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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo del giurato n. 10 in La parola ai giurati è uno dei momenti più tesi e rivelatori del film. È la scena in cui il pregiudizio esplode apertamente, senza più filtri né razionalizzazioni. Siamo nel cuore del dibattito. Il gruppo dei giurati si è già spaccato: le certezze iniziali stanno cominciando a sgretolarsi, il dubbio si è insinuato, e alcuni giurati hanno già cambiato voto. Il giurato n. 10 – interpretato da Ed Begley – è uno dei più ostinatamente convinti della colpevolezza dell'imputato. Ma il punto non è solo la sua posizione: è il perché lui crede nella colpevolezza del ragazzo. Questo monologo è la dimostrazione che il suo giudizio è viziato alla radice da un razzismo viscerale, da un disprezzo generalizzato verso una categoria sociale non meglio identificata, ma chiaramente marginalizzata e povera.
MINUTAGGIO:
RUOLO: Giurato N° 10
ATTORE: Ed Begley
DOVE: Amazon Prime Video
ITALIANO
Io non vi capisco, voialtri. Non capisco tutti i cavilli che tirate fuori. Non significano niente. Avete visto il ragazzo come l'ho visto io. Non vorrete dirmi che credete a quella fandonia della... perdita del coltello e a quella faccenda del cinema. Quella gente mente istintivamente! Insomma, non dovrei neanche dirvelo. Non sanno cos'è la verità. E credete a me, non hanno neanche bisogno di un vero movente per uccidere. Nossignore. Si ubriacano! Sono degli ubriaconi! Tutti quanti! E lo sapete! E bang! Qualcuno è a terra accoltellato. Nessuno vuole criticarli, in fondo, sono fatti così per natura, non so se mi spiego. Sono bestie. Beh, dove va lei? La vita umana per loro non ha il valore che ha per noi. Passano... passano la vita a bere e a rissare continuamente, e se qualcuno resta ucciso, peggio per lui! Non nego che abbiano anche qualche lato buono, vedete, sono io il primo a dirlo. Ne ho conosciuto un paio che erano a posto, ma sono eccezioni, non so se mi spiego. Per lo più non hanno alcun sentimento, farebbero di tutti. Ma che succede qui? Io... io vi dico una cosa. State commettendo un grosso sbaglio. Quel ragazzo è un bugiardo, conosco i tipi come quello. Amici, credete a me, sono gente inutile, non ce n'è uno che valga qualcosa. Ma... Ma che succede ora? Io sto parlando a voi... io... Ascoltatemi. Io... noi... Questo ragazzo sappiamo di che razza è. Non sapete come sono fatti? Sono... sono un vero pericolo. È gente pericolosa. Ah... Beh? Mi sentite? Lei mi ha sentito?
"La parola ai giurati" (12 Angry Men, 1957), diretto da Sidney Lumet. Qui siamo davanti a un film che sembra semplice, quasi teatrale, e invece riesce a contenere una densità narrativa, morale e registica davvero notevole. Siamo nel 1957, anno in cui il cinema americano è ancora pienamente immerso nei codici classici, ma già comincia ad affacciarsi a un tipo di racconto più asciutto, più critico, e La parola ai giurati è uno dei segnali più chiari di questa transizione.
È il primo film per il cinema di Lumet, che fino a quel momento aveva lavorato in teatro e in televisione. E questa origine teatrale si sente tutta: un solo ambiente per quasi tutto il film – una stanza chiusa, claustrofobica – e dodici personaggi costretti a confrontarsi, senza via di fuga. Ma non è un limite, anzi. Lumet sfrutta proprio questa costrizione per accendere il motore del conflitto. La trama è lineare: dodici giurati devono decidere se condannare o assolvere un ragazzo accusato di omicidio. All’inizio, undici sono convinti della sua colpevolezza. Solo uno – interpretato da Henry Fonda – esprime dei dubbi. Da qui parte un lungo processo di dialogo, scontro, introspezione. Lumet fa un lavoro di regia che non è mai didascalico, ma che accompagna e amplifica il dramma. Man mano che il dibattito si fa più acceso, lui avvicina la macchina da presa ai volti. All'inizio inquadra i personaggi in campo largo, con lenti grandangolari, dando aria alla scena. Ma col passare del tempo, lo spazio si stringe. L’obiettivo cambia: si passa a lenti più lunghe, si va sui primi piani, fino a far sentire il pubblico quasi intrappolato insieme a loro.
