Monologo madre Marianna Sandokan (2025): lettera per la libertà

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~ LA REDAZIONE DI RC

Analisi della lettera della mamma di Marianna un "Sandokan (2025)"

Il monologo della madre di Marianna in Sandokan (2025) è uno dei testi più potenti della serie, perché unisce racconto intimo e denuncia sociale senza mai scivolare nel melodramma. Attraverso una lettera dal manicomio, questa donna ricostruisce la propria storia, smaschera una violenza istituzionale travestita da tutela e affida alla figlia un’eredità precisa: la libertà come atto di resistenza. Non è un addio, ma una chiamata..

  • Scheda del monologo

  • Contesto del film

  • Testo del monologo (estratto+note)

  • Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa

  • Finale del film (con spoiler)

  • Credits e dove trovarlo

Scheda del monologo

Serie: Sandokan (2025)
Personaggio: Marianna (Sta leggendo lei)
Attrice:

Minutaggio: 43:10-45:09(Episodio 7)

Durata: 2 minuti

Difficoltà 7/10: il testo è attraversato da trauma, ingiustizia e amore materno, ma va detto senza cedere al melodramma. L’attore deve tenere insieme lucidità narrativa e ferita aperta, evitando il pianto facile e lavorando sulla verità interiore.

Emozioni chiave Amore materno assoluto, tradimento, ingiustizia subita, dignità ferita, coraggio e resistenza, speranza
Contesto ideale per un attore monologhi su madre/figlia, oppressione femminile, libertà negata, monologo da usare quando si vuole mostrare maturità attoriale, non solo intensità

Dove vederlo: Rai Play

Sandokan (2025) - Trama Episodio 7

L’episodio si apre con il Console immerso nel ricordo del giorno in cui sua moglie si tolse la vita, un trauma che torna mentre aspetta disperatamente che Marianna rientri sana e salva. Marianna, infatti, è in piena tempesta mentale: non riesce a dimenticare le parole di Sandokan sulla strage del suo popolo e sul coinvolgimento di suo padre. Va da Murray e gli chiede, senza più giri di parole, se lui e suo padre fossero in Malesia trent’anni prima. Murray nega, dicendo che a quell’epoca era territorio solo del Sultano, ma lo spettatore capisce che è una bugia: la verità è più sporca di quanto le istituzioni ammettano. Nel frattempo Sandokan prova a organizzare una controffensiva contro gli uomini del Sultano, ma nasce subito una frattura: il comandante dei soldati non accetta ordini da lui. È una spaccatura di autorità e di identità, come se Sandokan fosse ancora “un corpo estraneo” anche quando combatte la stessa battaglia. Nel bosco, Yanez si muove con alcuni pirati e si imbatte nelle guardie del Sultano: decide di rubare una delle loro barche nottetempo, scelta pratica e disperata per rimettersi in moto. Gli uomini del Sultano arrivano al villaggio e subiscono un’imboscata orchestrata da Sandokan con alcuni Dayak: per un momento sembra che il piano funzioni, ma quando Sandokan chiede al capo guerriero di muoversi come concordato, il capo guerriero e i suoi restano nascosti, sabotando tutto. È un tradimento freddo: l’uomo odia Sandokan e preferisce vederlo cadere piuttosto che riconoscerlo come guida. Il risultato è immediato: Sandokan viene catturato. Tornati all’accampamento, i Dayak mentono dicendo che Sandokan è morto in battaglia, e Sani si sente colpevole, schiacciata dal peso di una profezia che sembra spezzarsi davanti ai suoi occhi.

