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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Hopper in Stranger Things 4 rappresenta uno dei momenti più densi del personaggio, una confessione che unisce ricordi di guerra, colpa paterna e bisogno affettivo. All’interno della prigione russa, Hopper smonta la propria immagine da uomo invincibile e racconta le origini del dolore che lo accompagna da anni.
Scheda del monologo
Contesto del film
Testo del monologo (estratto+note)
Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa
Finale del film (con spoiler)
Credits e dove trovarlo
Minutaggio: 28:30-32:33 (Episodio 5)
Durata: 5 minuti
Stranger Things 4 parte da un momento preciso: il 1986. Sono passati alcuni mesi dal caos allo Starcourt Mall e ogni personaggio si muove con il peso di quello che è accaduto.Il primo elemento evidente è che il “mostro” non ha più solo la forma del Demogorgone o delle particelle del Sottosopra. È interno ai personaggi. Ognuno porta una ferita che condiziona la sua quotidianità.
Undici affronta la perdita dei poteri, e insieme a quella affronta un vuoto personale. Prima aveva un ruolo chiaro nel gruppo; ora fatica a trovare un posto nella vita normale, dove la minaccia non arriva dal Sottosopra ma da compagni di scuola pronti a umiliarla. La vulnerabilità diventa un tema centrale. Max vive un percorso diverso. La morte di Billy le ha lasciato una serie di domande insolute, insieme a un senso di colpa che non sa gestire. La sua giornata è scandita da cuffie, silenzi e un distacco costante da chi le vuole bene. È un personaggio che procede come se si muovesse su un terreno minato. Hopper, creduto morto, riappare dall’altra parte del mondo. In Russia lo vediamo distante dall’uomo che conoscevamo: convinzioni pesanti sul proprio valore, dolore fisico e morale, e la sensazione di essere una presenza pericolosa per chi ama.
Il gruppo di Hawkins non è più il party compatto degli inizi. Le superiori cambiano le dinamiche: Lucas prova a farsi strada nel mondo dei “popolari”, Dustin e Mike restano nel campo degli outsider, e molte cose che prima tenevano unita la banda ora sembrano perdere presa. Nel frattempo, in California, il nuovo contesto non risolve nulla. Undici, Will, Jonathan e Joyce continuano a portare il bagaglio di ciò che è successo a Hawkins. La distanza è solo geografica. I problemi restano, anzi si moltiplicano: bullismo, incertezze amorose, il senso di isolamento di Will, tensioni che nascono da cose mai dette.
In questo scenario arriva Vecna. Non è il classico mostro fisico. Ha un metodo, osserva le fragilità, guarda dove la mente cede. Le sue vittime non sono casuali: sono persone che convivono con un peso che non riescono a sollevare. Le visioni, gli incubi e il richiamo del pendolo rendono la sua presenza un’esperienza mentale, prima ancora che fisica. Con Vecna, Stranger Things entra in una dimensione più vicina all’orrore psicologico: il male che ti raggiunge attraverso ciò che non riesci ad affrontare. E ogni volta che colpisce, lascia un segno nel mondo reale, come se la città stessa si incrinasse. La stagione procede su tre binari:
– Hawkins, con l’indagine e la tensione che cresce attorno agli omicidi;
– la California, dove si intrecciano identità e fragilità di Undici;
– la Russia, dove Hopper affronta una lotta più umana che sovrannaturale.
Sul fondo ci sono tre idee che guidano tutto: la colpa, che schiaccia i protagonisti; la memoria, che torna a galla e costruisce prigioni; la crescita, che divide il gruppo e apre crepe in cui il male trova spazio.