Anche l’uso della luce è molto preciso. Si parte con una luce naturale, estiva, che entra dalle finestre. Poi il tempo passa, il temporale si avvicina, e l’atmosfera si fa più scura, più tesa. È come se anche il clima esterno reagisse ai tumulti interni dei personaggi.
Qui l scrittura è davvero centrale. Ogni giurato è un pezzo della società americana dell’epoca. Ci sono il razzista, l’intellettuale, l’anziano riflessivo, il giovane impulsivo, il lavoratore pragmatico, il borghese distaccato. Ma attenzione: non sono mai ridotti a macchiette. Quello che Lumet e lo sceneggiatore Reginald Rose riescono a fare è mostrare come questi uomini si portino dietro ferite personali, paure, esperienze. E come queste influenzino il loro modo di giudicare.
Il cuore del film è il dubbio. Non come ostacolo, ma come strumento di responsabilità. La giustizia, qui, non è l’arena dei colpevoli e degli innocenti, ma il luogo dove si esercita la coscienza. Dove l’assenza di certezze può – e deve – diventare un valore.
Fonda non dice mai che il ragazzo è innocente. Dice solo: “Non ne sono sicuro.” E questo basta per aprire una crepa. Il film ci mostra quanto sia difficile – e coraggioso – difendere il diritto al dubbio in un mondo che preferisce sentenze veloci. Siamo in piena Guerra Fredda, in un’America che ha appena vissuto il maccartismo. Il sospetto, il conformismo, la paura del diverso sono reali. E Lumet gira un film in cui il sistema giudiziario è al centro, ma quello che realmente interessa è la psicologia del giudizio. Come giudichiamo? In base a cosa? Quanta parte ha il nostro vissuto, la nostra rabbia repressa?
Il fatto che il film si chiuda senza nomi – non sapremo mai come si chiamano quei giurati – è un altro segno. Quello che importa non è l’identità individuale, ma il processo collettivo. È una riflessione profonda sull’etica della democrazia.
"Quella gente mente istintivamente". Qui siamo subito nel territorio della generalizzazione. Il giurato non sta più parlando del ragazzo sotto processo, ma di un'intera "razza", di un’intera comunità. Il tono è da uomo che “sa come stanno le cose”, uno che ha visto il mondo e quindi si sente legittimato a giudicare. È la retorica classica del pregiudizio: l’esperienza personale che diventa legge universale. "Sono ubriaconi! Tutti quanti!". Lui passa dall'analisi (o meglio, da una finta analisi) all'insulto puro. La sua rabbia cresce, si fa tossica, e il linguaggio si sbriciola, diventa ripetitivo, compulsivo. Il suo è un discorso che si alimenta da solo, senza bisogno di conferme, un loop di disprezzo che perde progressivamente ogni logica. "Sono bestie" Questo è il punto più basso. Il linguaggio disumanizzante – classico nei meccanismi del razzismo – emerge chiaramente.
Non si parla più di persone, ma di animali, di esseri inferiori. È qui che la stanza, lentamente, si svuota. I giurati uno dopo l'altro si alzano e si allontanano. Nessuno lo interrompe, nessuno urla. Ma è proprio questo silenzio ad avere un peso enorme: è il disprezzo morale che si manifesta senza bisogno di parole.
"Ne ho conosciuto un paio che erano a posto...". Questo passaggio è interessante perché riflette una tipica forma di razzismo "difensivo". Cerca di rendere la sua posizione accettabile, di dire “non sono io il problema, sono loro che sono fatti così”. Ma è una toppa peggiore del buco. È il tentativo disperato di dare un’apparenza di equilibrio a un discorso già crollato sotto il peso del suo stesso odio. "Io sto parlando a voi… Ascoltatemi...". Il momento finale è quasi patetico. La sua voce perde forza, scivola nella richiesta, nella supplica. È solo. Nessuno lo guarda più. Nessuno lo ascolta. E qui succede qualcosa di importante: il monologo non si chiude con un’esplosione, ma con un collasso. Il razzismo perde, non perché qualcuno lo contraddice a parole, ma perché nessuno lo legittima più con l’ascolto.
Questo monologo segna il punto di non ritorno per il giurato n. 10. Da qui in avanti la sua figura perde qualsiasi autorevolezza. Non perché venga smontato punto per punto (il film non è didascalico), ma perché viene espulso moralmente dal gruppo. Nessuno risponde, nessuno lo contraddice direttamente: semplicemente, si voltano dall’altra parte. È il silenzio a parlare.
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