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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Jay Kelly è un esempio di recitazione in sottrazione, dove il passato non viene raccontato per nostalgia ma per bisogno di verifica emotiva. In poche frasi, Jay ricostruisce una relazione vissuta come rifugio temporaneo, una “famiglia per finta” che gli ha permesso di evitare scelte definitive. Il testo funziona perché unisce lucidità e fragilità: non c’è accusa, non c’è pentimento esplicito, solo la consapevolezza tardiva di ciò che non è stato. Un monologo ideale per esplorare memoria, rimpianto e identità.
Scheda del monologo
Contesto del film
Testo del monologo (estratto+note)
Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa
Finale del film (con spoiler)
Credits e dove trovarlo
Minutaggio: 1:15:40-1:17:20
Durata: 1 minuto 40 secondi
Il film si apre con una frase di Sylvia Plath sulla difficoltà di essere se stessi. Sul set di un film, l’attore Jay Kelly chiude le riprese con un monologo intenso: davanti alla troupe è una star, ma appena resta solo nel camerino emerge un uomo stanco e pieno di pensieri. Nella vita privata Jay è fragile: prova a stare vicino alla figlia Daisy, ma il lavoro e le abitudini da celebrità lo portano sempre altrove. La morte di un amico, Peter, lo riporta a vecchi rimpianti e lo mette di fronte a ciò che ha evitato. Al funerale incontra Timothy, ex compagno di accademia: tra nostalgia e tensione, la serata degenera. Tim lo accusa di avergli “rubato la vita” (provino, relazioni, opportunità) e scoppia una lite che finisce ripresa dai telefoni.
Il giorno dopo Jay annuncia di voler mollare il prossimo film e parte improvvisamente per la Francia per raggiungere Daisy, trascinando dietro di sé agenti e staff. Nel viaggio riaffiorano i ricordi dell’accademia e della “sliding door” decisiva: anni prima Jay, quasi senza accorgersene, si prese l’occasione che avrebbe potuto cambiare la vita di Tim. Sul treno Jay ritrova Daisy e la mette sotto pressione: lei confessa di voler diventare attrice, lui tenta di controllarla e lei esplode, allontanandosi. Intanto il suo team si sfalda e i rapporti interni si spezzano, mentre Jay viene anche celebrato pubblicamente per un gesto “eroico” (un inseguimento a un ladro), in netto contrasto con il caos della sua vita personale. Arrivato in Toscana, Jay affronta anche il padre, freddo e respingente, e vede crollare un altro pezzo del suo mondo quando l’amico-agente Ron viene licenziato da un altro cliente.

