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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo arriva in un momento di particolare vulnerabilità per Carl Morck. Non siamo in un’aula di interrogatorio né davanti a un sospetto: qui Carl non recita, non guida un’indagine. È semplicemente costretto a confrontarsi con la verità che evita ogni giorno. È un momento di sfogo, certo, ma è anche un gesto di (quasi) confessione. E, come spesso accade nei momenti migliori di questa serie, non è un dialogo: è un monologo rivolto a qualcuno, ma scritto per lo spettatore. Un frammento che ci spalanca una finestra dentro la mente e le contraddizioni del personaggio.
STAGIONE 1 EP 4
MINUTAGGIO: 28:43-30:15
RUOLO: Carl Morck
ATTORE: Matthew Goode
DOVE: Netflix
ITALIANO
Il proiettile è entrato qui, ed è uscito da qui. Porca troia, che pazienza. Il proiettile è entrato qui ed è uscito da qui dopo, dopo… aver attraversato la schiena di Hardy. Si. Hardy lo ha rallentato, e questo mi ha salvato, ma ora lui è paralizzato dalla vita in giù, e ha un braccio con mobilità ridotta, e come sai l’agente Anderson non è stato altrettanto fortunato. Victoria dice che Jasper era spaventato quando ero in ospedale. E come starà quando gli dirò questo? Come starà quando gli dirò che se fossimo stati armati sarebbe stato lo stesso, probabilmente peggio. E sai perché? Te lo dico io. Perché non importa quanti cazzo di luoghi comuni trovi su internet. Il mondo in cui viviamo è un posto pieno di pericoli, dove nessuno può evitare quella brutta sorpresa che gli rovina la vita, e sai perché? Ora te lo spiego. Perché le creature più pericolose di questo pianeta di merda siamo noi. Ora vado a farmi una doccia, poi torno qui, ci sediamo insieme e mangiamo tutto quel cazzo di fegato. Preferibilmente in silenzio.
Una bomba pronta ad esplodere. Così viene descritto Carl Morck, protagonista assoluto di Dept. Q, la nuova serie crime di Netflix scritta e diretta (in buona parte) da Scott Frank. Non è un detective come gli altri, e la serie stessa non è un procedural nel senso tradizionale. È piuttosto un noir psicologico travestito da crime investigativo, costruito sulla fragilità umana e sulla rabbia repressa.
Morck (Matthew Goode) è il relitto. È sopravvissuto a una sparatoria devastante che ha ucciso un giovane collega, paralizzato il suo partner Hardy (Jamie Sives) e lasciato lui stesso ferito. Il senso di colpa è la sua seconda pelle. Non parla, sibila. E quando lo fa, è per colpire con sarcasmo o disprezzo. L’esilio forzato in un seminterrato della stazione di polizia di Edimburgo – il famigerato Dipartimento Q – è il suo purgatorio. Gli danno una stanza, una scrivania e una missione di facciata: spulciare vecchi casi irrisolti. Nessuno si aspetta che li risolva davvero. Serve solo tenerlo lontano dai riflettori e dare un contentino all’opinione pubblica. Ma Morck non è il tipo da stare buono. Scava, fiuta, si incattivisce. E soprattutto ricomincia a fare ciò per cui è tagliato: cercare la verità nei punti ciechi del sistema.
Il cuore narrativo della prima stagione ruota attorno al caso di Merritt Lingard (Chloe Pirrie), avvocata di alto profilo, scomparsa nel nulla quattro anni prima. All’apparenza, un cold case senza uscita: niente corpo, niente movente, niente sospetti solidi. Ma è proprio l’assenza di risposte a risvegliare l’istinto predatorio di Morck.
Attorno a lui prende forma una squadra anomala: Akram Salim (Alexej Manvelov), ex informatore siriano dall’intelligenza quieta e dallo sguardo che scruta dentro; e Rose Dickinson (Leah Byrne), agente fragile e acuta, tornata in servizio dopo un crollo psicologico. Nessuno li ha scelti davvero. Sono i reietti, i falliti, gli scarti. Ed è proprio per questo che funzionano.
Insieme, iniziano a collegare indizi sparsi, a rileggere con occhi nuovi ciò che altri hanno archiviato. Lingard non è solo una vittima. È un nodo, un perno intorno al quale ruotano potere, ambizione e un passato che qualcuno ha voluto cancellare.
La sua psicoterapia forzata con la dottoressa Rachel Irving (Kelly Macdonald) non è una sottotrama di contorno. È un campo di battaglia parallelo, dove Morck combatte contro il silenzio emotivo che lo imprigiona. Le sedute, per quanto brevi, sono momenti di svelamento e collisione. Non c’è redenzione facile: solo resistenza.
