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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo iniziale di The Libertine è uno dei più frontali e scomodi che ci siano nel cinema moderno. Non è un’apertura che cerca l’empatia, ma un attacco preventivo. John Wilmot, interpretato da Johnny Depp, si rivolge direttamente allo spettatore con uno sguardo che è una lama, e lo fa per distruggere ogni aspettativa. È come se volesse togliersi subito il peso dell’ipocrisia: “Non vi piacerò. Non ci sarà nessuna redenzione. Nessuna morale finale. Non aspettatevi niente da me”.
MINUTAGGIO:
RUOLO: John Wilmot
ATTORE: Johnny Depp
DOVE: Amazon Prime Video
ITALIANO
Consentitemi di essere esplicito sin dall'inizio: non credo che vi piacerò. I signori proveranno invidia e le signore disgusto. Non vi piacerò affatto! Non vi piacerò ora e vi piacerò ancor meno in seguito. Signore, un avvertimento: io sono pronto a tutto! In ogni momento! Che sia merito o demerito, questo ora è difficile da dire. Tuttavia, è certo che sono un libertino! Continuerò a spassarmela e a provare ardenti passioni. Non doletevene: vi arrecherebbe afflizione! Traete le conclusioni stando alla distanza a cui vi terreste se stessi per mettere la lingua sotto le vostre sottane. Signori, non disperate. Sono pronto a tutto, sì! Lo stesso avvertimento vale anche per voi! Placate le vostre squallide erezioni, perché quando avrete un amplesso, vedrò di cosa siete capaci: allora saprò se sarete venuti "meno" alle mie aspettative. Vi auguro di fottere, immaginando che la vostra amante segreta vi stia osservando di nascosto, di provare le stesse sensazioni che io ho provato, e che provo e chiedervi: era questo lo stesso brivido che sentiva lui? Avrà conosciuto qualcosa di più intenso? O c'è un muro di disgrazia contro il quale tutti battiamo la testa in quel fulgido, eterno momento? Questo è tutto, questo il mio prologo. Nessuna rima. E nessun decoro. Non era quello che vi aspettavate, spero. Sono John Wilmot, il secondo conte di Rochester e non ho alcuna intenzione di piacervi!
“The Libertine” è un film del 2004 diretto da Laurence Dunmore e interpretato da Johnny Depp nei panni di John Wilmot, II conte di Rochester. È tratto da un’opera teatrale di Stephen Jeffreys (che firma anche la sceneggiatura del film) e racconta la parabola discendente di una delle figure più controverse e sfuggenti della corte inglese del XVII secolo. Siamo nell’Inghilterra della Restaurazione, periodo in cui la monarchia di Carlo II torna al potere dopo l’esperimento repubblicano di Cromwell. Un’epoca segnata da un’apparente spinta verso la libertà artistica e personale, ma con sottotesti politici, religiosi e morali che rendono l’ambiente tutt’altro che emancipato.
Il film si muove proprio in questa tensione: tra libertà e censura, tra verità e facciata.
John Wilmot è un poeta, scrittore, libertino e cinico che torna a corte dopo un periodo di esilio imposto dallo stesso re Carlo II (interpretato da un Rupert Everett piuttosto misurato). All’inizio lo vediamo come un uomo stanco, ma anche provocatorio, consapevole del proprio intelletto e del potere che può esercitare attraverso la parola. Si presenta al pubblico (quindi a noi spettatori) con un monologo frontale, dichiarando senza filtri il suo disprezzo per la moralità comune e il proprio desiderio di dissolutezza. Il re, che ha bisogno di rendere più brillante la propria immagine e quella della corte, chiede a Wilmot di scrivere un’opera teatrale celebrativa per l’arrivo di un’ambasciata francese. Wilmot accetta, ma solo in apparenza. In realtà, scrive un’opera satirica che umilia pubblicamente il re e l’intero sistema di potere. Questo gesto segna il suo definitivo distacco dal favore reale.
Parallelamente alla sua sfida alle istituzioni, Wilmot intrattiene una relazione tormentata con Elizabeth Barry (Samantha Morton), attrice di talento che lui stesso prende sotto la sua ala. Ma non si tratta di una semplice storia d’amore: è un rapporto fondato su una tensione profonda tra creatività, desiderio e distruzione. Wilmot riconosce in lei una purezza artistica che gli sfugge, mentre Elizabeth vede in lui un mentore ma anche un uomo segnato dalla decadenza. Col passare del tempo, le scelte autodistruttive di Wilmot lo portano a perdere tutto: influenza politica, amici, salute (muore di sifilide), e forse anche sé stesso. Ma il film non si limita a mostrarne la decadenza fisica – il volto di Depp progressivamente sfigurato è uno degli elementi visivi più insistenti – ma insiste sul peso delle parole. Sul potere che il linguaggio ha, anche in chi lo usa per disfare anziché costruire.
“Io sono pronto a tutto! In ogni momento!” Wilmot si presenta come un corpo e una mente sempre in allerta, in tensione costante con il mondo esterno. Ma questa disponibilità totale non è generosità, è un’arma. Lui è pronto a spingere, provocare, consumare. Non esiste confine che intenda rispettare.
La costruzione retorica del monologo è spudoratamente teatrale, ma nel modo più sporco e corporeo possibile. La frase “traete le conclusioni stando alla distanza a cui vi terreste se stessi per mettere la lingua sotto le vostre sottane” è un esempio perfetto di come Wilmot non usi le parole per decorare, ma per strappare la pelle della rispettabilità. È linguaggio come corpo, linguaggio come gesto osceno. Poi c’è il passaggio più interessante a livello tematico: “Vi auguro di fottere, immaginando che la vostra amante segreta vi stia osservando di nascosto...” Qui si tocca qualcosa di più profondo del semplice scandalo. Wilmot ci chiede: cosa resta del desiderio quando lo portiamo all’estremo? È solo carne? È voyeurismo? È un’illusione di intensità? La domanda sul “muro di disgrazia” è quasi filosofica. In mezzo all’orgia, c’è un momento in cui si realizza che non c’è niente oltre? Che il piacere ha un limite, una saturazione? Questo è il punto dove il libertinismo si rivela una prigione: spingi tutto al massimo e ti accorgi che non c’è nulla oltre, se non la ripetizione.
Il finale del monologo – “Non era quello che vi aspettavate, spero.” – è una risata beffarda sulle aspettative del pubblico. E quel “non ho alcuna intenzione di piacervi” è la firma definitiva: Wilmot come anti-personaggio, come spettro della disillusione.
Questo monologo è un atto di accusa. Non contro un personaggio, ma contro chi guarda. Wilmot ci prende di mira perché rappresentiamo quella società che dice di voler essere libera, ma poi si nasconde dietro il decoro. Lui ha scelto di vivere senza maschera, e nel farlo si è distrutto. Ma ci chiede: siamo sicuri che non lo invidiamo?
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