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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Milton che analizziamo qui è, in apparenza, una semplice telefonata lasciata su una segreteria telefonica. Ma come spesso accade in "Jules", le apparenze ingannano. Dietro quella che sembra una comunicazione quotidiana, fatta di notizie banali e riferimenti a luoghi comuni, si nasconde un flusso emotivo irrisolto, una richiesta muta di perdono, un tentativo di ricostruzione di un legame consumato dal tempo e dalle assenze.
Milton sta cercando di entrare in contatto. E lo fa in modo disordinato, umano, a tratti ironico, ma malinconico.
MINUTAGGIO: 39:00-40:00
RUOLO: Milton
ATTORE: Ben Kingsley
DOVE: Netflix
ITALIANO
(Jules sta parlando con la segreteria telefonica)
Ciao Tim,
Tuo padre. Spero tutto bene, lì.
Qui è già arrivato l’Autunno.
La clinica di Denise,poi, adesso è sulla Lincoln vicino all’autolavaggio. C’era quando vivevi qui? Non lo so.
Chissà come andrà con quel casino… Magari i suoi cani abbaieranno alle macchine.
Lo so che non ci sono mai stato quando dovevo.
Meritavi un padre. Ma il troppo stroppia, non è vero?
(Suona la segreteria)
Ho chiacchierato con la segreteria.
"Jules" è un film uscito nel 2023 diretto da Marc Turtletaub, regista che arriva dal mondo della produzione indipendente e che qui si prende il tempo di costruire una storia semplice, ma con un tocco di surreale delicato e umano. Il film ruota attorno a Milton, un anziano pensionato che vive in una cittadina tranquilla della Pennsylvania. È un uomo abitudinario, solitario, con una routine che si ripete ogni giorno: va alle riunioni del consiglio comunale, fa sempre le stesse osservazioni (che puntualmente vengono ignorate) e vive con una figlia che lo ama ma che comincia a preoccuparsi per la sua salute mentale.
La sua vita prende una piega inaspettata quando un'astronave precipita nel suo giardino. A bordo c’è un alieno silenzioso e piccolo, dalla pelle grigia e dallo sguardo espressivo. Milton, invece di farsi prendere dal panico, decide di prendersene cura. Gli dà un nome: Jules.
Da questo punto in poi, la storia prende una piega dolcemente bizzarra.
Oltre a Milton, ci sono due altri anziani del quartiere: Sandy e Joyce. Entrambi, per motivi diversi, scoprono la presenza dell'alieno e scelgono di non denunciarlo, ma di partecipare a questa convivenza con una naturalezza quasi disarmante. Il gruppo che si forma attorno a Jules è tenero, quasi infantile, eppure estremamente reale nel modo in cui ognuno di loro riversa nell'alieno il bisogno di essere ascoltato. Quello che dovrebbe essere un evento eccezionale – un contatto extraterrestre – diventa lo sfondo per qualcosa di molto più intimo: un racconto sulla vecchiaia, la solitudine e il bisogno di connessione umana.
L’alieno, che non parla ma comunica con piccoli gesti e con una presenza empatica, diventa una sorta di specchio per Milton e gli altri. Non è mai un’entità minacciosa, né viene trattato come una “meraviglia” scientifica. Jules è quasi un catalizzatore silenzioso: ascolta, accompagna, e attraverso la sua presenza spinge i personaggi ad aprirsi, a dire cose che non avevano mai detto, a rivelare traumi, paure e desideri che la vecchiaia aveva messo a tacere. "Jules" mescola il quotidiano al fantastico con una leggerezza che può ricordare certi film di Alexander Payne o anche qualcosa alla Little Miss Sunshine, per capirci. Il ritmo è pacato, i dialoghi hanno una semplicità disarmante e tutto ruota attorno a questo paradosso: un evento straordinario vissuto come se fosse l’ennesimo pomeriggio in casa.
