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~ LA REDAZIONE DI RC
Il giudice Danforth è l’uomo che rappresenta l’autorità incorruttibile – o meglio, convinta della propria incorruttibilità. A differenza di personaggi più ambigui come Parris o più emotivamente coinvolti come Proctor, Danforth è l’incarnazione della logica autoritaria che domina a Salem: tutto ciò che si oppone alla Corte è, per definizione, sospetto. Questo monologo da “Il Crogiuolo” arriva in un momento di tensione massima: Mary Warren, una delle accusatrici, cambia versione e tenta di denunciare la messinscena orchestrata da Abigail e dalle altre. Ma la reazione di Danforth è rivelatrice: non si apre a un'indagine imparziale, ma rilancia la minaccia.
Bastano loro. Sedetevi, figliuole. La vostra amica Mary Warren ci ha presentato una deposizione nella quale dichiara con giuramento di non aver mai visto spiriti né apparizioni né qualsiasi altra manifestazione del Diavolo. E afferma, inoltre, che neppure voi avreste mai veduto niente di simile. (Breve pausa). Ora, figliuole, questa è una corte di giustizia. La legge, basata sulla Bibbia, e la Bibbia, scritta da Dio Onnipotente, proibiscono le pratiche di stregoneria e condannano a morte i trasgressori. Inoltre, figliuole, la legge e la Bibbia condannano tutti coloro che attestano il falso. (Breve pausa). Non sfuggo al sospetto che questa deposizione possa essere stata redatta per confonderci. Niente di più probabile che Satana voglia servirsi di Mary Warren per distoglierci dal nostro sacro compito. Se così fosse, Mary Warren pagherà con la testa. Ma se Mary dice la verità, vi invito ad abbandonare ogni astuzia e a confessare la vostra colpa poiché soltanto una confessione spontanea e immediata potrà rendere meno grave la vostra posizione. (Pausa). Abigail Williams, alzati.
(Abigail si alza lentamente). C'è qualcosa di vero in tutto questo?
Il crogiuolo (The Crucible) di Arthur Miller è un testo che nasce in un momento preciso della storia americana – gli anni del maccartismo – ma che affonda le sue radici in un altro periodo di paranoia collettiva: i processi alle streghe di Salem, avvenuti nel 1692. Il bello (e il tragico) è proprio questo: Miller prende una vicenda storica ben documentata e la trasforma in un’allegoria della sua epoca, portando in scena non solo il panico morale, ma soprattutto le sue conseguenze umane, politiche e sociali. La storia è ambientata a Salem, una piccola comunità puritana del Massachusetts. Tutto comincia con un evento che, all’apparenza, ha del folkloristico: un gruppo di ragazze viene sorpreso a danzare nel bosco da un reverendo. Alcune di loro, per evitare punizioni, iniziano ad accusare altre persone del villaggio di stregoneria. Sembra un gioco perverso, ma le accuse iniziano a moltiplicarsi, e la macchina giudiziaria – alimentata dalla superstizione, dalla paura e dal desiderio di mantenere l'ordine religioso – comincia a muoversi con forza brutale.
Al centro della vicenda c’è John Proctor, un contadino con un passato difficile: ha avuto una relazione extraconiugale con Abigail Williams, una delle ragazze coinvolte nei riti nel bosco. Abigail è una figura ambigua, che da una parte sembra motivata dalla gelosia e dalla voglia di riconquistare Proctor, e dall’altra incarna il potere distruttivo della menzogna che diventa verità sociale. Quando Abigail accusa la moglie di Proctor, Elizabeth, di stregoneria, è chiaro che le dinamiche personali stanno influenzando direttamente la giustizia.
Quello che segue è una discesa progressiva nell’irrazionalità. Il tribunale diventa un luogo in cui la verità non conta più, ma solo l’apparenza di colpevolezza. Chi confessa viene risparmiato, chi rifiuta viene impiccato. La logica si capovolge: la verità non è ciò che dici, ma ciò che gli altri sono disposti a credere.
Miller costruisce la trama con una precisione quasi chirurgica. Ogni atto stringe il cerchio intorno ai protagonisti, e ogni scena serve a mettere in evidenza come l’ideologia – in questo caso, quella puritana – sia capace di corrodere i rapporti umani. La paura diventa uno strumento di potere. Abigail manipola, ma non è l’unica: anche i giudici, i reverendi, i cittadini comuni partecipano al rito collettivo della colpa.
Proctor è il cuore morale della storia, ma non è un eroe immacolato. È tormentato, contraddittorio, umano. La sua evoluzione è fatta di esitazioni e cadute. Ma proprio per questo, il suo gesto finale – rifiutarsi di firmare una falsa confessione – ha un peso specifico enorme. Decide di morire per salvare la propria integrità, in un contesto in cui la dignità individuale è diventata un lusso.
Sotto la superficie della trama si muovono temi più larghi: la giustizia che diventa vendetta, la religione che si fa potere coercitivo, l’identità che si piega alla pressione sociale. Ma tutto questo passa attraverso una storia personale: quella di un uomo che deve scegliere se salvarsi a costo di mentire o se dire la verità e affrontarne le conseguenze. La tensione tra il pubblico e il privato è costante, e il dramma vive proprio lì: nei dettagli quotidiani, nei dialoghi tra marito e moglie, negli sguardi tra accusatori e accusati.
Questo discorso è un esempio limpido di come Il Crogiuolo lavori sul linguaggio come strumento di dominio. Danforth comincia con un tono apparentemente paterno (“figliuole”), ma è un tono falso, che serve solo a rafforzare la sua posizione di superiorità morale. Le pause che Miller inserisce sono cariche di tensione: ogni sospensione è un momento in cui Danforth controlla la sala, il tempo, la narrativa. “La legge, basata sulla Bibbia, e la Bibbia, scritta da Dio Onnipotente…” Qui Danforth mette in atto un meccanismo tipico delle teocrazie: non esiste distinzione tra peccato e reato. Questo elimina qualsiasi possibilità di dubbio, perché opporsi a una sentenza non significa solo opporsi alla Corte, ma a Dio stesso. Mary Warren, nel tentare di dire la verità, si ritrova schiacciata in una trappola logica. Se mente, è colpevole. Se dice la verità, significa che ha mentito prima – ed è comunque colpevole. Questo è il fulcro del pensiero totalitario che Miller denuncia: la verità non ha spazio, perché è già stata decisa in anticipo.
Danforth cerca conferme. Lo dimostra quando dice: “Niente di più probabile che Satana voglia servirsi di Mary Warren per distoglierci dal nostro sacro compito.” Qui il sospetto diventa prova. Il solo fatto che qualcosa potrebbe essere opera del Diavolo è sufficiente a considerarla tale. E infine, lo smascheramento finale: “C'è qualcosa di vero in tutto questo?” rivolto ad Abigail. Ma non è una vera domanda. È una richiesta di convalida, quasi un rituale. Il giudice non vuole sapere se è vero o no: vuole che la narrazione su cui ha costruito il processo vada avanti.
Danforth è convinto di difendere l’ordine. Ma è proprio questa convinzione che lo rende pericoloso. Il suo monologo mostra come la legge, se guidata da ideologia e dogma, può diventare un’arma. Invece di essere strumento di equità, si fa sistema di controllo.
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