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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo di Gianni è uno dei momenti più emblematici de La scuola cattolica, perché racchiude in poche righe l’intera direzione tematica e morale del film. Funziona come apertura narrativa, ma soprattutto come chiave d’accesso per comprendere il punto di vista del protagonista e il contesto in cui tutto prende forma. Il monologo arriva in apertura, come se fosse l’inizio di un lungo racconto-confessione. Non ha la tensione di una dichiarazione solenne, non cerca effetto. È più vicino a una riflessione personale, in cui Gianni – ormai adulto – prova a ripercorrere le origini di qualcosa che è esploso ma che, per molto tempo, è rimasto sotto traccia. E infatti, la frase che apre il monologo è emblematica:
MINUTAGGIO: 00:20 - 4:51
RUOLO: Gianni Guido
ATTORE: Francesco Cavallo
DOVE: Netflix
ITALIANO
Non saprei dire quando tutto è iniziato. Ma quella storia riguardava tutti noi. La nostra educazione, il nostro quartiere, la nostra scuola. Dopo niente sarebbe stato più come prima. Io frequentavo il penultimo anno di Liceo di una scuola privata, con una retta mensile da pagare. Le ragazze non erano ammesse, eravamo tutti maschi, cresciuti in un ambiente residenziale di Roma. Figli di papà insomma. In classe mia c’era Angelo, che era di un anno più grande di noi. E poi Picchiatello, chiamato così perché era molto strano, con una madre attrice sulla quale tutti fantasticavamo. Gioacchino Rummo, forse l’unico a credere realmente nei valori cristiani che i preti cercavano di trasmetterci. Tranne Fratel Curzio, che a guardarlo bene non sembrava neanche un prete. Era il 1975, e la violenza era all’ordine del giorno.
La scuola cattolica è un film italiano del 2021 diretto da Stefano Mordini, tratto dal romanzo omonimo di Edoardo Albinati, vincitore del Premio Strega nel 2016. È un film che cerca di affrontare uno degli episodi più scioccanti della cronaca nera italiana: il massacro del Circeo. Ma lo fa partendo da un altro punto, più sottile e insidioso: il contesto. Siamo nella Roma borghese degli anni ’70. Il protagonista e narratore è Edoardo, un adolescente che frequenta un prestigioso istituto cattolico privato per soli ragazzi, frequentato per lo più da figli di famiglie benestanti, conservatrici e devotamente religiose. Il film si apre con un tono apparentemente quotidiano, quasi da romanzo di formazione: Edoardo racconta la scuola, i professori, i compagni di classe. Ma sin da subito si avverte un’ombra che grava su tutto il racconto. Non è un semplice viaggio nell’adolescenza, ma un'indagine retrospettiva sul seme della violenza.
La storia ruota intorno a tre studenti: Edoardo, e soprattutto Gianni Guido e Angelo Izzo — due ragazzi disturbati, inquieti, provenienti da famiglie dove l’autorità è cieca o assente, e che finiranno per diventare i protagonisti del massacro del Circeo. Quello che il film fa, e su cui insiste, è mostrare come la loro violenza non sia esplosa all’improvviso, ma sia stata nutrita da un contesto fatto di repressione, maschilismo, ipocrisia religiosa, e una cultura dell’impunità.
Man mano che il film procede, il tono cambia. Diventa più cupo, più ossessivo. Si passa da episodi di bullismo e piccoli soprusi tra studenti, a scene sempre più disturbanti che preannunciano ciò che succederà. Non si arriva mai a mostrare esplicitamente il massacro – il film sceglie di non spettacolarizzare – ma tutto converge lì. Edoardo osserva, a volte partecipa, spesso si tira indietro. È un testimone coinvolto ma impotente. La sua voce narrante è fondamentale: è attraverso i suoi occhi che il film costruisce un mosaico di omissioni, silenzi, educazioni sbagliate e complicità diffuse. Questo montaggio temporale permette al film di fare qualcosa di molto interessante: suggerire che la responsabilità non è solo individuale. È diffusa, stratificata, ambientale.
Il monologo è costruito in modo molto efficace. Dopo l’introduzione, si passa a una sorta di “mappa sociologica” del mondo in cui Gianni vive. Parla della scuola, del quartiere, della composizione sociale e psicologica della sua classe. Ogni personaggio citato non è solo un compagno, ma rappresenta un archetipo: Angelo, “di un anno più grande”, è già fuori misura, già ai margini, anche anagraficamente. È uno dei futuri autori del massacro.
Picchiatello, soprannome brutale e infantile, diventa un simbolo di emarginazione interna, di crudeltà inconsapevole tra adolescenti. Il fatto che tutti fantasticassero sulla madre, attrice, è un altro segnale: la figura femminile è ridotta a oggetto di desiderio lontano, mai realmente presente. Gioacchino Rummo, il “credente”, è l’eccezione, e proprio per questo resta isolato. Il film lo posiziona come un residuo di un’educazione cristiana idealizzata, quasi retorica. Fratel Curzio, il prete che “non sembrava neanche un prete”, è un passaggio perfido nella sua ambiguità. Il sistema religioso, che dovrebbe guidare e proteggere, è descritto come ambiguo, svuotato, o addirittura sospetto.
E poi c’è Roma: “ambiente residenziale”, “figli di papà”, “la retta mensile da pagare”. Non sono solo coordinate geografiche o economiche, sono elementi strutturali di una società chiusa, autoreferenziale, dove la ricchezza non educa, ma protegge e nasconde. La scuola, teoricamente luogo di formazione, diventa un luogo di isolamento, in cui l’assenza delle ragazze contribuisce a un’educazione sentimentale distorta, tutta maschile, tutta interna a una bolla. Infine, l’anno: 1975. Il film ci ricorda che è un tempo preciso, connotato da violenza, da instabilità sociale e politica, ma che quella violenza – per questi ragazzi – si manifestava a livello quotidiano. Una violenza non dichiarata, ma presente nei rapporti, nei soprusi, nei silenzi. “La violenza era all’ordine del giorno” non è una frase storica: è un’ammissione.
Questo monologo mette sul tavolo gli elementi, li nomina, li rende visibili. Quello che Gianni fa – e che il film asseconda – è costruire un mosaico fatto di ambienti, relazioni, omissioni. Come se ci dicesse: prima del massacro, c’era un intero sistema di comportamenti, ruoli e convinzioni che ha reso possibile che accadesse.
E questa è la forza di questo passaggio. Ci mette subito in una posizione scomoda: non possiamo limitarci a condannare chi ha commesso il crimine. Dobbiamo interrogarci su tutto il terreno che lo ha preceduto.
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