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~ LA REDAZIONE DI RC
Nel contesto della serie, questo monologo arriva durante una festa mafiosa: un raduno che in superficie celebra “la famiglia”, ma che in realtà serve a riaffermare potere, controllo, gerarchie interne. Carlo prende la parola come un patriarca — tono solenne, linguaggio inclusivo, sguardo apparentemente affettuoso — ma ogni parola è intrisa di controllo, minaccia e ipocrisia. Lui non parla davvero alle persone. Sta conducendo un rito. Un atto di potere camuffato da amore. E lo fa nel momento in cui sua figlia Denise è sempre più distante da lui — sia emotivamente, che fisicamente. Lea è già “scomparsa”, e lui recita un copione in cui cerca di riscrivere la realtà secondo il suo volere.
STAGIONE 1 EPISODIO 2
MINUTAGGIO: Metà episodio
RUOLO: Carlo Cosco
ATTORE: Francesco Colella
DOVE: Disney+
ITALIANO
Scusate...Io vi volevo dire grazie. Vi volevo ringraziare perché noi stasera siamo qua a festeggiare, no? La famiglia e la lealtà. Ecco perché siamo qua. Ecco come siamo fatti noi...io penso che per me è un onore vedere tutte queste famiglie, famiglie buone, famiglie...rispettabili. E tutti che avete visto mia figlia Denise, che come la mamma non è qua stasera. Ma non importa. Perché io ora lo so dov'è mia figlia. Io so dove dorme. E lei lo sa, che è questa casa sua. Pagliarelle è casa sua. La Calabria è casa sua. E se vuole il Signore, lei qua deve restare. E quindi faccio un brindisi, ma un brindisi per tutti quanti. E' un brindisi semplice semplice. Alla famiglia. E alla lealtà.
Il vero punto di forza di questa serie è che non è un crime come ce lo aspettiamo. Nessuna mitizzazione della criminalità, nessun antieroe affascinante con un lato oscuro “interessante”. Qui la 'ndrangheta non è affascinante: è soffocante. E la violenza più presente non è quella delle pistole, ma quella del silenzio, dell’obbedienza, della paura che scorre nelle vene come un’eredità genetica. E il punto di vista? È quello delle mogli, delle madri, delle figlie. Delle “good mothers”, appunto. Donne cresciute dentro un sistema che le vuole mute e piegate. E che invece trovano una voce. Una voce spezzata, scomoda, incerta. Ma che comincia a parlare.
Tratta dal libro di Alex Perry, The Good Mothers racconta un’operazione realmente avvenuta: quella che ha visto la magistrata Anna Colace puntare sulle donne dei clan per far crollare la 'ndrangheta dall’interno. Una strategia mai tentata prima in modo sistemico, che ha richiesto coraggio legale, ma anche una profonda comprensione emotiva del contesto. Perché si tratta di strappare esseri umani da un’intera esistenza, dalla propria rete di affetti, spesso anche da figli che non capiscono. E qui entra in scena Lea Garofalo (Ramazzotti), uno dei casi più noti e agghiaccianti. Una donna che ha vissuto con la morte accanto per anni, che ha provato a salvarsi, a rifarsi una vita con la figlia Denise, e che alla fine ha pagato con la scomparsa (e il brutale omicidio) il prezzo della sua ribellione.
Poi ci sono Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola, due figure che incarnano due volti di un risveglio: quello che si fa lentamente strada nella consapevolezza di una vita che non è vita, e quello che esplode come un grido disperato. La parabola di Maria Concetta è forse la più straziante: l’illusione di poter cambiare, la richiesta di perdono alla propria famiglia, e la fine tragica. Non “perché si è ribellata”, ma perché in fondo non le è stato concesso di esistere fuori dal sistema. Un punto che spesso passa sotto traccia, ma che merita attenzione, è il ruolo di Denise (Gaia Girace). Denise è la figlia di Lea, ma anche il prodotto di quel mondo che sua madre ha cercato di lasciarsi alle spalle. La sua evoluzione – dall’adolescente che non comprende fino in fondo la madre, alla giovane donna che porta avanti il testimone della giustizia – è uno degli archi narrativi più potenti della serie. E qui non si parla solo di giustizia penale, ma di giustizia emotiva, quasi spirituale. Denise diventa la voce che Lea non ha potuto portare fino in fondo.
