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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Lee Ji-soo in The Great Flood è un esempio perfetto di tensione costruita attraverso la lucidità. In poche battute, il personaggio annuncia la fine del mondo senza alzare mai la voce, trasformando l’apocalisse in un problema tecnico da risolvere. Non c’è panico, non c’è retorica, solo dati, tempo che scorre e una missione inevitabile. È un monologo che mette l’attore di fronte a una sfida precisa: sostenere il peso della catastrofe attraverso il controllo, non attraverso l’emozione.
Scheda del monologo
Contesto del film
Testo del monologo (estratto+note)
Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa
Finale del film (con spoiler)
Credits e dove trovarlo
Durata: 1 e 15 minuti
Il film si apre in modo intimo e straniante. An-na cerca di dormire accanto al figlio Ja-in, un bambino di sei anni che indossa degli occhialini da nuoto e insiste che fuori ci sia una piscina. Il gioco innocente si mescola subito a un senso di inquietudine: Ja-in invita la madre a infilarsi sotto le coperte e a trattenere il respiro contando fino a trenta. Mentre An-na conta, strani rumori iniziano a farsi strada, fino a rivelarsi per quello che sono: un violento temporale. La quotidianità sembra riprendere il suo corso. An-na parla con la madre, una figura opprimente e ansiosa, mentre Ja-in gioca con la sua tavoletta grafica. Ma qualcosa si spezza improvvisamente: il pavimento di casa comincia ad allagarsi. Affacciandosi alla finestra, An-na vede l’impensabile: la città è completamente sommersa dall’acqua. Una voce robotica annuncia l’inondazione. Ja-in è entusiasta, vorrebbe uscire a giocare, mentre la madre entra in modalità sopravvivenza.
An-na prepara una valigia, prende le medicine del figlio e riceve una telefonata da un responsabile della sicurezza, che le fornisce istruzioni per mettersi in salvo. Poco dopo, però, la corrente salta. Ja-in si nasconde, spaventato dopo essere stato rimproverato, e An-na deve cercarlo nel caos crescente. Quando finalmente escono dall’appartamento, l’edificio è in preda al panico: gli inquilini urlano, l’acqua sale, le scale principali sono intasate da chi tenta di fuggire verso l’alto. Seguendo un percorso secondario, An-na riesce a salire con il bambino, assistendo a scene di puro terrore: persone trascinate via dalla corrente, oggetti che diventano armi. Per tranquillizzare Ja-in, An-na inizia a cantare mentre salgono. Arrivati a un piano superiore, trovano rifugio insieme ad altri sopravvissuti, ma il pericolo non è finito. In una stanza del condominio, An-na vede arrivare verso la finestra un’onda anomala.
L’impatto con l’acqua scatena un trauma profondo. An-na rivive un ricordo del passato: lei, il marito e Ja-in intrappolati in auto durante un incidente in acqua. Tornata nel presente, cerca disperatamente aria e le medicine del figlio, ma tutto viene risucchiato dalla marea. Sott’acqua, Ja-in perde conoscenza. Anche An-na sta per annegare, quando il responsabile della sicurezza riesce miracolosamente a raggiungerli, portarli in superficie e rianimare il bambino. Da questo momento il film si apre a una dimensione più ampia. L’uomo rivela che l’acqua è salata per un motivo preciso: un asteroide ha colpito l’Antartide, causando una reazione a catena che ha sommerso metà del Giappone. An-na scopre che il suo lavoro su un’IA avanzata è cruciale per il futuro dell’umanità. Sono stati creati esseri artificiali in grado di riprodursi, ma manca ancora un’Intelligenza Artificiale dotata di emozioni: l’Emotion Engine.
