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~ LA REDAZIONE DI RC
Fino a questo punto, tutto ciò che riguarda Enzo in “Lo chiamavano Jeeg Robot” è avvenuto nel buio. Nelle strade di periferia, nei sottoscala, nei silenzi. Nessuno sapeva chi fosse. Nessuno sapeva cosa stesse succedendo davvero. Ma in questo monologo finale, pronunciato da un giornalista durante un servizio TV, l’intera figura di Enzo viene trasformata in simbolo.
È un passaggio cruciale: l’intimità dell’eroe fallito diventa oggetto di racconto collettivo. Il personaggio borderline diventa leggenda urbana. Ed è in questa tensione tra verità e racconto, tra vita e mito, che si gioca il senso più profondo di queste parole.
MINUTAGGIO: 1:52:00-1:53:00
RUOLO: Giornalista
ATTORE: Adriano Giannini
DOVE: Netflix
ITALIANO
Che cos’è un eroe? E’ un individuo dotato di grande talento e straordinario coraggio. Che sa scegliere il bene al posto del male. Che sacrifica se stesso per salvare gli altri, ma soprattutto, che agisce quando ha tutto da perdere, e nulla da guadagnare. Enzo Ceccotti, era davvero un supereroe, come ama definirlo oggi la gente? I benpensanti commiserano le terre sventurate e bisognose di eroi. Ma la verità è un’altra. La presenza di qualcuno che veglia sulle nostre vite, ravviva la speranza in un futuro migliore. Purtroppo, oggi, questo qualcuno non c’è più. Da Tor Bella Monaca, Roma, è tutto. A voi studio.
"Lo chiamavano Jeeg Robot", diretto da Gabriele Mainetti e uscito nel 2015, è un film italiano che si muove con decisione dentro un genere ancora raro nel nostro cinema: il cinecomic con ambientazione urbana, che però si fonde con il noir, il dramma sociale e un certo senso di grottesco molto romano.
La trama segue Enzo Ceccotti, interpretato da Claudio Santamaria, un ladruncolo solitario e borderline che vive a Tor Bella Monaca, uno dei quartieri più difficili di Roma. Enzo si muove ai margini della legalità, tra piccoli furti, pornografia consumata in solitudine e una vita totalmente chiusa al contatto umano. Non è un antieroe affascinante: è un disadattato. Tutto cambia quando, durante una fuga dalla polizia, Enzo si tuffa nel Tevere e entra in contatto con dei fusti radioattivi. Da quel momento inizia a manifestare una forza sovrumana e una capacità rigenerativa rapidissima. Ma qui viene il primo punto interessante del film: Enzo non ha nessuna intenzione di “diventare” un eroe. Non è Spider-Man che si mette a fare il bene del prossimo. Enzo vuole solo continuare a sopravvivere, possibilmente sfruttando questi poteri per i suoi scopi personali.
Il film lavora bene proprio in questo: l’origine del supereroe viene declinata secondo logiche di quartiere, fatte di cinismo, individualismo e necessità. Il potere non è visto come una responsabilità, ma come un’occasione. L’altro personaggio chiave è Alessia, interpretata da Ilenia Pastorelli. È una ragazza mentalmente fragile, segnata da un passato di abusi, che ha sviluppato un mondo interiore dove si rifugia: quello dell’anime Jeeg Robot d'acciaio. Per lei Enzo non è un delinquente: è Hiroshi Shiba, il protagonista del cartone, il salvatore. Ed è attraverso lo sguardo di Alessia che Enzo comincia, a poco a poco, a trasformarsi. L’idea che possa essere un eroe agli occhi di qualcuno — non in senso generico, ma nel senso intimo e fragile di chi ha bisogno di credere in qualcosa — inizia a scardinare la sua corazza. Il villain, Fabio Cannizzaro detto Lo Zingaro, interpretato da Luca Marinelli, è un personaggio che sembra uscito da un fumetto ma calato perfettamente nella realtà italiana. Ex cantante pop fallito, cocainomane, narcisista patologico e ossessionato dalla fama. Vuole diventare “qualcuno” e per farlo è disposto a tutto, anche a diventare il cattivo da fumetto che devasta la città.
