma di resistenza contro l'oblio: Almut non vuole essere definita dalla sua malattia. L’ultima parte del film, in cui Tobias ed Ella si trovano da soli, mostra come il tempo continui a scorrere anche dopo la perdita. La scena in cui Tobias insegna alla figlia a rompere un uovo, proprio come Almut aveva fatto con lui, è un momento di trasmissione: non si tratta solo di cucinare, ma di mantenere vivo il ricordo di chi non c’è più. Dalle premesse, We Live in Time sembra avere una regia che punta all’intimità e alla delicatezza, con una fotografia che potrebbe alternare colori caldi nei momenti felici e toni più freddi nelle fasi difficili. Il ritmo probabilmente riflette la crescita del rapporto tra i due protagonisti, per poi rallentare quando il tempo inizia a scarseggiare. Nel complesso, il film racconta una storia che parla d’amore, perdita e memoria senza indulgere in facili sentimentalismi. Non è un dramma che cerca di colpire lo spettatore con la tragedia fine a sé stessa, ma una riflessione su cosa significhi davvero vivere il tempo che abbiamo.

Analisi Monologo

Il monologo si sviluppa attorno a due elementi chiave: la paura dell’irrilevanza e il desiderio di costruire un’eredità significativa. "Il fatto che per la miseria tu non pensi che forse non voglio essere solo la cazzo di mamma morta di qualcuno?" L’apertura è diretta, quasi brutale. Almut non usa mezzi termini perché sta cercando di scuotere Tobias. L’espressione “cazzo di mamma morta” è volutamente cruda: per lei, essere ricordata solo come una madre che ha perso la battaglia contro il cancro è una prospettiva insopportabile. "Ormai niente mi terrorizza di più del pensiero che lei non abbia assolutamente niente per cui ricordarmi."


Qui il monologo si sposta sul piano della memoria. Non è solo la morte a spaventarla, ma l’idea di non lasciare nulla dietro di sé. L’uso di “niente” è assoluto, sottolinea la sua angoscia di svanire senza lasciare traccia. "E' come se ci fosse una parte di me che desidera disperatamente che lei sappia che non mi sono arresa." Questa frase è il fulcro emotivo del monologo. Almut non sta solo cercando il successo per sé stessa, ma vuole dimostrare a sua figlia che ha lottato fino alla fine. Non vuole essere ricordata come una vittima, ma come qualcuno che ha cercato di affermare la propria identità nonostante tutto. "E non sarebbe fantastico se magari un giorno lei decidesse di ripensare a questo periodo e lei scegliesse di ripensare a questa... cosa tremenda che ci è capitata e pensasse: 'Cavolo, quella è la mia mamma!'"


Qui il tono si fa più intimo e speranzoso. La frase “Cavolo, quella è la mia mamma!” è un’ideale proiezione del futuro, il modo in cui Almut spera che sua figlia la ricorderà. È il suo sogno, il suo obiettivo: non essere solo la madre malata, ma una figura di forza e determinazione. "Io non... Io non voglio che il mio rapporto con Ella rimanga limitato solo alla mia malattia." Questa frase spezza il ritmo con la ripetizione di “Io non... Io non voglio”, un’esitazione che mostra la difficoltà di ammettere questa paura ad alta voce. È un grido di resistenza: il cancro ha già invaso il suo corpo, ma lei non vuole che invada anche il modo in cui verrà ricordata. "O magari non sopporto di essere dimenticata. Non so cosa sia peggio." La chiusura del monologo è devastante. Almut ammette che il suo timore più grande potrebbe non essere nemmeno la malattia, ma l’oblio. L’incertezza finale (“Non so cosa sia peggio”) lascia in sospeso la sua angoscia, perché in realtà non c’è una risposta. È un dubbio esistenziale che la tormenta: è peggio essere ricordata solo come una madre malata o essere dimenticata del tutto?

Conclusione

Questo monologo è il momento in cui Almut rivela ciò che Tobias non aveva mai capito: la sua lotta non è solo contro la malattia, ma contro la sparizione. Per lei, il Bocuse d'Or non è solo una gara di cucina, ma un simbolo della sua volontà di lasciare un segno. Non sta cercando di abbandonare la famiglia, ma di dare alla figlia un motivo per essere orgogliosa di lei. È un monologo che parla di paura, di orgoglio e del desiderio umano di essere ricordati per ciò che si è stati, e non solo per ciò che si è perso.

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