Durante la fuga, emergono verità sempre più inquietanti. Ja-in ha crisi fisiche senza le sue medicine. L’uomo suggerisce ad An-na che potrebbe “ricrearlo”, riportandolo allo stato di quella mattina, perché possiede tutti i suoi dati. An-na è devastata: per lei Ja-in non è un insieme di dati, ma suo figlio. Un flashback rivela la verità: Ja-in e un’altra bambina sono creazioni dell’Emotion Engine, esperimenti progettati per sviluppare emozioni autentiche attraverso l’esperienza.
Il film continua alternando presente, passato e visioni. An-na cade di nuovo in acqua, prova a salvare una bambina intrappolata in un ascensore, incontra saccheggiatori, rivive l’incidente in cui fu costretta ad abbandonare il marito per salvare il figlio. Tutto sembra ripetersi con variazioni minime, come se la realtà fosse bloccata in un loop. Fino a quando, la donna arriva sul tetto. Qui, viene separata con forza dalle forze speciali. Il bambino viene rasato a zero e l'uomo che era con lei ucciso: non esiste nessun rifugio. La donna dice qualcosa all'orecchio del bambino prima di andarsene, e partire su una missione spaziale, diretti verso delle navi da dove dovranno nascere "i nuovi umani" per ripopolare la terra. Qui, spiega il suo esperimento: creare una mamma e un figlio in maniera digitale, con le loro emozioni. La madre dovrà inseguire il figlio per raggiungerlo, nonostante alcune difficoltà. Ma mentre spiega l'esperimento, una scheggia di un asteroide colpisce la navicella.
Incredibilmente, ci troviamo di nuovo nella mattina del disastro, con la fuga di An-na, dell'uomo, e del figlio. E ancora, ancora, ancora, An-na perde suo figlio, in sequenze sempre più ripetitive e vicine. aun videogioco. Gradualmente, An-na comprende l’orrore finale: ciò che stiamo vedendo non è solo una catastrofe reale, ma una simulazione. Un pattern che si ripete all’infinito. La donna sta rivivendo, migliaia di volte, la ricerca del figlio in un edificio che affonda. Ogni ciclo è un tentativo, un livello superato o fallito. Un dettaglio di regia lo conferma: il numero sulla maglietta di An-na cambia a ogni ripetizione, superando i 20.000 tentativi. Il responsabile della sicurezza non è un antagonista, ma un osservatore. È lì per capire cosa farà An-na, se sarà capace di abbandonare Ja-in come lei stessa fu costretta a fare con il marito. Ma An-na non rinuncia mai. Anche quando scopre che non esiste alcun rifugio, che l’umanità sta per estinguersi, continua a cercare suo figlio.
Nel cuore della simulazione, An-na ritrova Ja-in nascosto in un armadio. Il bambino le ricorda le parole che lei stessa gli aveva detto all’inizio di tutto: di nascondersi lì e aspettare, perché la mamma sarebbe tornata a cercarlo. È il punto di rottura emotivo del film.

Dottoressa, sono Lee Ji-soo, direttore del laboratorio Isabela. Poiché si è unita a noi con poco preavviso le dò ancora qualche informazione. Tra un quarto d’ore, decine di migliaia di frammenti meteorici avranno colpito la terra, ergo la maggior parte delle forme di vita terrestri sarà estinta. Stamattina il Darwin Center ha lanciato sette razzi da basi sparse nel mondo per prevenire l’estinzione dell’uomo. Siamo gli unici sopravvissuti del genere umano. Un momento. L’umanità dovrà evolversi per sopravvivere alle conseguenze della grande inondazione, servendosi delle conseguenze e della tecnologia. Puntiamo alla più piccola unità umana, e l’obiettivo della squadra è produrre una madre e suo figlio Nel laboratorio Isabela siamo in grado di creare corpi simili a quelli umani, ma soltanto lei può completare l’Emotion Engine e fornire ai corpi emozioni umani. Lasci che le spieghi la missione, dottoressa Gu.
“Dottoressa, sono Lee-Ji-soo, direttore del laboratorio Isabela.”: ingresso istituzionale, tono neutro e preciso; contatto visivo breve all’inizio su “Dottoressa”, poi sguardo stabile; ritmo scandito, come una presentazione protocollare che mette distanza emotiva.
