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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo è un piccolo terremoto dentro Il settimo sigillo. Un momento che fotografa in modo brutale l’angoscia collettiva e il senso di colpa che attraversano il film. Il monologo è pronunciato da un predicatore durante una scena di pubblico sermone, in mezzo a una piazza affollata. Siamo in piena epidemia di peste nera, e la popolazione è in preda al terrore, alla superstizione e alla necessità di dare un senso al caos. In un mondo dove il male dilaga e Dio resta in silenzio, la voce di chi predica – forte, viscerale, violenta – si fa portavoce non solo di una fede fanatica, ma soprattutto del panico collettivo. Bergman usa questo personaggio come strumento drammaturgico per riflettere su una religione che invece di consolare, condanna. È un uso della parola che non salva, ma giudica e annienta. La fede qui non è salvezza, ma un’eco della paura. Ed è proprio su questo che si gioca tutta la forza del monologo.
MINUTAGGIO: -
RUOLO: il Predicatore
DOVE: Amazon Prime Video
ITALIANO
Iddio ci ha puniti e noi periremo tutti. Certo! Periremo tutti appestati! E così giustizia sarà fatta. Voi, là in fondo, che mi guardate come tanti buoi, e voi che sedete laggiù soddisfatti e ben pasciuti come porci, vi rendete conto che questa può essere la vostra ultima ora? La morte avanza. Ecco, vedo il suo teschio dalle vuote occhiaie che vi giunge alle spalle. E la sua falce che si leva e lampeggia terribile al sole. Chi di voi essa colpirà per primo? Te forse, con quello sguardo sperduto, di cui il gelo della morte sembra già essersi impadronito per spegnerlo in una disperata agonia prima di sera. O tu donna! Impudico scrigno di vita e di lussuria! Tu, che forse prima che sorga nuovamente il sole sarai ridotta a marcire. Eh! O tu ancora, ah!, che stai lì con sulla faccia quello stolido sorriso, oh, oh, oh, oh, che diverrà una tragica smorfia. Non vi rendere conto, o disgraziati, che morirete? Se non sarà oggi, sarà domani, o dopodomani! Ma morirete tutti! Perché ormai non c'è più salvezza! È la fine! Preparatevi! Avete sentito? Siete condannati! Condannati tutti!
Parliamo de Il settimo sigillo – uno dei film più emblematici di Ingmar Bergman, uscito nel 1957. Un film che è quasi un dipinto in movimento, costruito come una lunga meditazione sul silenzio di Dio, la paura della morte e la ricerca disperata di senso in un mondo in crisi. Siamo nella Svezia del XIV secolo, flagellata dalla peste. Un'epoca attraversata dal panico collettivo, dalla superstizione, dalla religione usata come bastone più che come conforto. E dentro questo scenario spettrale torna a casa, dopo dieci anni di crociate, il cavaliere Antonius Block, accompagnato dal suo scudiero Jöns.
Appena mette piede sulle coste del suo paese, Block si trova faccia a faccia con la Morte – in carne, ossa e tunica nera. Ma invece di lasciarsi portare via, il cavaliere le propone una partita a scacchi. Lo fa non tanto per salvarsi, quanto per guadagnare tempo. Il tempo necessario a trovare una risposta alla domanda che lo ossessiona: “Dio esiste?”
La partita a scacchi si svolge a tappe, lungo tutto il film. Ogni volta che la Morte ricompare, fanno una mossa, e la vita di Block avanza verso la sua fine. Nel frattempo, attraversano un paesaggio pieno di simboli, incontri e figure che sembrano incarnare diversi modi di affrontare la paura.
Durante il viaggio incontrano:
Jof e Mia, una coppia di attori girovaghi, con il loro bambino. Loro rappresentano una forma di purezza, semplicità e fiducia nel mondo. Jof ha visioni religiose, vede la Madonna, eppure vive nella gioia delle piccole cose.
Una processione di flagellanti, che si percuotono in nome della penitenza. Un’immagine potente dell’auto-punizione come risposta al male.
Una ragazza accusata di stregoneria, condannata al rogo perché si dice abbia causato la peste. Block spera che lei possa almeno avere visto il Diavolo, per confermare che qualcosa oltre il mondo materiale esista. Ma lei non dice nulla.
Il pittore del giudizio universale, che decora le chiese con affreschi apocalittici. Anche qui, arte e religione si fondono in un'unica visione terrificante della salvezza.
Il vero conflitto non è tra vita e morte, ma tra fede e dubbio. Block è stanco, disilluso. Ha combattuto in nome di Dio, ma ora Dio non gli risponde. E quel silenzio pesa più della peste. È un silenzio che non viene mai riempito, nemmeno nel finale. E mentre il cavaliere è sempre più perso nelle sue domande, il suo scudiero Jöns ha un approccio più cinico e diretto alla vita: non crede in Dio, ma agisce con lucidità, a volte con sarcasmo, a volte con brutalità, sempre con una concretezza che fa da contrasto alla disperazione mistica di Block. Quando la partita finisce, la Morte vince. Non c’era mai stata possibilità diversa. Ma Jof e Mia, la piccola famiglia di attori, riescono a sfuggire. Block li ha aiutati, distraendo la Morte quel tanto che basta per lasciarli andare. Forse, in quel gesto, c’è il senso che cercava: non la risposta metafisica, ma l’azione umana, concreta, empatica.
L’ultima scena è forse la più celebre: la Danza della Morte. In lontananza, in controluce, vediamo le sagome dei personaggi presi dalla Morte, che ballano verso l’ignoto. Un’immagine che è diventata simbolo di tutto il film.
Il monologo procede come un’escalation: si apre con una sentenza (“Iddio ci ha puniti”), e prosegue con un crescendo di immagini apocalittiche. Il ritmo si fa più serrato, quasi martellante, con ripetizioni (“morirete tutti!”, “condannati!”), apostrofi dirette e interrogazioni retoriche. Il predicatore non argomenta: accusa. Non cerca il dialogo: sbatte in faccia la condanna. Questo lo rende disturbante, ma anche magnetico. Le metafore sono violente, concrete, corporali. Non si parla dell’anima: si parla di corpi che marciscono, di teschi vuoti, di falcidiati. Il linguaggio è fortemente visivo, teatrale: “scrigno di vita e lussuria”, “tragica smorfia”, “il gelo della morte”. Il predicatore tratta le persone come carne già in decomposizione. Le paragona a buoi, porci, oggetti in balia della peste. È una disumanizzazione feroce, che fa da specchio al modo in cui la religione viene utilizzata nel film: non come redenzione, ma come strumento di controllo attraverso il terrore.
L’interpretazione (soprattutto se si guarda la scena) è quasi da invasato. Il tono è ossessivo, a metà tra la profezia e il fanatismo. Non c’è compassione, ma esaltazione della morte come giustizia divina. Questo è un punto chiave: la peste non è vista come tragedia, ma come punizione meritata. La sofferenza come moneta di scambio per l'espiazione.
Questo monologo è uno dei momenti in cui Bergman mostra quanto la religione, nel contesto storico e narrativo del film, sia diventata un linguaggio del terrore. Il predicatore non salva, non consola, non guida. È solo un megafono del dolore. E più che parlare di Dio, parla della morte. È un grido che rivela tutta la disperazione di un’epoca che non trova più risposte. E in questo senso, è perfettamente coerente con la crisi di fede del protagonista Antonius Block: un uomo che cerca Dio, e trova solo questo – urla, condanne, ossa.
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