Sul veliero, Brooke e Marianna parlano degli ultimi avvenimenti. Marianna rivela che Sandokan è Dayak e che suo padre ha ucciso la tribù di Sandokan. Brooke, però, si aggrappa alla versione di Murray e conclude che Sandokan abbia mentito per manipolarla. Marianna, nonostante tutto, ringrazia Brooke per averla salvata: è una gratitudine vera ma dolorosa, perché non cancella il fatto che lui rappresenti comunque il mondo che le sta crollando addosso. Intanto Yanez arriva alle miniere e vede con i suoi occhi il trattamento degli schiavi: corpi ridotti a strumenti, violenza sistematica, umiliazione come metodo. La visione riapre anche il suo passato di ex prete e gli orrori già visti in altri contesti. Decide di non intervenire e di ripartire per mare con Emilio, ma sulla costa Emilio cambia idea e si butta in mare: vuole tornare da Sani, vuole difendere i Dayak. È un gesto impulsivo e romantico, ma anche una presa di posizione morale. Brooke decide di rivelare un segreto enorme a Marianna: Ida, la sua serva, è in realtà sua madre. È una confessione che ribalta la percezione di Brooke e spiega molte sue fragilità. Marianna vorrebbe a sua volta confessargli il bacio con Sandokan, ma Brooke la interrompe dichiarandole amore e aspettandosi una risposta: mette il sentimento sul tavolo come ultima ancora, mentre Marianna è già trascinata altrove dal peso della verità. Sandokan viene portato al cospetto del Sultano. Il Sultano vuole sapere il “prezzo” di Sandokan: dove sono le tribù ribelli, quali villaggi nascondono i fuggitivi, chi organizza la resistenza. Ma quando vede il ciondolo di Sandokan – il dente di tigre – riconosce subito il simbolo e cambia volto: è sconvolto, smette di giocare. Sandokan, dalla sua visione, ricorda quel volto e lo inchioda con una frase identitaria: lui è “il figlio della Tigre”. A quel punto il Sultano ordina la tortura fino alla confessione. Sandokan viene spezzato fisicamente, ma resta in piedi nello sguardo: resiste, rilancia, gli dice che i Dayak non moriranno mai e che invece sarà il Sultano a morire. Il Sultano risponde marchiandolo col fuoco, un gesto che non serve solo a far male, ma a “scrivere” il dominio sul corpo del nemico. Intanto il consigliere del Sultano gli rivela che Marianna si è ricongiunta con suo padre: la partita politica e personale si riaccende.

Al consolato la zia di Marianna intuisce che c’è qualcosa di strano nel comportamento di Ida con Brooke e inizia a indagare, ma Brooke e Marianna rientrano e la situazione si ricompone in superficie. Marianna corre dal padre, Ida corre da Brooke e prova a nascondere il loro legame. Brooke ha poi un confronto con il Console, che finalmente lo guarda con occhi diversi: non più come semplice “uomo d’azione”, ma come qualcuno che sa cose e muove pedine. Brooke rivela i piani del Sultano e che alcune truppe ribelli hanno convinto Sandokan di essere Dayak e che la sua tribù sarebbe stata uccisa 25 anni prima… dagli inglesi. Il Console ha un momento di titubanza, una crepa nel controllo. Anche Marianna ha quello stesso timore, ma il Console prova a chiudere la questione dicendo che fino a quindici anni prima gli inglesi non potevano entrare. È una risposta che suona più come difesa che come verità. Marianna, intanto, continua ad avere dubbi. Parla col padre della crudeltà nelle miniere e del Sultano, ma non ottiene le risposte che sperava: l’uomo resta opaco, come se la sua biografia avesse zone vietate. Fuori incontra Brooke, che ora appare diverso: meno arrogante, più attento, disposto ad ascoltare davvero. Ma la mattina dopo arriva la scena che rompe ogni equilibrio: Sandokan, devastato dalle torture, viene condotto al cospetto del Sultano davanti a tutti. È un’esposizione pubblica dell’umiliazione. 

Testo del monologo + note

Figlia cara, fra poco non ci sarò più, ma voglio che tu sappia la verità sulla mia morte. Per amore di tuo padre io l’ho seguito nel grigio di Londra. ma lui era interessato a fare carriera, e partiva sempre più spesso per lunghi periodi. E io passavo le mie giornate vuote nelle mani della vera padrona di casa. Tua zia Francis. Poi sei nata tu, un dono dal cielo. Nei tuoi occhi rivedevo i miei. Ma tua zia non poteva sopportarlo, per lei eri una creatura innocente da proteggere dalla mia violenza. Così deciso di prenderti e fuggire. Ma era il passo falso che tua zia stava aspettando. E approfittando dell’assenza di tuo padre mi fece rinchiudere in manicomio. Ed è da qui che io ti sto scrivendo. Ma non mi pento per aver combattuto per la mia libertà. Non arrenderti mai, Marianna. Difendi sempre la tua libertà, combatti per lei, difendi te stessa. E io non sarò morta invano.  

