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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo è uno snodo centrale di Enrico IV. È un momento in cui il personaggio rompe — o meglio, squarcia — il velo della messa in scena, e lo fa in un modo che mette a disagio. Non solo i personaggi in scena, ma anche lo spettatore. Perché? Perché ci costringe a chiederci: "E se fosse vero ciò che dice? Se fossimo noi i pazzi, o quantomeno i ciechi?".
Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo! – Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! – è vero o no? Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno sotto i piedi e vi tolga l’aria dal respirare?
Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! – Eh, che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! – Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! – Voi dite “questo non può essere!” – e per loro può essere tutto. – Ma voi dite che non è vero. E perché? Perché non par vero a te, a te, a te. (Indica tre di loro) e centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo dànno dei loro accordi, fiori di logica!
Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero ieri! Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi – come io guardavo un giorno certi occhi – potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca…
“Enrico IV” è un’opera teatrale scritta da Luigi Pirandello nel 1921, ed è uno dei suoi testi più affilati e inquieti sul tema dell’identità, della follia e della maschera. Siamo dentro il suo teatro più maturo, quello che smette di giocare con i paradossi solo per divertire e comincia a scavare in profondità nell’essere umano, là dove il confine tra ciò che si finge e ciò che si è davvero diventa talmente sottile da far male. L’opera nasce dopo che Pirandello ha già scritto “Sei personaggi in cerca d’autore” (1921) ed è immersa nel clima di crisi dell’identità tipico del primo Novecento. L'Europa è da poco uscita dalla Prima guerra mondiale, la psicoanalisi sta facendo breccia nel pensiero comune, e la percezione dell'“io” come qualcosa di solido e coerente comincia a vacillare. Pirandello lo sa bene e con Enrico IV porta a teatro un personaggio che finge di essere pazzo... ma che forse ha capito qualcosa che agli altri è ancora nascosto.
Il protagonista è un uomo che, dopo una caduta da cavallo durante una mascherata in costume, comincia a credere di essere l’imperatore Enrico IV di Germania. Vive da anni in una villa appositamente trasformata per somigliare alla corte imperiale medievale, circondato da servitori-figuranti che recitano una parte. Un giorno riceve la visita di alcuni personaggi del suo passato. E lì scatta il dubbio: è ancora pazzo o sta fingendo?
“Enrico IV” non è solo una storia di follia. È un discorso lucidissimo sul ruolo che interpretiamo nella società. Pirandello ci dice: ognuno di noi è imprigionato in una maschera, un personaggio che abbiamo scelto (o ci è stato imposto) e che siamo obbligati a recitare. Enrico, in un certo senso, è l’unico che ha avuto il coraggio (o la disperazione) di restare fedele alla sua parte. Per lui, fingere è diventato vivere. E forse ha capito che tutti vivono fingendo. Il gioco tra realtà e rappresentazione, uno dei motivi più cari a Pirandello, qui assume una forma inquietante: il protagonista vive in una messinscena che è diventata la sua unica realtà. Ma lo spettatore non sa mai fino in fondo se Enrico è impazzito o se è l’unico lucido in mezzo a un gruppo di attori sociali. Chi è pazzo, allora? Chi rifiuta la realtà condivisa o chi recita ogni giorno una parte per essere accettato?
Un altro elemento chiave è il tempo. Il protagonista vive nel passato, anzi, vive il passato come se fosse presente. La corte imperiale è ferma, congelata in un’epoca che non esiste più. È una dimensione parallela, dove non vale il tempo storico ma quello psicologico. Questo uso del tempo è una forma di ribellione: Enrico sceglie il suo tempo personale contro quello imposto dalla società.
Quando pronuncia queste parole, Enrico IV non è più la maschera dell'imperatore medievale. O meglio: sta usando quella maschera come uno strumento per mostrare la verità. In questo monologo vediamo un uomo lucido, perfettamente consapevole, che si rivolge ai suoi interlocutori (e indirettamente a noi) non per cercare comprensione, ma per colpirli al cuore delle loro certezze. È la parte più "filosofica" del personaggio, quella che abbandona la dimensione del teatro storico per entrare in pieno nel pensiero pirandelliano. Sta dicendo, in sostanza: “voi vivete convinti di essere sani, coerenti, logici. Ma se togliamo la logica condivisa, cosa resta?” «Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo!» Apre frontalmente, senza retorica, con una lama. Sta leggendo in faccia lo sgomento degli altri. E lo accusa. La sua lucidità fa paura, perché non corrisponde all'immagine di “malato mentale” che ci si aspetta. Questo è il cortocircuito: se un pazzo è lucido, allora chi può davvero dire cosa è normale?
«Perché trovarsi davanti a un pazzo che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito...» Qui arriva al nocciolo. La follia non è una malattia, è un elemento destabilizzante. Non è pericolosa perché fa paura in sé, ma perché mette in crisi le regole del gioco. Enrico non è semplicemente un personaggio disturbato. È una figura specchio, uno che riflette un'immagine distorta del mondo... ma non meno vera di quella che chiamiamo “normale”. Il pazzo, secondo Pirandello, è quello che non accetta più di partecipare alla menzogna collettiva. E chi non recita più il proprio ruolo sociale diventa pericoloso.
«Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più... Volubili! Volubili!» Questo passaggio è fondamentale: la follia come libertà dal vincolo della coerenza. Nella società ci si aspetta che tu sia coerente con ciò che sei, che dici, che pensi. Il folle, invece, può cambiare, scivolare, trasformarsi. Per questo è temuto: perché non è fissabile. Ma attenzione: non c'è idealizzazione. Enrico non dice che i pazzi sono migliori. Dice che sono liberi da quella logica che gli altri chiamano realtà.
«Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo...»
E qui cambia tono. Dal filosofico al personale. Enrico si spoglia e si rivela, riavvolge il nastro fino all'infanzia, quando la realtà non era ancora definita da parametri razionali, ma da impressioni, da ciò che "appariva" vero. È un ricordo intimo, tenero e disturbante: la luna nel pozzo è un'immagine poetica e profondamente pirandelliana. È la verità come illusione, come riflesso. E ci dice: non fidarti troppo di ciò che vedi. «Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile...» Arriva l’affondo. Qui Enrico abbandona ogni maschera e mostra la sua vera condizione esistenziale: l’alienazione. Guarda negli occhi gli altri e sa che non li potrà mai conoscere davvero. C’è un muro invalicabile: l’altro è sempre altro. Questo è il punto pirandelliano più profondo. Nessuno può davvero entrare nel mondo dell’altro. Ogni essere umano è chiuso nella propria soggettività, condannato a vedere e a essere visto senza mai corrispondere.
«...uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca…» Questo finale è devastante. È un’immagine di incomunicabilità assoluta. L’altro, che ci è vicino, resta estraneo. Non possiamo mai davvero conoscerlo, né essere conosciuti da lui. Siamo, in fondo, spettatori e fantasmi gli uni per gli altri.
Questo monologo è una dichiarazione d’indipendenza dalla normalità. Enrico IV, in questo momento, non è pazzo: è radicalmente lucido. È come se dicesse: io sono caduto, sì. Ma nella caduta ho visto ciò che voi non osate guardare.
Non chiede di essere creduto, né capito. Sta mettendo a nudo l’ipocrisia di un mondo che si regge sull’apparenza condivisa di ciò che è “vero”.
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