Lo Zingaro è l’opposto di Enzo. Dove Enzo si nasconde, Lo Zingaro vuole essere visto. Dove Enzo è silenzio, Cannizzaro è spettacolo. E nel confronto tra i due c’è anche uno scontro tra due visioni del potere: quello che si consuma nell’ombra e quello che esplode nel desiderio ossessivo di visibilità.
“Che cos’è un eroe? È un individuo dotato di grande talento e straordinario coraggio...” L’apertura è una definizione classica da manuale scolastico, ma volutamente forzata. Il giornalista sembra voler nobilitare ciò che è successo usando un lessico alto, astratto, quasi enfatico. Ma dietro questa retorica, c’è una verità scomoda: Enzo non corrisponde a nessuna di queste definizioni. Non è un individuo “dotato di grande talento”, non è mosso da ideali puri. È uno che si è rotto le ossa per sopravvivere, che ha sbagliato, che ha tentennato, e solo alla fine ha fatto una scelta netta. Eppure, è proprio lì, in quella scelta fatta senza gloria, che sta la sua grandezza.
“Che agisce quando ha tutto da perdere, e nulla da guadagnare.” Questa è la frase più vera del monologo. Qui il giornalista, forse senza nemmeno rendersene conto, centra il punto. Perché Enzo, alla fine del film, decide di affrontare Lo Zingaro non per vendetta, né per ricompensa, né per redimersi davanti al mondo. Lo fa per Alessia. Lo fa perché finalmente ha trovato un legame che ha valore. In questa frase si intravede il confine sottile tra eroismo e umanità quotidiana. L’eroe non è quello che vince. È quello che sceglie, anche quando tutto gli dice di lasciar perdere.
“Enzo Ceccotti, era davvero un supereroe, come ama definirlo oggi la gente?” Qui il tono cambia. Il giornalista non afferma, interroga. E in questa domanda si apre un altro piano del discorso: la distanza tra il mito e la realtà. Enzo è stato davvero un supereroe? No, non in senso letterale. Non ha un costume. Non ha un nome d’arte. Ma nel momento in cui sceglie il sacrificio, lo diventa. La retorica del servizio TV – con le sue frasi costruite e la sua solennità un po’ di plastica – è volutamente in contrasto con la verità sporca, ruvida, vissuta del film. Il giornalista mette in scena la trasformazione dell’uomo in icona. E proprio in questa trasformazione si nasconde un’ambiguità: quanto di ciò che sappiamo su Enzo è vero, e quanto è già leggenda.
“I benpensanti commiserano le terre sventurate e bisognose di eroi. Ma la verità è un’altra…” Questa parte è interessante perché introduce una critica indiretta alla società. Le “terre sventurate” – leggasi: periferie – sono spesso raccontate come luoghi persi, dove la gente ha bisogno di miracoli. Ma il giornalista – o meglio, la sceneggiatura attraverso la sua voce – ci suggerisce un’altra lettura: gli eroi non nascono dove tutto va bene. Nascono dove c’è bisogno. E qui il film chiude il cerchio. Tor Bella Monaca, che era lo scenario del degrado, diventa lo sfondo di una parabola di resistenza e dignità. “La presenza di qualcuno che veglia sulle nostre vite, ravviva la speranza in un futuro migliore. Purtroppo, oggi, questo qualcuno non c’è più. Da Tor Bella Monaca, Roma, è tutto. A voi studio.” Questa è una chiusura perfetta, ma anche cinica. Sembra volerci emozionare, ma lascia un retrogusto amaro. Perché ci ricorda che la TV funziona così: racconta una storia, la chiude in un servizio, e poi passa ad altro. Il tono è grave, ma impersonale. È come se Enzo fosse già diventato un “fatto di cronaca”, una voce fuori campo, un titolo da dimenticare dopo l’edizione serale.
Questo monologo è un commento più ampio sul modo in cui la società costruisce (e consuma) i propri eroi. Lo Zingaro voleva le luci dei riflettori e ha ottenuto la morte. Enzo non voleva niente, e alla fine è lui a essere trasformato in simbolo.
Il film termina con questa tensione irrisolta. E ci lascia con una domanda implicita: abbiamo bisogno di supereroi, o abbiamo bisogno di riconoscere il valore nei gesti silenziosi, nei quartieri dimenticati, nelle persone che scelgono il bene quando nessuno li guarda?
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