“Figlia cara, fra poco non ci sarò più, ma voglio che tu sappia la verità sulla mia morte.”: attacco morbido e diretto, come una carezza che apre una ferita; pausa dopo “Figlia cara” per stabilire intimità; su “fra poco” un micro-cedimento della voce (non pianto, solo il peso); “verità” va detto come un atto di responsabilità, non come ricatto emotivo; chiudi la frase con un respiro trattenuto, come se stessi scegliendo di non crollare.

“Per amore di tuo padre io l’ho seguito nel grigio di Londra.”: tono più narrativo, quasi cronaca; accenta “Per amore” con un misto di tenerezza e lucidità; “grigio” va visualizzato (non detto), lascia che lo sguardo si spenga un istante come se rivedessi la città; pausa breve a fine frase, come a dire: questa è stata la prima rinuncia.

“ma lui era interessato a fare carriera, e partiva sempre più spesso per lunghi periodi.”: abbassa leggermente il volume, più amaro che arrabbiato; pausa dopo “carriera” (lì sta il tradimento); evita l’accusa frontale: lo sguardo non è “contro” il padre, è verso il vuoto di chi resta; su “sempre più spesso” inserisci un ritmo che accelera appena, come l’accumulo delle assenze.

“E io passavo le mie giornate vuote nelle mani della vera padrona di casa.”: qui entra la prigione domestica; fai sentire la parola “vuote” come una stanza senza mobili; “nelle mani” va detto con una lieve tensione alla gola, senza spiegare troppo: è controllo, sorveglianza, potere; pausa prima di “vera” come se stessi misurando la cattiveria di quella definizione.

“Tua zia Francis.”: taglio netto, una lama; pausa prima e dopo; non sputare il nome: dillo piano, con precisione, come un’identificazione in tribunale; lo sguardo resta fermo, quasi clinico, perché il nome è già una condanna.

“Poi sei nata tu, un dono dal cielo.”: cambio di temperatura; lascia entrare aria nella voce, come se per un attimo la stanza si illuminasse; “dono” è reale, fisico, quasi sorridibile senza sorridere davvero; pausa dopo “tu” per far sentire che la figlia è il centro, non un dettaglio.

“Nei tuoi occhi rivedevo i miei.”: intimità pura; rallenta, quasi sussurro; guarda leggermente “vicino” (come se la vedessi davanti), non lontano; “i miei” non è vanità, è riconoscimento, identità, continuità: lascia una micro-sospensione prima di chiudere, come se quel ricordo ti salvasse.

“Ma tua zia non poteva sopportarlo, per lei eri una creatura innocente da proteggere dalla mia violenza.”: qui serve doppio livello: la rabbia e l’assurdo; su “non poteva sopportarlo” metti un’ironia amara, minima; pausa dopo “innocente” per far sentire la manipolazione morale; “dalla mia violenza” è un colpo allo stomaco: abbassa lo sguardo un attimo, come se quel marchio ti bruciasse ancora addosso.

“Così deciso di prenderti e fuggire.”: frase d’azione, asciutta; non melodrammatica: è una scelta concreta; “prenderti” non è rapimento, è salvezza—mettilo nella cura della dizione; pausa dopo “prenderti” come a dire: ti ho scelta prima di tutto.

“Ma era il passo falso che tua zia stava aspettando.”: la trappola; qui il tono si fa più freddo e inevitabile; “passo falso” va detto con disprezzo per l’etichetta, non per l’azione; “stava aspettando” è quasi un sibilo controllato: lei non reagisce, pianifica.

“E approfittando dell’assenza di tuo padre mi fece rinchiudere in manicomio.””: qui la frase deve pesare; pausa dopo “assenza” perché l’assenza del padre diventa complicità passiva; “mi fece rinchiudere” è passivo forzato, toglie agency: lascia che la voce si irrigidisca; “manicomio” va pronunciato senza enfasi, quasi con vergogna sociale interiorizzata—ed è proprio questo che fa male.

“Ed è da qui che io ti sto scrivendo.”: rivelazione silenziosa; non serve alzare il tono, serve stringere; pausa dopo “qui” come se indicassi le pareti; lo sguardo si muove appena, come a misurare lo spazio; “ti sto scrivendo” è un filo: l’unica libertà rimasta è la parola.

