Monologo maschile - \"Fly me to the moon\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo di Henry Smalls arriva in un momento chiave del film Fly Me to the Moon, per il modo in cui sposta il punto di vista. Fino a qui siamo stati nel cuore pulsante della NASA, tra tecnicismi, pressioni politiche, strategie di comunicazione e scontri tra mentalità. Poi, all’improvviso, arriva questo momento più intimo, più silenzioso, quasi fuori campo rispetto alla trama principale, ma proprio per questo fondamentale. Smalls – figura secondaria sulla carta – si prende la scena per un paio di minuti, e lo fa per raccontarci qualcosa che né Kelly né Cole sono capaci di dire apertamente: perché tutto questo importa. Non in termini di immagine pubblica, non in termini di missione, ma in termini umani.

Il miglior pilota non è mai andato sulla Luna

MINUTAGGIO: 44:39-47:01

ATTORE: Ray Romano

RUOLO: Henry Smalls

DOVE: Apple TV

INGLESE

I had emergency bypass surgery last year. Yeah. That son of a bitch. He’s hell-bent on keeping me alive. I’m sorry. I didn’t know. Yeah. Nobody here does. Just Cole. Yeah. He came to the hospital and held my wife’s hand for three days. Yeah. It’s a long way from the day we met. Kid had just got back from Korea. The top pilot in the Air Force. Silver Star. Flying Cross. He was first in line at Edwards when they were looking for astronauts. But, uh, he ended up not making the cut. So, what got him? It was his temper. No, no. His heart. Doc found an A-fib. A little thing but enough to keep him out of the program. Cole Davis is the best pilot who will never get to space. You know, I’ve been looking at this view every day for the last 15 years. But lately, it’s like I’m seeing it for the first time. Apollo 1 cast a big shadow on this place. It’s nice to have some light back.

ITALIANO

No, è solo che l’anno scorso mi hanno dovuto mettere un bypass, e quel figlio di puttana è determinato a tenermi in vita. Qui nessuno lo sa, solo Cole. E’ venuto da me in ospedale e ha tenuto la mano di mia moglie per giorni. Già. Ci conosciamo da tanto tempo. Lui era appena tornato dalla Corea, il miglior pilota dell’Air Force. Silver Star, Flying Cross, era il primo della lista alla Edwards quando cercavano gli astronauti. Ma alla fine non l’hanno selezionato. Per il cuore. Ha avuto una fibrillazione atriale, non una cosa seria, ma abbastanza da escluderlo dal programma. Cole Davis è il miglior pilota che non andrà mai nello spazio. Ho osservato questo panorama ogni giorno negli ultimi quindici anni, ma adesso è come se lo vedessi la prima volta. L’Apollo Uno gettò una grande ombra su questo posto. E’ bello poter sperare ancora.

Fly me to the moon

Partiamo da un contesto storico che ha già in sé la tensione di un thriller e il fascino del mito moderno: l’uomo sta per sbarcare sulla Luna, e il mondo intero ha gli occhi puntati sulla NASA. Ma Fly Me to the Moon non si limita a raccontare la storia che conosciamo, quella documentata e incorniciata nei libri di scuola. Il film si diverte a rimestare nel sottotesto, aggiungendo un retrogusto ironico, e giocando con un'ipotesi che ha sempre affascinato il cinema: e se avessero girato un finto allunaggio, per sicurezza?

Kelly Jones (Scarlett Johansson), è una regina della comunicazione, sguardo affilato e senso pratico sopra la media. Viene chiamata dalla Casa Bianca con un compito preciso: dare una nuova immagine alla NASA, che rischia di sembrare troppo ingessata e meno accattivante rispetto al sogno americano che dovrebbe rappresentare. La missione Apollo 11 è alle porte, e se qualcosa dovesse andare storto, l’America non può permettersi una figuraccia davanti al mondo. Dall’altro lato c’è Cole Davis (Channing Tatum), il direttore del lancio. È un uomo tutto d’un pezzo, che crede profondamente nella missione e nella capacità dell’equipaggio. Il suo approccio è razionale, scientifico, e profondamente ottimista: il successo non è una questione di immagine, ma di precisione, lavoro di squadra, e fiducia.

Il cuore del film sta proprio nello scontro (e nella chimica) tra queste due visioni. Kelly rappresenta la narrazione, il racconto, l’apparenza. Davis è il fatto, la sostanza, la missione vera. Ma quando il governo preme e la posta in gioco si alza, Kelly tira fuori un “piano B” da manuale di marketing bellico: organizzare un finto sbarco, girato in studio, nel caso in cui la missione reale fallisse. Non per truffare il mondo, direbbe lei, ma per salvare l’orgoglio di una nazione. Il film alterna momenti di commedia sofisticata, botta e risposta brillanti tra i due protagonisti, con una componente drammatica più sottile, che emerge nei momenti in cui le convinzioni dei personaggi iniziano a vacillare. È lì che Fly Me to the Moon si fa interessante: quando mostra quanto sia labile la linea tra verità e narrazione, tra ciò che accade e ciò che vogliamo far credere che sia accaduto.

Analisi Monologo

La forza del monologo sta nella sua costruzione: comincia in modo quasi casuale, con un tono da conversazione quotidiana, quasi scherzosa ("quel figlio di puttana è determinato a tenermi in vita"), ma è solo un modo per introdurre qualcosa di molto più profondo. Henry parla di sé, sì, ma è un pretesto per parlare di Cole.

L'elogio che fa di Davis è velato di malinconia. Non è il solito "grande uomo" da spot motivazionale, è un amico che è rimasto in ombra, che ha avuto una possibilità reale di entrare nella storia – “Silver Star, Flying Cross… era il primo della lista” – e che invece è stato tagliato fuori per un dettaglio medico. Non abbastanza grave da fermarlo nella vita, ma sufficiente a spegnere quel sogno specifico. Eppure, dice Smalls, Cole è rimasto. Non si è arreso, non ha lasciato il posto, non ha smesso di credere nel progetto. L’ha fatto da dietro le quinte, mettendo tutto sé stesso nella riuscita della missione, anche se non avrebbe mai avuto la gloria. “Il miglior pilota che non andrà mai nello spazio” è una delle frasi più dolorose – e vere – del film. È una definizione che ha il sapore di una medaglia e di una condanna insieme.

Il finale del monologo è poetico nel modo in cui ricollega il presente al passato: “Ho osservato questo panorama ogni giorno negli ultimi quindici anni, ma adesso è come se lo vedessi la prima volta.” È un cambio di sguardo. Il fallimento dell’Apollo Uno, l’incendio, la morte degli astronauti, sono stati una ferita aperta, un'ombra lunga. Ma oggi, qualcosa è cambiato. C’è di nuovo speranza. Ed è qui che il monologo smette di essere solo un elogio a Cole e diventa un riflesso della missione stessa: l’idea che, nonostante tutto, ne vale ancora la pena.

Conclusione

Quello di Henry Smalls è uno di quei monologhi che funzionano perché non vogliono commuovere a tutti i costi, ma ci riescono. È pieno di vita vera: la malattia, l’amicizia, le occasioni mancate, la resilienza. Soprattutto, dà profondità a Cole Davis, personaggio che fino a quel momento poteva sembrare un eroe “classico”. Attraverso le parole di un altro uomo, capiamo che il suo silenzio non è freddezza, ma ferita elaborata nel tempo. E capiamo perché, anche se non andrà mai nello spazio, lui ci crede più di chiunque altro.

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