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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo del narratore che apre la storia di Amélie è una dichiarazione di poetica. Jean-Pierre Jeunet, attraverso questa voce off, ci sta dicendo sin dal primo minuto che in questo film la realtà non sarà raccontata secondo la logica della causa-effetto, ma secondo una logica sensibile, quasi artigianale. L’evento più comune – la nascita di una bambina – viene narrato come la conseguenza di una serie di eventi infinitesimali, ognuno con la sua dignità narrativa. Il volo di una mosca, il movimento del vento, la cancellazione di un nome in una rubrica: tutto è collegato, tutto ha un peso, anche quello che normalmente sfugge.
MINUTAGGIO:
RUOLO: Narratore
ATTORE: André Dussollier.
DOVE: Amazon Prime Video
ITALIANO
Il 3 settembre 1973, alle 18, 28 minuti e 32 secondi, una mosca della famiglia dei Calliphoridi, capace di 14.670 battiti d'ali al minuto, plana su rue Saint-Vincent, a Montmartre. Nello stesso momento, in un ristorante all'aperto a due passi dal Moulin de la Galette, il vento si insinua magicamente sotto una tovaglia facendo ballare i bicchieri senza che nessuno se ne accorga. In quell'istante, al quinto piano del 28 dell'Avenue Trudaine, IX Arrondissement, Eugène Koler, di ritorno dal funerale del suo migliore amico, Emile Maginot, ne cancella il nome dalla sua rubrica. Sempre nello stesso momento, uno spermatozoo con il cromosoma X del signor Raphaël Poulain, si stacca dal plotone per raggiungere un ovulo della signora Poulain, nata Amandine Fouet. Nove mesi più tardi, nasce Amélie Poulain. Il padre di Amélie, ex-medico militare, lavora presso la Stazione termale di Enghien-les-Bains. A Raphaël Poulain non piace: fare pipì accanto a qualcuno; sorprendere uno sguardo di disprezzo sui suoi sandali; uscire dall'acqua e sentirsi il costume appiccicato addosso. A Raphaël Poulain piace: strappare enormi pezzi di carta da parati; mettere in fila le sue scarpe e lucidarle con cura; svuotare la scatola degli attrezzi, pulirla bene, e riporre tutto, alla fine. La madre di Amélie, Amandine Fouet, maestra originaria di Gueugnon, è sempre stata una persona instabile e nervosa. Ad Amandine Poulain non piace: avere le dita lessate quando fa il bagno; essere - da qualcuno che non le va - sfiorata con la mano; avere il segno del cuscino stampato sulla guancia la mattina. Ad Amandine Poulain piace: il costume dei pattinatori artistici in tv; far brillare il parquet con le pattine; svuotare la borsetta, pulirla bene, e riporre tutto, alla fine. Amélie ha 6 anni. Come tutte le bambine, vorrebbe che suo padre l'abbracciasse ogni tanto, ma... lui ha un contatto fisico con lei solo durante il controllo medico mensile. La piccola, sconvolta da tanta intimità eccezionale, non riesce a contenere il batticuore, perciò, il padre la crede affetta da un'anomalia cardiaca. A causa di questa malattia fittizia la piccina non va a scuola. È sua madre che le fa da maestra.
Il favoloso mondo di Amélie è uno di quei film che ti prende per mano e ti accompagna in un universo tutto suo, fatto di piccoli gesti, sguardi fugaci e sogni custoditi in silenzio. Diretto da Jean-Pierre Jeunet nel 2001, è ambientato in un quartiere preciso e riconoscibile di Parigi: Montmartre. Ma non è una Parigi da cartolina, o meglio... lo è, ma filtrata attraverso lo sguardo di Amélie Poulain, la protagonista. E qui comincia la vera storia. Amélie è una ragazza solitaria, cresciuta in un ambiente piuttosto strano. Suo padre, freddo e distante, le fa un esame cardiaco una volta l’anno; sua madre è una donna rigida e ansiosa che muore improvvisamente, colpita da una turista canadese che si suicida gettandosi dalla torre di Notre-Dame. Questa stranezza tragica ha il sapore di fiaba nera, ed è già un indizio sul tono del film: malinconico, surreale, con una vena di dolce ironia.
Cresciuta praticamente da sola, Amélie sviluppa un mondo interiore ricchissimo. Lavora come cameriera in un piccolo bar frequentato da personaggi tutti un po’ particolari: l’ipocondriaco Joseph, la ex ballerina di cabaret Gina, l’anziano pittore solitario Dufayel (detto “l’uomo di vetro”), e poi Georgette, la tabaccaia malaticcia che sembra uscita da un romanzo di Simenon. La vita di Amélie cambia all’improvviso quando trova, nascosta dietro una mattonella del suo bagno, una scatoletta di latta contenente i ricordi di un bambino che ha vissuto lì prima di lei: figurine, una macchinina, piccoli tesori d’infanzia. Decide allora di rintracciare il proprietario e restituirgli quella scatola. Quando ci riesce, e vede la reazione commossa dell’uomo ormai adulto, qualcosa si accende dentro di lei. È come se avesse trovato una missione: aiutare gli altri. Ma farlo in modo silenzioso, quasi invisibile.
