Monologo maschile teatrale - L'Uomo in \"Orgia\", di Pier Paolo Pasolini

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Articolo a cura di...


~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

L’Uomo di Orgia è il cuore nevrotico e pulsante di una tensione. Non è un personaggio "realistico", ma una figura simbolica, una voce che racconta il dramma interiore di chi è cresciuto all’interno di un ordine sociale e ne è stato devastato. In questo lungo monologo — uno dei momenti più intensi del teatro pasoliniano — si manifesta un corpo che implode, un’identità che si scompone e cerca una nuova forma tra dolore, desiderio e rivolta. L’Uomo non parla per raccontarsi, ma per denudarsi, nel senso più letterale e più violento del termine.

Il corpo, il mio corpo

UOMO

(si rialza)

 C’è stato un concertino di angeli
contro le pareti del mio cranio.
Io lo seguivo, con attenzione e rapimento:
non lo sapevo che si stesse tanto bene
caduti per terra come fantocci sul proprio vomito.
Erano strumenti festosi e lontani
come l’ultima nuvola colorata
dopo la distruzione del mondo...

Sono svenuto, e ho vomitato: quanta pace
tra il vomito e le lacrime!

Dov’è andata?

Totale solitudine.

Ecco, intorno a me... i segni della nuova realtà.
Una casa piena di un silenzio innaturale;
un’assurda corda; pochi stracci;
qualche traccia, accusatrice, di vomito.
Che cosa mi rivelano tutti questi segni?
Mi rivelano che questa realtà non mi appartiene.

Essa appartiene ormai soltanto agli altri
(vicini di casa, colleghi... e quattro poliziotti
servi di Dio).

Molte paia d’occhi, suppongo, vedranno questi segni.
Li intenderanno; e così, dopo un lungo possesso,
verrò espropriato della mia realtà,
che tornerà ai suoi legittimi proprietari
nella grigia memoria del mondo.

(comincia a spogliarsi)

Era scritto, da qualche parte,
era sempre stato scritto:
e io non avevo mai voluto leggere.

Da una larva bianca
nella sua indecente innocenza
è spuntato un ragazzo impube,
coi suoi capelli castani e già vecchi,
severo servitorello del mondo,
che stette in famiglia e andò a scuola,
pronto a tutto, esperto di ogni accettazione,
dedito alla pratica di imparare
e a farsi degno del comune futuro.
Io sono rimasto questo ragazzo impube uscito dalla larva.

Ma, poi, la prima barba!
Le prime gocce di sperma!
Aaaaaaah!

In poche settimane sono ritornato,
indietro, a essere

la silenziosa larva col suo basso sorriso
che pensa solo a succhiare la vita.
Questo è quello che mi è capitato:
ma io, ripeto, ho sempre creduto (o deciso)
di essere quel ragazzo impube nelle buone grazie del mondo.

Io, per quanto concerne la mia coscienza,
l’ho dunque accettato, il mondo!
Io, ho chinato la testa!

Ma la larva bambina — e l’uomo
che poi ne è stato servo —
volevano altrimenti.

La mia volontà di normalità
è finita col non contare:
questo è ciò ch’era scritto e non ho voluto leggere.

Ora, il dolore terribile che provo morendo
è solo per la sola cosa che amo:
la carne tanto masticata e mai ingoiata di mia madre.
Eppure, eppure non è questo dolore ciò che più importa.
(si è spogliato, intanto, fino a denudarsi)

Ho subito il processo di essere
qualcosa di DIVERSO. Questo mi è capitato.

Per quale disegno del mondo?

Perché gli altri, forse, si riconoscessero giusti?
E, così, potessero seguire, rassicurati,
il procedere della vita?

E adesso, qui, morendo,
io non faccio altro che servire questa mia funzione?

Ma l’uomo a cui, porca miseria, è toccato il destino
di essere DIVERSO,
deve starsene tutta la vita fermo,
segnato, schedato, dentro la sua diversità?

È solo degli altri (i simpatici, commoventi normali)
la prerogativa di andare avanti, cioè a dire
evolversi, e fare la storia?
Mentre per me, DIVERSO, e tutti
i miei disgraziati compagni di sventura
(Negri, Ebrei), niente. Niente Storia.
Un destino d’immobilità preservata dall’odio.
Dall’odio, dico, dei fratelli,
che, mediante evoluzioni e rivoluzioni,
morali e religioni, vanno avanti, loro, passo passo.

Eh, no!

Io, ardentemente obbediente a questa regola,
alla fine della mia pubertà — come mi son già detto,
nel presente, spiritoso monologo —
fui un bravo adulto, che si sottometteva
con la buona fede dello scolaro
a tutte le regole del gioco (del potere):
non solo: ma accettava addirittura,
con diligenza, la condanna contro la SUA DIVERSITÀ!