Qui il vero "centro" non è l'alieno, ma la solitudine. Milton, Sandy e Joyce sono tre persone anziane che sentono il peso dell’invisibilità. Il mondo corre veloce intorno a loro e sembra non avere più spazio per ciò che sentono o pensano. Jules, con il suo silenzio accogliente, è l'occasione per farsi sentire. C’è anche un discorso implicito sul modo in cui trattiamo le persone anziane nella società moderna: tra diffidenza, infantilizzazione e isolamento.
"Ciao Tim, tuo padre. Spero tutto bene, lì." L’incipit è asciutto, ma già carico di sottotesto. Si firma subito: “tuo padre”. È come se volesse riaffermare un ruolo che sente di non avere più, o che forse non ha mai davvero ricoperto. Quel “lì” è vago, generico, eppure pesante. Potrebbe riferirsi a una città lontana, a un altro stato, ma anche alla distanza emotiva tra padre e figlio. La mancanza di contatto ha creato un “altrove” non specificato, ma profondamente presente.
"Qui è già arrivato l’autunno." Descrizione meteorologica apparentemente casuale, ma l’autunno è una scelta precisa. È la stagione della decadenza, della memoria, del silenzio che anticipa l’inverno. In un film che parla del tramonto della vita, questa frase è una pennellata simbolica. È anche un modo per dire: “Il tempo passa, anche qui”.
"La clinica di Denise, poi, adesso è sulla Lincoln vicino all’autolavaggio. C’era quando vivevi qui? Non lo so." Qui Milton entra nel tono tipico di una conversazione famigliare: aggiornamenti su posti e persone che potrebbero o non potrebbero essere familiari all’interlocutore. Ma la chiave è nell’insicurezza. “C’era quando vivevi qui? Non lo so.” È un’autocorrezione sincera e quasi infantile. Indica quanto poco lui sappia della vita recente del figlio, quanto sia rimasto indietro. Anche il fatto che parli della clinica di Denise – senza spiegarci chi sia – ci fa capire che sta cercando di riempire il silenzio con dettagli.
"Chissà come andrà con quel casino… Magari i suoi cani abbaieranno alle macchine." Qui la frase diventa quasi comica, ma è una comicità amara. Si percepisce lo sforzo di voler raccontare qualcosa, di voler far ridere, anche solo un po’. I cani che abbaiano alle macchine: un'immagine da cartolina suburbana che, in realtà, è profondamente malinconica. Perché ci si scherza sopra quando si ha poco altro da dire.
"Lo so che non ci sono mai stato quando dovevo." Questa è la svolta emotiva. Senza alcun preambolo, Milton scivola dalla chiacchiera banale alla confessione. È una frase secca, che non cerca attenuanti. Non usa giri di parole: si assume la responsabilità della sua assenza, lasciandola sospesa. "Meritavi un padre. Ma il troppo stroppia, non è vero?" Qui entra in campo la difesa, quasi una forma di autoironia mista a rassegnazione. “Il troppo stroppia” è un proverbio che sembra voler dire: magari, anche se fossi stato presente, avrei rovinato comunque tutto. È un modo per alleggerire la colpa, ma è anche una forma di sfiducia in se stesso come figura paterna. Sta dicendo: “Tu meritavi qualcosa di meglio. Io forse non sarei stato la risposta, neanche se ci fossi stato.”
"(Suona la segreteria)" – "Ho chiacchierato con la segreteria." Il monologo si chiude con un ritorno al presente, quasi teatrale. Il suono della segreteria che interrompe il flusso del discorso diventa una cesura emotiva. Milton si rende conto che non sta davvero parlando con Tim, ma con un dispositivo. E con una punta di ironia amara, lo ammette: “Ho chiacchierato con la segreteria.”
Questo monologo è un microcosmo di tutto quello che "Jules" vuole raccontare: l’incapacità di comunicare, la solitudine dell’età avanzata, la difficoltà di chiedere perdono senza sapere se l’altro ci stia ancora ascoltando. Milton parla come parlerebbe un padre che si è svegliato troppo tardi, che ha capito troppo tardi cosa aveva da dare. Il tono è quotidiano, a tratti quasi ridicolo, ma proprio per questo autentico. La verità di Milton è nella sua goffaggine, nella sua incapacità di essere padre in modo “perfetto”.
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