“Poiché si è unita a noi con poco preavviso le dò ancora qualche informazione.””: tono da briefing; leggero appoggio su “poco preavviso” (senza giudizio); respirazione controllata; evita “gentilezza” eccessiva, è efficienza mascherata da cortesia.
“Tra un quarto d’ore, decine di migliaia di frammenti meteorici avranno colpito la terra, ergo la maggior parte delle forme di vita terrestri sarà estinta.”: qui la forza è la calma; micro-pausa dopo “Tra un quarto d’ore” per far entrare il tempo che manca; “ergo” va pronunciato come scelta chirurgica di linguaggio, non come sfoggio; su “sarà estinta” abbassa leggermente il volume, come una notizia già metabolizzata.
“Stamattina il Darwin Center ha lanciato sette razzi da basi sparse nel mondo per prevenire l’estinzione dell’uomo.”: ritmo più scorrevole, da report; non enfatizzare “sette”, ma rendilo concreto con precisione; sguardo che ogni tanto “si stacca” come se visualizzasse una mappa; nessuna retorica eroica.
“Siamo gli unici sopravvissuti del genere umano.”: frase-sentenza; fai un respiro pieno prima; tieni lo sguardo fermo, senza sfida; lascia un silenzio breve dopo, perché è il momento in cui l’altro deve realizzare davvero.
“Un momento.”: taglio netto; serve a ricalibrare il discorso, come se si correggesse in tempo reale; alza appena la mano o inclina il capo, gesto minimo; pausa subito dopo, per segnare cambio di fase.
“L’umanità dovrà evolversi per sopravvivere alle conseguenze della grande inondazione, servendosi delle conseguenze e della tecnologia.”: tono più “visionario” ma sempre clinico; appoggio su “dovrà” (necessità, non possibilità); su “servendosi” fai una micro-pausa, come a scegliere le parole; “tecnologia” non va celebrata, va presentata come unico strumento rimasto.
“Puntiamo alla più piccola unità umana, e l’obiettivo della squadra è produrre una madre e suo figlio.”: qui attenzione: è un’idea enorme detta con linguaggio da laboratorio; sottolinea “più piccola unità umana” con lentezza, quasi fosse una definizione; su “produrre” non essere cinico, ma inevitabile; breve pausa prima di “una madre e suo figlio” per far percepire l’assurdità etica senza commentarla.
“Nel laboratorio Isabela siamo in grado di creare corpi simili a quelli umani, ma soltanto lei può completare l’Emotion Engine e fornire ai corpi emozioni umani.”: vai di contrasto netto sul “ma”; prima parte: sicurezza operativa, tono da competenza (“siamo in grado”); seconda parte: riconoscimento della sua unicità, sguardo diretto su “soltanto lei”; “Emotion Engine” va pronunciato con naturalezza, come termine quotidiano per lui; su “emozioni” rallenta appena, perché è la parola più umana del discorso.
“Lasci che le spieghi la missione, dottoressa Gu.”: chiusura formale, ma non fredda—è un aggancio; su “missione” non fare enfasi eroica, è un protocollo di sopravvivenza; “dottoressa Gu” va detto con rispetto reale, come ultima ancora; lascia un attimo di silenzio finale, come se la stanza diventasse improvvisamente più piccola.
Il monologo di Lee-Ji-soo è costruito come un briefing scientifico, ma il suo vero peso non sta nelle informazioni che trasmette, bensì nel modo in cui vengono consegnate. Lee Ji-soo non è lì per convincere, né per rassicurare: è lì per certificare. Ogni frase ha la funzione di spogliare la realtà di qualsiasi residuo emotivo, riducendola a una sequenza di dati inevitabili. Questo rende il monologo profondamente inquietante, perché l’apocalisse viene annunciata senza urgenza apparente, come se fosse già avvenuta sul piano emotivo del personaggio. Presentarsi con nome e ruolo serve a ristabilire una gerarchia in un mondo che sta crollando. Lee Ji-soo parla da direttore, da ultimo rappresentante di un ordine razionale che sopravvive solo grazie al linguaggio tecnico. Anche quando comunica che entro quindici minuti la maggior parte delle forme di vita terrestri sarà estinta, non cambia registro: il tempo limitato non accelera il ritmo, anzi lo rende ancora più misurato. È proprio questa calma a creare tensione, perché segnala che il personaggio ha già interiorizzato la fine del mondo.