Sai, forse per la prima volta in vita mia sono lucido. Credevo di essere maledetto. Da quando avevo 18 anni, arriva una lettera. Lo zio Sam vuole che vada a combattere una guerra nella giungla. Charlie si muove verso sud come la peste a causa dei Comunisti come te. E sai, sono contento di andare. Di dimostrare al mio vecchio che non sono una merda come pensa. Quando arrivo mi fanno un test e mi mettono nel Nucleo Chimico. Sono soldato un ragazzo a 18 anni, a 8000 miglia da casa e mescolo questi fusti da 55 galloni di agente arancio. Solo con dei guanti da cucina. Pulivamo quelle turbine Buffalo dopo ogni intervento, inalando quella roba, senza maschere, niente… “Non è guerra Chimica, sono… Solo defolianti per le piante. Roba innocua” Ci dicevano. Poi sono tornato alla vita reale e i ragazzi che ce l’avevano fatta hanno cercato di tornare alla normalità, avere una famiglia, ma è andata male. Bambini nati morti. Morti nell’utero. Spine dorsali storte, occhi infuori. L’orrore… Ci inseguiva, ci afferrava. Mia moglie, Diane, voleva un bambino. Anch’io lo volevo. Abbiamo avuto una bambina, ed era… era nata sana. Era perfetta. Sana. E poi è morta. Non è stato indolore, lei… Ha sofferto. Conoscevo i rischi ma li avevo… nascosti. Diane mi ha lasciato, non mi ha dato colpe, non a parole. Dopodiché sono… sono annegato nella droga e nell’alcol. Poi altre persone sono arrivate nella mia vita. La piccola undi e Joyce, e mi sono detto che avevano bisogno di me. Ma non era vero. Loro non avevano bisogno di me. Io avevo… bisogno di loro. Avevi ragione, conoscevo i rischi dell’evadere da qui, ma ci ho provato comunque. Nel momento in cui ho mandato a chiamare Joyce, l’ho condannata a morte, proprio come ho fatto con Sara. Ho ferito tutti quelli che amo. Vedi, io mi sono sempre sbagliato. Non ho una maledizione. La maledizione sono io.
“Sai, forse per la prima volta in vita mia sono lucido.”: voce bassa, come se riconoscesse una verità che fa male; breve pausa su “lucido”.
“Credevo di essere maledetto.”: lo dice senza dramma, più come una constatazione stanca; sguardo fisso a terra.
“Da quando avevo 18 anni. Arriva una lettera.”: respira prima di iniziare il viaggio nel passato; ritmo lento.
“Lo zio Sam vuole che vada a combattere una guerra nella giungla.”: punta lo sguardo lontano, come se rivedesse la scena; tono asciutto.
“Charlie si muove verso sud come la peste a causa dei Comunisti come te.”: accenna un sorriso amaro; non c’è ostilità, solo memoria deformata dall’epoca.
“E sai, sono contento di andare.”: intonazione quasi paradossale; lascia emergere l’ingenuità del ragazzo che era.
“Di dimostrare al mio vecchio che non sono una merda come pensa.”: piccola stretta della mascella; la ferita paterna affiora.
“Quando arrivo mi fanno un test e mi mettono nel Nucleo Chimico.”: tono piatto, come un elenco di procedure; evita qualsiasi inflessione emotiva.
“Sono soldato un ragazzo a 18 anni, a 8000 miglia da casa e mescolo questi fusti da 55 galloni di agente arancio.”: frase lunga, quasi senza respirare; enfatizza la sensazione di sovraccarico.
“Solo con dei guanti da cucina.”: micro-sorriso incredulo; pausa breve.
“Pulivamo quelle turbine Buffalo dopo ogni intervento, inalando quella roba, senza maschere, niente…”: lascia la frase sfumare; il silenzio fa il lavoro sporco.
““Non è guerra Chimica, sono… Solo defolianti per le piante. Roba innocua” Ci dicevano.”: imita leggermente la voce degli ufficiali, senza caricatura; stacco netto su “innocua”.
“Poi sono tornato alla vita reale e i ragazzi che ce l’avevano fatta hanno cercato di tornare alla normalità, avere una famiglia, ma è andata male.”: tono narrativo, privo di giudizio; rallenta su “andata male”.
“Bambini nati morti. Morti nell’utero. Spine dorsali storte, occhi infuori.”: ogni immagine è una battuta; lascia un micro-silenzio tra le frasi.
“L’orrore… Ci inseguiva, ci afferrava.”: voce quasi spenta; il ritmo si accorcia, come se ricordarlo fosse faticoso.