“Ma non mi pento per aver combattuto per la mia libertà.”: qui nasce la colonna vertebrale del monologo; “non mi pento” va detto con calma, non con sfida; “combattuto” è una parola che deve avere corpo (spalle più aperte, respiro più pieno); pausa dopo “libertà” per far sentire che questa è la tua unica eredità possibile.

“Non arrenderti mai, Marianna.”: imperativo tenero; pronuncia “Marianna” come se fosse l’ultima volta; breve pausa prima del nome, per farlo arrivare addosso; non urlarlo: la forza sta nella precisione e nell’amore.

“Difendi sempre la tua libertà, combatti per lei, difendi te stessa.”: è una triade, va costruita in crescendo; prima “Difendi” è consiglio, “combatti” è chiamata, “difendi te stessa” è verità finale; lascia micro-pause tra i segmenti, come colpi di martello; attenzione a non farla “motivazionale” da palco: è una madre che passa un’arma emotiva alla figlia.

“E io non sarò morta invano.”: chiusura senza lacrime, ma piena di peso; “io” va detto piano, come se non volessi metterti al centro e invece sei costretta; “invano” deve restare sospeso nell’aria; pausa lunga dopo la frase, non riempirla: il silenzio è la firma della lettera.

Analisi della lettera della madre di Marianna in "Sandokan (2025)"

Questo monologo funziona come una lettera-testamento emotiva, ma il suo vero punto di forza non è la rivelazione narrativa bensì il passaggio di identità da madre a figlia. Non è un addio sentimentale, è un atto politico e intimo insieme. La madre di Marianna non chiede compassione, non cerca assoluzione: sta rimettendo ordine nella propria storia prima che altri lo facciano al posto suo. La prima parte del testo è costruita su una memoria lucida, quasi cronachistica: l’amore per il marito, la scelta di seguirlo a Londra, il grigiore della città e l’assenza progressiva dell’uomo. Tutto è raccontato senza rabbia esplosiva, perché la ferita non è più aperta: è cicatrizzata, e proprio per questo fa più male. La madre non accusa direttamente il padre, lo descrive. Questo sposta il peso drammatico dall’urlo al vuoto, dall’offesa all’abbandono. L’ingresso della zia Francis segna il vero cambio di tono del monologo. Non è una villain teatrale, ma una figura di potere silenzioso, quotidiano, domestico. La madre non la dipinge come un mostro, ma come “la vera padrona di casa”, ed è qui che il testo diventa profondamente contemporaneo: il controllo non passa dalla violenza diretta, ma dalla definizione morale dell’altro. La maternità diventa il punto di rottura. La nascita di Marianna non è solo un evento affettivo, è una minaccia simbolica: negli occhi della figlia la madre rivede se stessa, e questo rende impossibile cancellarla, renderla “inadatta”, “sbagliata”, “isterica”. L’accusa di violenza è la maschera con cui viene giustificata la reclusione, e il manicomio diventa il luogo dove il dissenso femminile viene neutralizzato e reso patologico. Il cuore emotivo del monologo sta però nel rifiuto del pentimento. Quando la madre afferma di non pentirsi per aver combattuto per la propria libertà, il testo cambia funzione: non è più una confessione, è un’eredità. La libertà non viene raccontata come un diritto astratto, ma come una lotta che lascia cicatrici, isolamento, perdita. Ed è proprio questo che la rende credibile. Le ultime frasi non sono consolatorie: sono istruzioni per vivere. Difendere la propria libertà, combattere per essa, difendere se stessa. È una progressione precisa, che va dall’esterno all’interno, dalla società all’identità. La chiusa “non sarò morta invano” non parla di morte fisica, ma di senso: la madre chiede alla figlia di trasformare la sua sconfitta in continuità, di non permettere che la sua storia venga archiviata come follia.

Sandokan - Finale episodio 7

Marianna va fuori di sé. Si scaglia contro il Sultano, poi vede il sangue ovunque, sul corpo e sul volto di Sandokan, e sviene. Brooke capisce in quel momento la verità più scomoda: il legame tra Marianna e Sandokan è reale. E prende una decisione brutale: Sandokan deve essere impiccato. Ida prova a dirgli che quel legame rimarrà intatto comunque, ma Brooke la caccia e torna a fumare oppio, come se la dipendenza fosse l’unico modo per reggere il crollo di ciò che prova.