Quando afferma che loro sono gli unici sopravvissuti del genere umano, il monologo raggiunge un primo picco drammatico, ma senza enfasi. Non c’è orgoglio né disperazione, solo una presa d’atto. Lee-Ji-soo sta passando dalla diagnosi alla soluzione. È qui che emerge il vero cuore del personaggio. La salvezza dell’umanità non è presentata come un atto morale, ma come un problema evolutivo. L’essere umano, così com’è, non può sopravvivere. Deve essere ripensato. Il riferimento alla “più piccola unità umana” è uno dei passaggi più potenti del monologo, perché racchiude un paradosso enorme: di fronte all’estinzione globale, la risposta non è collettiva, ma intimamente familiare. Una madre e un figlio diventano un progetto scientifico, una funzione da replicare. Lee Ji-soo non si sofferma sulle implicazioni etiche di questa scelta, e proprio questa assenza di commento rende il testo disturbante. Non è disumanità, è una forma estrema di pragmatismo.
Il momento in cui riconosce che solo la dottoressa Gu può completare l’Emotion Engine introduce una variazione sottile ma decisiva. Per la prima volta, il discorso si sposta dall’astratto al personale. Non c’è adulazione, ma riconoscimento funzionale: lei non è speciale perché è unica come individuo, ma perché possiede ciò che manca al sistema, ovvero la capacità di dare emozioni. In un monologo dominato da dati e procedure, la parola “emozioni” diventa quasi un corpo estraneo, ed è qui che l’attore deve lasciar filtrare una crepa minima, impercettibile, senza trasformarla in empatia esplicita. La chiusura, con l’invito a spiegare la missione, non è un’apertura al dialogo, ma un passaggio di consegne. Lee Ji-soo ha fatto ciò che doveva: ha delimitato il mondo, ha dichiarato la fine e ha indicato l’unica strada possibile. Da questo momento in poi, la responsabilità emotiva non è più sua. Ed è proprio questa sottrazione finale a rendere il monologo così efficace per un attore: non chiede coinvolgimento, chiede precisione, autorità e controllo.

Il finale rivela definitivamente il senso di tutto. An-na, morente su un’astronave, sceglie di diventare lei stessa il soggetto dell’esperimento. I suoi ricordi vengono uniti a quelli di Ja-in. La simulazione dell’inondazione non è altro che un ambiente emotivo progettato: una madre che insegue eternamente il figlio. Un motore emotivo puro, basato sull’amore, sulla perdita e sulla determinazione. Quando An-na, all’interno della simulazione, riesce finalmente a restituire gli occhialini a Ja-in e a salvarlo, il sistema si blocca. L’esperimento ha funzionato. L’Emotion Engine è nato. L’umanità può tornare sulla Terra. Nel finale, An-na si risveglia insieme al figlio e ad altre navicelle che rientrano sul pianeta. Non è solo una vittoria tecnologica, ma una vittoria emotiva: l’amore materno, reiterato all’infinito, diventa la chiave per la rinascita dell’umanità.
Regista: Kim Byung-woo
Sceneggiatura:Kim Byung-woo, Han Ji-su
Produttore: Kim Chun-kyoung
Cast: Kim Da-mi: An-na Koo Park Hae-soo: Hee-jo Kwon Eun-sung: Ja-in Park Byung-eun: Hwi-so Yuna: Ji-su
Dove vederlo: Netflix

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