“Mia moglie, Diane, voleva un bambino.”: sguardo verso il terreno; la colpa si avvicina.
“Anch’io lo volevo.”: detto piano, senza rafforzativi; è una confessione semplice.
“Abbiamo avuto una bambina, ed era… era nata sana.”: la voce gli si incrina sulla ripetizione; pausa dopo “era”.
“Era perfetta. Sana.”: tutte parole spezzate; evita di guardare l’interlocutore.
“E poi è morta.”: detto senza carica; un colpo secco.
“Non è stato indolore, lei… Ha sofferto.”: respira a metà della frase, come se non volesse dirlo; occhi lucidi senza pianto.
“Conoscevo i rischi ma li avevo… nascosti.”: la pausa su “nascosti” deve essere quasi colpevole; la voce scende.
“Diane mi ha lasciato, non mi ha dato colpe, non a parole.”: il tono suggerisce che il non detto pesa più di ogni accusa; sguardo laterale.
“Dopodiché sono… sono annegato nella droga e nell’alcol.”: ripetizione tremante; il verbo “annegato” va caricato fisicamente.
“Poi altre persone sono arrivate nella mia vita.” sollievo lieve; la frase sale di un mezzo tono.
“La piccola Undi e Joyce, e mi sono detto che avevano bisogno di me.”: sguardo più morbido; un accenno di calore.
“Ma non era vero.”: taglio netto; pausa dopo.
“Loro non avevano bisogno di me.”: intonazione piatta, quasi pedagogica verso se stesso.
“Io avevo… bisogno di loro.”: qui lascia uscire l’emozione; la pausa centrale è fondamentale.
“Avevi ragione, conoscevo i rischi dell’evadere da qui, ma ci ho provato comunque.”: tono amaro, senza rabbia; sembra accettare la propria impulsività.
“Nel momento in cui ho mandato a chiamare Joyce, l’ho condannata a morte, proprio come ho fatto con Sara.”: voce bassa, rotta; su “Sara” c’è una caduta dello sguardo quasi immediata.
“Ho ferito tutti quelli che amo.”: detto quasi in apnea; la frase pesa più di tutto il resto.
“Vedi, io mi sono sempre sbagliato.”: respira prima di dirlo; è la sua svolta interna.
“Non ho una maledizione.”: tono piano, fermo.
“La maledizione sono io.”: sguardo diretto, breve; lasciar cadere il silenzio finale, senza riprendere fiato.
Il monologo di Hopper nella prigione russa, presente nell’Episodio 5 di Stranger Things 4, è uno dei momenti più intensi della sua evoluzione. Funziona come una confessione e come un’autopsia emotiva. Qui, Hopper smonta il mito che lui stesso ha costruito: l’idea dell’uomo duro, resistente, impenetrabile. Al suo posto troviamo un uomo che finalmente osserva le proprie ferite senza filtri.
La prima frase, “Sai, forse per la prima volta in vita mia sono lucido”, definisce subito il tono. Hopper parla da un luogo mentale segnato dalla stanchezza. È lo spazio in cui le vecchie giustificazioni non reggono più. Questa apertura crea un senso di verità che domina tutto il monologo: non c’è difesa, non c’è retorica, solo un uomo che osserva il proprio passato come se lo vedesse da fuori. Quando Hopper ricorda i suoi 18 anni, la lettera dello Zio Sam e il Nucleo Chimico, non sta facendo un racconto nostalgico. Sta tornando al momento in cui la sua identità ha iniziato a deformarsi. Il contatto con l’agente arancio e le condizioni in cui venivano trattati quei soldati costruiscono il primo mattone della sua colpa. Non una colpa scelta, ma una conseguenza di un sistema che lo ha usato senza tutelarlo.
La parte dedicata ai figli nati morti dei compagni e alle malformazioni è un passaggio che serve a mostrare un clima di devastazione collettiva. Hopper scopre che la guerra non rimane nella giungla: torna nelle case, nelle famiglie, nelle culle. Il ricordo di Sara è la parte più dolorosa. Non solo per la perdita, ma per il peso del “sapevo i rischi e li avevo nascosti”. Questa frase è la lama del monologo. Hopper non si accusa con teatralità: lo dice come chi riconosce un errore inevitabile ma mai veramente accettato. Questa verità diventa la base della sua convinzione di essere una maledizione per chi ama.