Incredibile!

E ora perché finalmente, oh bella, mi ribello?

(comincia a raccogliere gli indumenti della ragazza, e a indossarli:
per prime, le calze)

La marca di queste povere calze
di piccola borghese di periferia
dice con grande chiarezza due cose:
primo: la loro caducità,
secondo: la loro appartenenza alla sfera del potere.

In una bottega invasa da un rosa tremendo —
quello che cade da un viale mai visto della città
in preda a un tramonto fantastico — e dolce,
famigliare solo per chi abita da quelle parti —
era appena spiovuto... e tra tutto quel rosa
nasceva una luna, piena d’una logicità fatale...

(si è infilato le calze, e ora prende il reggicalze)

Primo: la caducità;
secondo: un posticino nel mondo del potere.
Due belle scuse per essere diversi in pace.
Cara morte, ah, ah, come mi eri utile
per poter fingere
che il tempo non era nulla; che non passava.
E che quindi era giusto starmene fermo
intento solo alle mie stupende, divine porcherie!
Un reggicalze da poche lire.
Un amore, un volgare, compassionevole amore.
(Un amore di chi non sa niente, ma — poiché anche una
puttana o serva, sa ogni cosa, come ogni creatura — [ragazza
che immensità in quel non sapere niente!])
(C’è certo un’analogia tra gli innocenti e i DIVERSI:
ma che abisso tra la servilità degli innocenti

e la servilità dei DIVERSI!
I primi, nessuno mai li accuserà di non andare avanti
— nella storia, nella storia... — mentre i secondi...)

Reggicalze di una stagione,
per bacco, mi hai fatto giocare con te come un gatto,
che non sa niente, baffuta macchina innocente...
Ti ho leccato e graffiato con tutta l’infinita
esaltazione... del matto
sistemato nella vita magnificamente.

Ero infatti terrorizzato dal ricatto della religione.
Ma ripeto, questo terrore mi era molto comodo, molto,
perché mi abituava ad avere terrore di tutto,
e così ho abbassato la testa, mi son chiuso nel mio guscio,
ove, gran Dio!, ho poi fatto tutto quello che ho voluto.
(si è stretti il reggicalze, e prende le mutandine)

Ehi, mutandine di mia madre!
Primo: la caducità — e quindi la rassegnazione.
Secondo: l’onnipresenza del potere — e quindi l’ipocrisia.
Mutandine cieche, sacchetto vergognoso.
Ma sì, ma sì, torneremo polvere: ciò ci protegge,
da una parte, nell’essere follemente porci,
dall’altra nell’obbedire a chi vorrebbe
che mai si parlasse di voi; e che voi
foste fonte di silenzio.
(si è infilato le mutandine, e prende la sottoveste)

Idem poi dicasi per questa sottoveste.
Legata a motivi di canzonette, alla televisione, e affini.
Eh, già! Ci sono dei misteri così. Chi ha detto

che anche una vita piccolo borghese non sia misteriosa?
Al contrario, è misteriosa anch’essa: mettiamo come la vita
di un antico Greco.
Essa è impenetrabile: perché la sua bruttezza
e la sua volgarità (di cui, oh bella, ora sono
non può impedirle di essere reale. Al male non c’è confine.
Io ho accettato questa sottoveste volgare
ho accettato le sue grazie
alla portata di tutti, la sua innocenza
voluta dalle complicazioni della ricchezza;
la sua innocenza: in cui la morte
introduce il principio della rassegnazione.
(si è infilato la sottoveste, e prende la sottana)

Non sei tu la sottana di lana leggera
che si indossa quando sta per finire l’estate?
Anche tu, anche tu,
altro non dici che su te è passato il tempo,
quello che distrugge, sul nascere, le speranze.

Sì, questo è importante, e lo sottolineo:
la morte che concede l’orgia,
rende per sua natura sciocco lo sperare.
(si è infilato la sottana)

Non è dai monti della luna che venite,
segni della mia nuova realtà.
Dico nuova: e non senza ragione.
Così nuova da far decadere ogni già sperimentata
idea di novità. Infatti:
quando eravate i segni della mia realtà vecchia,
due erano le alternative: primo, con la scusa...

...della caducità (indi della rassegnazione)
asservirsi all’autorità e fare quella magnifica vita di porci...
Secondo, farla subito finita e darsi una magnifica morte
(come è già accaduto nel corso di questa tragedia).
Ma... ora... si apre una terza alternativa...
un’alternativa... rivoluzionaria!