Lo stesso vale per i suoi colleghi. Akram è un uomo che ha già vissuto l’inferno della guerra e della burocrazia occidentale. Rose nasconde traumi che affiorano a tratti, senza mai diventare etichette. Ognuno ha una ferita che diventa strumento di lettura del mondo.
Quello che era nato come esilio diventa un laboratorio etico. Il seminterrato ammuffito del Dipartimento Q si trasforma, episodio dopo episodio, in una specie di confessionale laico. I cold case che vengono affrontati non sono semplici puzzle da risolvere. Sono storie congelate nel tempo, che contengono il dolore e l’ingiustizia sedimentati nella società.
Matthew Goode, qui davvero in stato di grazia, porta in scena un personaggio che riesce a essere respingente e magnetico allo stesso tempo. Morck è il classico investigatore geniale che però detesti all’inizio. E poi, lentamente, inizi a capire. Perché la sua rabbia non è gratuita. La sua chiusura emotiva ha radici profonde. E il suo sarcasmo è una forma di sopravvivenza. Non è un crime consolatorio. È una serie che lavora per sottrazione, costruita su silenzi, mezze verità, omissioni. Non offre soluzioni nette, né personaggi rassicuranti. È un racconto di detriti umani che diventano investigatori proprio perché nessun altro lo vuole fare.
Il monologo si apre con una ripetizione quasi meccanica, da trauma cranico: “Il proiettile è entrato qui, ed è uscito da qui.” La frase ha un ritmo da verbale medico, ma il tono è tutt’altro che clinico. Carl non sta solo descrivendo l’evento: sta cercando di digerirlo. Il ripetersi delle stesse parole – “entrato qui, uscito da qui” – è una forma di auto-ipnosi, come se raccontarselo potesse modificarne l’impatto. Poi, la lama affonda: “Dopo… dopo aver attraversato la schiena di Hardy.” Qui crolla la struttura da rapporto di polizia. Carl interrompe la frase, si incastra, si ferma. È il segnale che la razionalità non basta più. L’evento che racconta – la sparatoria che ha lasciato il suo partner paralizzato – non è solo cronaca, è colpa. È qui che il monologo cambia registro: dal corpo si passa all’anima.
“Hardy lo ha rallentato, e questo mi ha salvato.” Morck prende atto che il suo collega ha fatto da scudo umano, ma non lo dice con gratitudine. Lo dice con un tono che mischia disprezzo di sé e incredulità. È come se non riuscisse a perdonarsi il fatto stesso di essere vivo. La sopravvivenza, in questa logica distorta, è una forma di vigliaccheria. Il pensiero si sposta su Anderson, l’agente morto, e poi su Jasper, il figlio della sua ex moglie. E qui c’è un passaggio chiave: “Come starà quando gli dirò che se fossimo stati armati sarebbe stato lo stesso, probabilmente peggio?” Carl anticipa la retorica sulle armi. La smonta prima ancora che venga usata. È un rifiuto netto delle giustificazioni, dei cliché, delle risposte facili. Non sta cercando consolazione: sta facendo i conti con l’inevitabilità della violenza.
E la parte centrale del monologo esplode proprio lì: “Il mondo in cui viviamo è un posto pieno di pericoli […] perché le creature più pericolose di questo pianeta di merda siamo noi.” Qui emerge il vero cuore nero di Carl Morck. Non è solo amarezza, è disillusione. È la constatazione che nessun addestramento, nessun regolamento, nessuna pistola potrà mai neutralizzare la natura umana. Per Carl, il problema non è l’ambiente. Siamo noi. È antropologia spicciola, certo, ma gridata da chi ha visto il fondo.
Poi chiude con uno shift brutale: “Ora vado a farmi una doccia, poi torno qui, ci sediamo insieme e mangiamo tutto quel cazzo di fegato. Preferibilmente in silenzio.” Questa chiusura è esattamente in linea con il suo personaggio: una risata soffocata nella gola, un tentativo fallito di rientrare nella routine. È il ritorno alla superficie dopo essere andato in apnea dentro il dolore. E no, non c’è conforto. Solo fegato. Preferibilmente in silenzio.
Questo monologo è un manifesto esistenziale del personaggio di Carl Morck. Una dichiarazione non d’intenti, ma di resa. È la resa a una realtà in cui la violenza non ha cause semplici e le vittime non sono sempre quelle che finiscono in un sacco. È uno dei momenti più sinceri della serie, perché ci mostra il lato vulnerabile e brutale dell’individuo dietro l’investigatore.
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