Chissà se te lo ricordi come me. Ero ancora sposato. Era nata Jessica. Siamo rimasti sul set quel giorno, a giocare col bambino. Lui era il nostro diversivo. Andava bene passare il tempo finché c’era lui. Passare il tempo come… una famiglia per finta. Ci siamo baciati per davvero solo alla fine delle riprese. Più avanti mi hai detto che non ti saresti innamorata di me. Forse era la verità, non è mai successo. Un mese dopo Jessica e sua mamma sono andate a Seattle, l’ho vista sempre meno. Tu hai lasciato il cinema dicendo che amavi recitare ma non essere famosa. Insomma, la vita… è così strana. Chissà se ci pensi come me. Comunque… c’erano un milione di ragioni per cui non siamo rimasti insieme e…
“Chissà se te lo ricordi come me.”: attacco morbido, quasi in punta di piedi; micro-sorriso che non arriva agli occhi; pausa breve dopo “come me” per verificare se l’altro “c’è” o se stai parlando nel vuoto.
“Ero ancora sposato.”: abbassa il volume, come se fosse un dettaglio che pesa più degli altri; sguardo che scivola di lato (vergogna controllata, non colpa esibita); chiudi la frase senza trascinarla.
“Era nata Jessica.”: cambia temperatura emotiva, più tenera; pronuncia “Jessica” con cura, senza enfasi; pausa dopo il nome, come se lo vedessi.
“Siamo rimasti sul set quel giorno, a giocare col bambino.”: ritmo narrativo, quasi quotidiano; mani che ricordano un gesto semplice (tenere, dondolare); sguardo più basso, come a rivedere la scena da vicino.
“Lui era il nostro diversivo.”: parola-chiave “diversivo” va detta con lucidità, non cinismo; pausa subito dopo; lascia che si senta il sottotesto: “ci nascondevamo dietro di lui”.
“Andava bene passare il tempo finché c’era lui.””: tono pratico, quasi una constatazione; sottolinea “finché” con una micro-stret
ta in gola; lo sguardo si fa più lontano (la regola non detta della relazione).
“Passare il tempo come… una famiglia per finta.”: sospensione su “come…” obbligatoria, non decorativa; in quel vuoto fai entrare l’immagine della “famiglia”;
“per finta” va detto piano, con una lieve auto-ironia amara, senza giudicare l’altro.
“Ci siamo baciati per davvero solo alla fine delle riprese.”: qui cambia il battito; rallenta; “per davvero” va posato, non spinto; lo sguardo sale appena, come a chiedere: “te lo ricordi?”; chiudi con un respiro che trattieni.
“Più avanti mi hai detto che non ti saresti innamorata di me.”: tono neutro, quasi cronachistico; non trasformarlo in accusa; su “innamorata” fai una micro-pausa interna, come se facesse male dirlo ad alta voce.
“Forse era la verità, non è mai successo.”: lascia che “forse” sia una resa, non un dubbio; “non è mai successo” deve suonare definitivo ma non teatrale; sguardo fermo un istante, poi si rompe.
“Un mese dopo Jessica e sua mamma sono andate a Seattle, l’ho vista sempre meno.””: accelera leggermente, come quando elenchi fatti che non vuoi sentire; su “Seattle” non fare colore, è solo distanza; “sempre meno” va lasciato cadere, come un peso.
“Tu hai lasciato il cinema dicendo che amavi recitare ma non essere famosa.”: qui entra l’ammirazione mista a incredulità; “amavi recitare” più caldo, “ma non essere famosa” più secco; piccolo cenno del capo come riconoscimento della sua scelta.
“Insomma, la vita… è così strana.”: la pausa su “la vita…” è un buco emotivo (ci passa dentro tutto); “è così strana” non va filosofeggiato: è un tentativo di chiudere la ferita con una frase semplice.
“Chissà se ci pensi come me.”: ritorno al bisogno; sguardo diretto ma non implorante; voce più bassa; pausa dopo la frase, come se aspettassi davvero una risposta.
“Comunque… c’erano un milione di ragioni per cui non siamo rimasti insieme e…”: “Comunque…” è una fuga, non un ponte; fai sentire la voglia di minimizzare; su “un milione di ragioni” accenna un sorriso stanco (meccanismo di difesa); l’“e…” finale deve restare sospeso, come se la lista fosse infinita ma tu non avessi più fiato—lascia silenzio, non chiudere con un punto emotivo.
Questo monologo funziona perché non è un racconto romantico, ma una ricostruzione lucida di un’illusione vissuta come rifugio. Jay non sta cercando di convincere l’interlocutrice di qualcosa, né di riconquistarla: sta verificando se quel passato è esistito davvero anche per lei, o solo nella sua memoria. L’apertura (“Chissà se te lo ricordi come me”) non è nostalgia, è insicurezza: il bisogno di sapere se il ricordo è condiviso o se è diventato un monologo interiore. Il racconto procede per fatti semplici, quasi banali (“ero sposato”, “era nata Jessica”), ma ogni informazione porta con sé un peso emotivo non dichiarato. Jay non commenta mai apertamente le conseguenze delle sue scelte: le lascia parlare da sole. Il bambino sul set diventa il centro simbolico del monologo, non come elemento tenero, ma come alibi emotivo. “Il nostro diversivo” è la chiave: grazie a quel bambino era possibile fingere una famiglia senza assumersene la responsabilità. È un gioco di ruolo affettivo, una recita privata che anticipa il tema più grande del film: Jay sa vivere le relazioni solo se sono “scene”.
Quando arriva la frase “una famiglia per finta”, il monologo scopre il suo cuore: Jay riconosce che quella felicità era temporanea, concessa, non scelta. Anche il bacio “per davvero” arriva solo quando tutto è finito, come se l’intimità fosse possibile solo quando non comporta conseguenze. Non c’è rabbia in questo racconto, ma una forma di autoassoluzione fragile, continuamente messa in dubbio. Il passaggio in cui lei dice che non si sarebbe innamorata di lui è centrale perché Jay non lo contesta. Anzi, lo accetta come verità possibile. Qui emerge la sua incapacità di stare nel conflitto: preferisce una spiegazione razionale al dolore. Lo stesso accade quando parla della figlia che si allontana (“l’ho vista sempre meno”) o di lei che lascia il cinema. Tutto viene raccontato come una sequenza inevitabile di eventi, non come una serie di scelte.
La frase “la vita è così strana” è volutamente povera: non è filosofia, è un tappo emotivo. Serve a non dire “ho sbagliato”, “non ho avuto il coraggio”, “ho scelto il lavoro”. Subito dopo, Jay torna alla domanda iniziale (“Chissà se ci pensi come me”), segno che, nonostante tutte le razionalizzazioni, il bisogno di riconoscimento emotivo è ancora lì.
La chiusura è forse la più intensa: “c’erano un milione di ragioni per cui non siamo rimasti insieme e…”. Jay non finisce la frase perché non vuole scegliere quale ragione dire ad alta voce. Quel silenzio finale non è vuoto: è pieno di responsabilità non nominate. Come personaggio, Jay resta coerente fino alla fine: non mente, ma nemmeno si espone del tutto. Ed è proprio questa sospensione a rendere il monologo credibile.
Apertura breve (80–100 parole)

Jay tocca il fondo: prova a recuperare Jessica/Jessie (la figlia maggiore), le chiede di partecipare al tributo in suo onore e ammette di aver scelto la fama al posto della famiglia, ma lei lo respinge: ormai ha una vita senza di lui. Jay si perde nei boschi e crolla, svuotato.
Il giorno dopo Ron sta per andarsene definitivamente, ma Jay lo ferma e si scusa. Ron chiarisce che non può più lavorare con lui, però resta per aiutarlo da amico: è l’unica presenza reale che Jay riesce ancora a trattenere.
Alla serata del tributo Jay è teso e “vede” mentalmente i volti del suo passato. In mezzo alla celebrazione, prende la mano di Ron: è un gesto semplice che dice che, per una volta, smette di recitare da solo. Alla fine, davanti alla standing ovation, Jay guarda in camera e dice: “Vorrei farne un’altra.”
Il senso della battuta è doppio: non parla solo di un altro film o di un’altra “take”, ma del desiderio di rifare il proprio film di vita, correggendo gli errori (figlie, amicizie, scelte). Non è una redenzione completa: è l’inizio di una consapevolezza, lasciata volutamente aperta.
Regista: Noah Baumbach
Sceneggiatura: Noah Baumbach, Emily Mortimer
Cast: George Clooney (Jay Kelly); Adam Sandler (Ron Sukenick) Laura Dern (Liz); Billy Crudup ( Timothy Galligan)
Dove vederlo: Netflix

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