Marianna riceve la visita di un dottore mandato per controllare la sua verginità. Lei lo caccia via con un coltello, rifiutando l’ennesima violazione travestita da “cura”. Il dottore riferisce al Console che i sintomi parlano chiaro: isteria, come la madre. Marianna ascolta e viene travolta: non è solo insulto medico, è la minaccia di essere “archiviata” nello stesso modo in cui è stata archiviata sua madre. Nottetempo gli uomini del Sultano rapiscono Ida, con l’accordo della zia di Marianna, rendendo chiaro che la casa è ormai un campo minato e che la zia non è solo una presenza fastidiosa: è una burattinaia. La mattina dopo, indossando il vestito della madre, Marianna inizia a trovare bigliettini e brandelli di lettere lasciate dalla mamma. Il messaggio è devastante: sua zia aveva orchestrato tutto, convincendo il padre della “pazzia” della moglie e facendola chiudere in manicomio nel momento di massima debolezza. La madre, oltre la morte, le lascia un invito: non arrendersi e lottare per la libertà. Marianna diventa sempre più furiosa e lucida: non è pazza, è circondata da persone che hanno usato la parola “pazzia” per zittire una donna. Il Console convoca Brooke e gli dice che non gli darà mai in sposa sua figlia perché ha scoperto la sua discendenza indù. Brooke resta sconvolto: capisce che anche lui, nel mondo coloniale, può essere “squalificato” in base al sangue. Tornato in camera, vede sul volto di Ida tracce di tortura: è mortificata, spezzata. Brooke però la assolve e la chiama mamma: non è colpa tua. È un momento in cui la durezza di Brooke si incrina e lascia intravedere il ragazzo che è stato prima di diventare il cacciatore di pirati. Marianna riceve la visita della zia e, ormai consapevole, la minaccia con un coltello. La zia confessa. Marianna corre dal padre e gli vomita addosso odio e menzogne: se ha mentito sulla madre, allora lui e Murray hanno mentito anche su Sandokan e i Dayak. Messo alle strette, l’uomo confessa con la frase più fredda possibile: “Ho fatto solo il mio dovere. Non odiarmi per questo.” Per Marianna, però, il dovere non è un alibi. Decide che c’è un solo modo per riscattarsi: liberare gli schiavi e Sandokan. Il Console la definisce pazza e le impone Londra. Lei scappa e torna sul punto di buttarsi da una rupe, come se la vita le avesse lasciato solo il salto come uscita. A fermarla è Brooke, che dice di sapere come salvare Sandokan, ma a un prezzo: Marianna dovrà rinunciare a lui. Non come minaccia, ma come verità inevitabile. Brooke ha un piano.

Marianna torna a casa, guarda Murray in faccia. Lui è imbarazzato, schiacciato dagli eventi e dalle omissioni. Marianna gli chiede un atto di pietà. Murray acconsente a farle vedere Sandokan nelle prigioni, in condizioni migliori rispetto alle torture pubbliche. Poi lui e gli altri lo lasciano solo. Marianna si scusa per non aver creduto. Sandokan le confessa che ha pensato sempre a lei e che ha resistito alla tortura grazie a lei, e che lei sarà il suo ultimo pensiero il giorno dopo, prima di morire. Si baciano: “questa notte è per sempre”. La mattina dopo, mentre tutti aspettano l’impiccagione, una guardia trova il corpo di Sandokan in cella: senza vita. E la domanda chiude l’episodio come una ferita aperta: com’è morto? È davvero morto?

Credits e dove vederlo

Regista: Jan Maria Michelini, Nicola Abbatangelo

Sceneggiatura: Dai romanzi di Emilio Salgari

Cast: Can Yaman (Sandokan) Alanah Bloor (Marianna Guillonk) Ed Westwick (James Brooke) Madeleine Price (Sani) Owen Teale (Lord Guillonk); John Hannah (sergente Murray); Alessandro Preziosi (Yanez de Gomera)

Dove vederlo: Rai Play

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