Sono stato vostro schiavo, oggetti della mia vita:
di conseguenza, voi siete stati i segni della mia obbedienza.
Ma ora, ora non sono più vostro schiavo! Ah, ah,
ho del tutto stravolto la vostra normale funzione;
domattina, così, voi sarete i segni della mia nuova realtà.
Quanta parlate, quanto urlerete, (impazziti) oggetti banali,
parole del silenzio e della rassegnazione
(estrae dalla borsetta il rossetto, la cipria, e comincia a truccarsi)

QUANTE VOLTE IO AVREI POTUTO RIBELLARMI!
E invece, una volta per sempre — lo ripeto, lo ripeto —
avevo pronunciato un atroce giuramento di lealtà.

Ora mi appresto a rinnegarlo.

Il mio linguaggio diventerà muto per eccellenza,
oltre che per l’eternità. Eppure
capirà quale terribile, terribile, mai pensata finora,
avrebbe avuto il mio desiderio di essere libero,
se avessi, in vita, il mio istinto
attraverso cui la morte
aveva dichiarato inutile ogni speranza.

Il gruppetto di gente che il sole porterà qui
delegati dall’immenso mondo della storia
(i vicini di casa, in silenzio; i poliziotti
col loro triste sudore, gli infermieri
venuti dalla campagna: come li vedo!)
si troveranno davanti a un fenomeno espressivo
indubbiamente nuovo, così nuovo da dare un grande scandalo
e da smerdare, praticamente, ogni loro amore.

Infatti non faccio questo (come, ripeto,
è stato già fatto nel corso di questa tragedia)
per aver perduto il senso della legge,
ma per averlo ritrovato e... GIUDICATO.

Ecco, il bonzo è pronto.
(comincia a compiere gli atti necessari a impiccarsi al soffitto)

Sole, fermati su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon!
(si infila sotto il nodo, e infila il capo nel cappio)

Allegri!
Dentro una delle tante case di questo quartiere —
per lutto, nervosi, o noia del pomeriggio festivo —
c’è stato finalmente un uomo
che ha fatto buon uso della morte.

Orgia

“Orgia” di Pier Paolo Pasolini è una delle sue opere teatrali meno frequentate ma tra le più dense e difficili, scritta nel 1968 e parte del ciclo definito “Teatro di Parola”, insieme a testi come Affabulazione, Pilade e Porcile. Siamo lontani da un teatro classico o realistico: Pasolini punta a un linguaggio astratto, spesso provocatorio, radicale, che scardina la forma tradizionale per esprimere conflitti interiori e sociali in modo quasi rituale. Il testo è costruito su un impianto fortemente simbolico e rituale. Due soli personaggi: Lui e Lei. Non hanno nome proprio, e già questa scelta porta la storia fuori da ogni localizzazione storica o realistica. Siamo in una stanza chiusa, uno spazio privato e metaforico, dove si consuma un “rito borghese” di distruzione, degradazione e autodistruzione. Pasolini struttura l’opera come una sequenza di gesti, parole e confessioni che oscillano tra la tensione erotica, la crudeltà, la colpa, il desiderio e la morte. È un’orgia che non ha nulla di liberatorio: è un cerimoniale tragico, dove il piacere è solo un altro volto della violenza.

Nel suo “Teatro di Parola”, Pasolini rifiuta l’azione come motore drammaturgico: qui tutto si gioca sul linguaggio. Ma attenzione, non un linguaggio “letterario” nel senso classico. Il parlato in Orgia è violento, interrotto, contorto. Le parole non spiegano, ma spaccano. Rivelano. È un teatro che non vuole piacere, vuole disturbare. E attraverso il fastidio e lo sconcerto, spingere chi guarda (o legge) a interrogarsi sul senso della propria identità, della morale, del corpo, della storia. Tutti temi pasoliniani, qui portati all’estremo.

Temi principali

Pasolini, in Orgia, mette il corpo al centro come spazio politico. Il corpo è luogo del desiderio, della colpa, della punizione. È “campo di battaglia” tra morale borghese e pulsioni personali. Il corpo viene esibito, sporcato, offeso, sacrificato. Non c’è mai piacere puro, ma solo dolore erotizzato, nella scia di Bataille.

Lui è un uomo borghese, Lei una donna proletaria. Ma non c’è dialettica: c’è dominio. Lui vuole degradarsi e degradare Lei, per liberarsi dalla propria condizione. Lei partecipa, ma non è mai davvero in controllo. Pasolini racconta una classe che non sa più che farsene del proprio potere e una sottoclasse che viene ancora una volta consumata, come oggetto. Il rapporto è violento, squilibrato, senza possibilità di riscatto.

L’orgia diventa un suicidio rituale. Un modo per portare a compimento un processo di annientamento identitario e sociale. In Pasolini, la borghesia è un soggetto morto che si trascina, e Orgia è una delle sue messe funebri.

Il legame tra amore, desiderio, e morte è continuo. Ogni gesto erotico è un passo verso la distruzione. Non c’è spazio per l’amore, ma solo per la messa in scena della propria fine. Pasolini, qui, si fa nietzschiano: la tragedia è l’unico linguaggio possibile per raccontare la verità dell’uomo.