Quando cita Joyce e Undi, Hopper ammette che il suo ruolo di protettore era una coperta psicologica. Non stava salvando loro, stava cercando di salvare se stesso dal vuoto lasciato dalla perdita. Questa inversione è fondamentale per capire il personaggio. L’eroismo che abbiamo visto nelle stagioni precedenti è reale, ma nasce da un bisogno personale: riempire la mancanza. La frase che chiude tutto – “La maledizione sono io” – è l’ultimo passo di questa autopsia emotiva. Hopper abbandona la narrativa dell’uomo perseguitato dal destino. Si osserva come causa, non come vittima. Questo finale è una forma di consapevolezza. È il punto da cui può ricostruirsi, anche se nella scena lui non lo sa ancora.

Nel finale di stagione, il quadro si amplia e molte rivelazioni ridefiniscono tutto quello che avevamo visto finora. Durante lo scontro nella mente di Max, Vecna mostra la sua identità completa. È Henry Creel, il bambino degli anni ’50, diventato poi il soggetto Uno nel laboratorio di Brenner. È lui ad aver dato forma al Mind Flayer, non il contrario. La minaccia del Sottosopra assume così un’origine legata agli esperimenti umani: una deriva nata da una manipolazione andata oltre il controllo.
Per fermarlo, il gruppo costruisce un piano su più livelli. Max si offre come esca, consapevole di essere ancora nel mirino. Steve, Nancy e Robin puntano al corpo di Vecna nel Sottosopra, mentre Undici entra nella mente di Max per raggiungere Vecna direttamente. Dustin ed Eddie attirano le creature volanti per tenere libero il percorso agli altri. Eddie, in quel punto della storia, sceglie di non fuggire più. Rimane nel Sottosopra per guadagnare tempo agli amici e muore tra le braccia di Dustin. La sua storia si chiude nel luogo in cui aveva trovato un posto: l’Hellfire Club e l’amicizia con il gruppo.
La parte più dura riguarda Max. Vecna riesce a colpirla. Il corpo cede nello stesso modo delle altre vittime e il cuore si ferma. Lucas la stringe mentre tutto intorno si sgretola. Undici interviene e riesce a riportare il battito, ma la coscienza di Max non risponde. Quando Undici prova a cercarla nella sua mente trova solo un vuoto. È una condizione sospesa, che lascia domande aperte su ciò che resta di lei. Nonostante il colpo subito da Vecna, il suo piano procede. Con la quarta vittima, i varchi si uniscono e Hawkins si apre in più faglie. La città si spezza. È un cambiamento fisico che mostra come l’equilibrio tra i due mondi sia ormai instabile.
La stagione si chiude con una ricomposizione affettiva: Undici e Hopper si ritrovano, il gruppo torna nella casa nel bosco, i volti si riuniscono. Ma la pace è momentanea. Will percepisce di nuovo la presenza di Vecna, come accadeva all’inizio della serie. E il paesaggio parla chiaro: terra bruciata, particelle nell’aria, nubi scure che avanzano verso la città. Il messaggio è diretto: l’epoca dei misteri isolati nel bosco si chiude qui. Quello che arriva è uno scontro su scala più ampia, con Hawkins già modificata e il Sottosopra che ha iniziato a sovrapporsi al mondo reale.
Regista: Matt e Ross Duffer
Sceneggiatura: Matt e Ross Duffer
Produttore: Stephanie Slack Margret H. Huddleston
Cast: Winona Ryder (Joyce Byers) David Harbour (Jim Hopper), Finn Wolfhard( Mike Wheeler), Gaten Matarazzo (Dustin Henderson) Caleb McLaughlin (Lucas Sinclair) Noah Schnapp (Will Byers) Millie Bobby Brown (Undici / Jane Ives)
Dove vederlo: Netflix

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