Barbara Chichiarelli dà vita a un personaggio incredibilmente sottile. Colace non è la classica magistrata granitica da fiction: è riservata, quasi schiva, ma si percepisce come ogni storia che ascolta le entri dentro. Il suo rapporto con Giuseppina è forse la relazione centrale dell’intera serie: due donne che si incontrano da due estremità opposte del sistema, ma che imparano a vedersi come esseri umani, fragili, segnate e, proprio per questo, capaci di verità. Perché The Good Mothers è importante? Perché mostra che la ribellione non sempre è eroica. A volte è dolorosa, goffa, solitaria. Ma è reale. E soprattutto, è possibile. In un panorama narrativo in cui troppo spesso le figure femminili legate al crimine vengono rappresentate o come complici o come vittime passive, The Good Mothers sceglie una terza via: quella del coraggio imperfetto, ma decisivo.
Una serie da vedere, discutere, condividere. Non perché “denuncia”, ma perché racconta. E in un momento storico in cui la rappresentazione delle donne nel crime sembra ancora imprigionata tra archetipi e glamour, questa serie ci ricorda che la verità è molto più potente della fiction.
«Io vi volevo dire grazie. Vi volevo ringraziare perché noi stasera siamo qua a festeggiare, no?» Attacco informale, colloquiale, quasi amichevole. Carlo simula l’umiltà: si mette al livello degli altri, ringrazia. Ma il tono è ambiguo. Il “vi volevo ringraziare” non è un gesto sincero: è un invito alla complicità. Stiamo tutti partecipando a qualcosa di “giusto”, no?
«La famiglia e la lealtà. Ecco perché siamo qua.» Le due parole chiave del linguaggio mafioso. “Famiglia” è ciò che viene esibito, lealtà è ciò che viene preteso. Ma entrambe, nel contesto in cui vengono dette, non sono affetti o valori sono strumenti di controllo. Lealtà significa obbedienza. Famiglia significa possesso.
«Ecco come siamo fatti noi… io penso che per me è un onore vedere tutte queste famiglie, famiglie buone, famiglie... rispettabili.» La frase “ecco come siamo fatti noi” è centrale. È la costruzione dell’identità di clan. Siamo “noi” contro “loro”, e “noi” siamo “buoni”, “rispettabili”. Ma è una rispettabilità costruita sulla violenza, sul silenzio, sulla paura. Le parole buone non coprono i fatti. E il modo in cui lo dice, con quel tono quasi cerimoniale, serve a ribadire che chi è lì deve sentirsi parte di qualcosa di più grande. Nessuno può chiamarsi fuori.
«E tutti che avete visto mia figlia Denise, che come la mamma non è qua stasera. Ma non importa.» Ecco il momento più agghiacciante del monologo. Nomina Lea senza nominarla. “La mamma non è qua stasera”, detta così, sembra una casualità. Ma chi guarda sa che Lea è stata fatta sparire, probabilmente proprio da lui o su suo ordine.
E poi aggiunge: “ma non importa”. È il punto più gelido di tutto il discorso. Non importa. Perché la volontà individuale non ha peso. Chi è assente non esiste più.
«Perché io ora lo so dov’è mia figlia. Io so dove dorme. E lei lo sa, che è questa casa sua.»
È la frase più inquietante del monologo. Carlo sta dicendo che controlla Denise. Che sa dov’è. Che lei non può scappare. È una minaccia, mascherata da affermazione affettuosa. "So dove dorme" non è una rassicurazione, è un modo per dire che la tiene d’occhio. “Lei lo sa” – cioè: è inutile che provi a cambiare le cose.
«Pagliarelle è casa sua. La Calabria è casa sua. E se vuole il Signore, lei qua deve restare.»
Qui Carlo allarga il campo. La terra come gabbia. La famiglia come nazione. L’appartenenza non è scelta, è destino. E usare il nome di Dio (“se vuole il Signore”) serve a dare legittimità “sacra” a un sistema che in realtà è solo potere umano travestito da valore religioso.
«E quindi faccio un brindisi… un brindisi semplice semplice. Alla famiglia. E alla lealtà.»
Il tono finale è di apparente chiusura “calda”. Ma il brindisi è un sigillo mafioso. Chi beve quel bicchiere accetta il sistema, ne fa parte. È l’ennesimo passaggio simbolico di un mondo in cui la forma serve a nascondere la sostanza.
Questo monologo è una cerimonia di potere mascherata da festa familiare.
Carlo Cosco non sta ringraziando nessuno. Sta imponendo una narrazione, sta dicendo: questa è la mia famiglia, questo è il mio mondo, e chi non ci sta... scompare. È uno dei momenti più emblematici della serie proprio perché non ha bisogno di mostrare violenza per essere violento. È un esempio perfetto di come The Good Mothers racconti la criminalità dal punto di vista del non detto, del sottinteso, della pressione psicologica.
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