Da qui parte una serie di azioni "da dietro le quinte": sistema la vita sentimentale della sua collega, spinge il padre a viaggiare grazie al gnomo da giardino che invia foto da tutto il mondo, aiuta il vicino artista a vedere oltre la sua paura del mondo. In tutto questo, però, c’è sempre un filo che la riporta a se stessa. Perché se è facile sistemare la vita degli altri, è molto più difficile affrontare la propria. E qui arriva Nino Quincampoix. Ragazzo misterioso, con la passione per le fototessere abbandonate. Lo incontra per caso e inizia una caccia romantica fatta di bigliettini, tracce, enigmi. Ma non riesce mai davvero a uscire allo scoperto. L’idea stessa di esporsi la terrorizza. Fino a quando l’uomo di vetro, osservandola, le dice qualcosa che scuote il suo isolamento: “Tu non hai le ossa di vetro, puoi affrontare la vita”. È il consiglio che la spinge, finalmente, ad aprirsi.
Il monologo comincia con una precisione temporale quasi ossessiva: "Il 3 settembre 1973, alle 18, 28 minuti e 32 secondi..." Subito dopo, però, l’attenzione si sposta su un elemento minuscolo e apparentemente irrilevante: una mosca. Questa apertura non è casuale: mette in scena la visione del film, che dà valore all’invisibile, al marginale, all’effimero. È una poetica della distrazione, dell’infinitamente piccolo. E allo stesso tempo, è un modo per mettere in ridicolo la narrazione “seria” della vita, quella che si basa sui grandi eventi. Qui, invece, tutto nasce da una sequenza di piccole cose.
Il passaggio dalla mosca alla tovaglia, e dalla tovaglia a Eugène Koler che cancella il nome di un amico morto, costruisce una catena invisibile, in cui ogni micro-gesto è parte di un universo più grande. Non c’è una gerarchia tra i fatti: la morte, il volo, il vento e il concepimento di Amélie convivono sullo stesso piano. È la visione del mondo che il film abbraccia: la bellezza non sta nella grandezza degli eventi, ma nella loro connessione.
Poi si arriva alla nascita di Amélie: "uno spermatozoo con il cromosoma X del signor Raphaël Poulain..." Un linguaggio volutamente tecnico, quasi clinico, ma che scivola immediatamente in qualcosa di più intimo e assurdo: la descrizione minuziosa delle manie del padre e della madre. Qui Jeunet, tramite la voce narrante, costruisce i genitori di Amélie non con biografie, ma con liste di idiosincrasie. Non ci viene detto chi sono ma cosa amano e cosa detestano. E questo basta a definirli. È un modo di raccontare i personaggi che mette da parte l’analisi psicologica in favore
dell’osservazione affettuosa. Un approccio da entomologo emozionale. Il padre è un uomo rigido, metodico, che rifugge il contatto umano e trova conforto in gesti ripetitivi e ordinati. La madre è fragile, facilmente irritabile, ma con un’estetica tutta sua, fatta di parquet lucido e costumi da pattinaggio. Insieme creano un mondo dove Amélie cresce come un piccolo satellite, in orbita intorno a genitori distanti e distratti.
Il punto cruciale arriva alla fine: "Come tutte le bambine, vorrebbe che suo padre l'abbracciasse ogni tanto...". Ed è qui che la narrazione poetica lascia spazio, per un attimo, a qualcosa di profondamente umano. È il primo accenno alla solitudine emotiva di Amélie, che non viene mai espressa con toni melodrammatici, ma con quella sottile tristezza che passa inosservata. Il padre interpreta il batticuore della figlia come un’anomalia fisica, non affettiva, e così la isola ancora di più. L’errore di diagnosi – credere che un’emozione sia una patologia – è una metafora dolorosa, ma precisa, dell’incomprensione emotiva che accompagnerà Amélie per anni.
Questo monologo non serve solo a raccontare le origini della protagonista: serve a stabilire un tono, una grammatica visiva e narrativa. Jeunet ci invita a guardare il mondo con lo sguardo di Amélie – o meglio, con lo sguardo che Amélie imparerà ad avere. Uno sguardo che dà peso al dettaglio, che osserva senza giudicare, che trova una logica emotiva nei gesti ripetuti, nelle manie, nei desideri minuscoli. La voce del narratore, impersonale ma partecipe, è il tramite perfetto per costruire una visione della vita come somma di dettagli, di impercettibili movimenti che solo un occhio attento riesce a cogliere.
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