Orgia è scritta per non essere rappresentata nel senso tradizionale. Pasolini era profondamente critico verso il teatro borghese, fatto di scenografie, costumi, attori che “fingono”. Il suo è un teatro che va letto o recitato “a nudo”, anche letteralmente, come atto performativo e politico. Le didascalie sono invadenti, quasi a scoraggiare qualsiasi regia realistica. È un testo pensato più per la mente che per il palcoscenico, un teatro “da camera” mentale.

Orgia non è un testo che offre risposte o catarsi. È un’esperienza che mette a disagio e chiede di essere affrontata più volte, con attenzione. È un esercizio di verità scomoda, che parla della perdita di senso, dell’implosione del desiderio, del peso della Storia e della classe sociale sulle nostre scelte più intime.

Un testo difficile da digerire, che ha ancora oggi un potere abrasivo, perché costringe chi lo legge o lo mette in scena a confrontarsi con ciò che di più rimosso abbiamo dentro: il piacere del dominio, il fascino della colpa, e l’orrore di un’identità che ci soffoca.

Monologo e Personaggio

L’Uomo si presenta come una figura spezzata tra ciò che è stato educato a essere e ciò che è. L'immagine della larva, ricorrente nel monologo, è chiave: una creatura informe, primitiva, che cresce nella passività, nell’accettazione del mondo. “Sono rimasto questo ragazzo impube uscito dalla larva”, dice. Non c’è mai stata una vera maturazione, ma una simulazione di crescita imposta dalla società. La larva non evolve, subisce. Ed è qui che si apre la frattura drammatica: da una parte il “servo” del mondo, il borghese obbediente, accettato e accettante; dall’altra il “diverso”, che rifiuta la normalità, ma non riesce a staccarsene senza autodistruggersi.

Pasolini non fa mai della diversità un valore consolatorio. Al contrario, l’Uomo grida la condanna di essere “diverso” in un mondo che non tollera deviazioni. “Il destino di essere diverso”, dice, non è un’identità fiera, ma una prigione. Diverso come i “Negri, Ebrei...”, inseriti non come paragone identitario, ma come esemplificazione del meccanismo di esclusione. La diversità, qui, è immobilità: chi è fuori dalla norma non può evolversi, non può “fare la storia”, ma solo esserne un’appendice dolorosa. La rivoluzione che Pasolini mette in scena è intima e tragica: è una ribellione che può realizzarsi solo nel gesto estremo, non nel cambiamento collettivo.

Il gesto del travestirsi con gli indumenti della donna è un momento centrale. Non è una scena di liberazione erotica o di identità di genere. È un rito di appropriazione e profanazione: il corpo dell’Uomo si riveste dei simboli della subordinazione femminile e piccolo-borghese per stravolgerli. Le calze, la sottoveste, il reggicalze diventano oggetti carichi di potere — non potere sessuale, ma potere simbolico — perché parlano di obbedienza, sottomissione, ipocrisia. L’Uomo si riappropria del linguaggio del potere travestendosi, parodiandolo, trasformando quegli oggetti in “segni della sua nuova realtà”. È una scena di trasfigurazione: non si nasconde, ma si rivela attraverso la maschera.

Il suicidio finale è il compimento non tanto della disperazione, ma della denuncia. L’Uomo dice: “Non faccio questo per aver perduto il senso della legge, ma per averlo ritrovato e... GIUDICATO.” È un atto filosofico, teatrale, simbolico. La morte diventa l’unico modo per “parlare con il silenzio”, per farsi capire in un mondo che non vuole ascoltare. Pasolini costruisce così un gesto tragico, che non ha nulla di estetico: è la fine di un percorso, ma anche l’unico inizio possibile. L’Uomo non vuole morire perché ha fallito, ma perché solo nella morte può diventare ciò che è veramente. È il “buon uso della morte” di cui parla nel finale: un’estrema, feroce forma di espressione.

Conclusione

Il personaggio dell’Uomo in Orgia è una figura tragica nel senso più greco del termine: schiacciato tra destino e conoscenza, tra ciò che è scritto e ciò che scopre troppo tardi. È un corpo che si dibatte tra normalità e devianza, tra maschile e femminile, tra borghesia e marginalità, tra potere e subordinazione. Il suo monologo è una lunga autopsia dell’identità, una confessione lucida e feroce, un’accusa al mondo borghese e ai suoi meccanismi di ipocrisia. Pasolini, attraverso l’Uomo ci offre un’urgenza: la necessità di guardare dentro la normalità e vederci il dolore, la repressione, il desiderio negato. Orgia non chiede empatia, chiede consapevolezza. E l’Uomo è il tramite più doloroso e necessario per raggiungerla.

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