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~ LA REDAZIONE DI RC
Siamo in uno dei momenti più sottili e velenosi di Tin Soldier. Questo monologo di Emmanuel Ashburn (Robert De Niro) è un esempio da manuale di come si può usare una metafora sportiva per parlare di guerra, controllo e minacce personali senza mai alzare la voce. Una lezione di retorica glaciale, ambigua, e che ci dice moltissimo sia sul personaggio sia sulla dinamica psicologica del film.
La scena è una conversazione a due tra Ashburn e Nash (Scott Eastwood). Non c’è enfasi, non c’è tensione esplicita, ma c’è un’atmosfera carica di non detti. Ashburn non è il tipo da urlare: è il funzionario lucido, il veterano del potere, uno che sa benissimo quanto vale una parola messa nel punto giusto.
MINUTAGGIO:20:12-22:01
ATTORE: Robert De Niro
RUOLO: Emmanuel Ashburn
DOVE: Amazon prime Video
INGLESE
Why don't you take a seat. Who's your team? I'm a Phillies guy. I could talk your ear off about Mike Schmidt, Pete Rose, Steve Carlton. But you know who really gets my respect, is the pinch hitter. That's a guy who takes a job that nobody wants. Nobody. I mean, think about it. You're sitting there... daydreaming about what you're gonna order for room service, or the chick you're gonna bring home that night. And then, boom, all of a sudden, a 92-mile-an-hour baseball comes straight at your head, and you got a split second to decide whether it's gonna break or not. Good luck. No one faces longer odds than the man who sat idle on the bench, and all of a sudden is summoned to bat for his team. Evoli. That's your wife, right? What if your wildest dream is true? What if she's still alive there? What a shame it would be if she became another casualty. Things can get pretty ugly on these raids.
ITALIANO
Perché non ti siedi? Per chi tifi? Io tifo per i Phillies. Potrei farti fumare le orecchie parlando di Mike Schmidt, Pete Rose e SteveCarlton. Ma sai veramente chi ha il mio rispetto? Il battitore di riserva. Quello è il tipo che accetta il ruolo che non vuole nessuno. Nessuno. Voglio dire, pensaci un pò: stai seduto a fantasticare su cosa ordinerai al Room service, o sulla ragazza che ti porterai a casa dopo, e poi bom! Improvvisamente ti arriva una palla da baseball a novantadue miglia orarie e hai meno di un secondo per capire se la colpirai o no. Buona fortuna! Nessuno ha meno probabilità di riuscirci di chi se ne era seduto distratto in panchina e all’improvviso è chiamato a battere per la sua squadra. Evoli. E’ tua moglie, giusto? E se il tuo sogno più ardito fosse realtà? Se lei fosse ancora viva? Che peccato che sarebbe se lei diventasse un’altra vittima. Le cose si possono mettere molto male in questi Raid.
Il fulcro narrativo di Tin Soldier è la figura del Bokushi (Jamie Foxx), ex leader militare che ha trasformato la sua esperienza bellica in una sorta di culto personale. Non è un semplice villain da manuale: è carismatico, istruttivo, quasi messianico per i suoi seguaci. Veterani caduti ai margini, traumatizzati e dimenticati dalla società, trovano in lui una guida, un’ideologia, uno scopo. Ma il suo "esercito redento" è, in realtà, una setta militarizzata, con tanto di addestramento, dottrina e rituali. La sua comunità – chiusa, fortificata, impenetrabile – è presentata come una combinazione tra base militare e santuario. E la cosa inquietante è che funziona: l’autorità istituzionale è completamente spiazzata.
Scott Eastwood interpreta Nash Cavanaugh, l’ex pupillo del Bokushi. Il suo personaggio è il vero centro drammatico del film. Nash è stato addestrato dallo stesso uomo che ora deve distruggere, e questa ambivalenza è una delle cose più interessanti del film. Quando il governo, esasperato e incapace di penetrare il culto, decide di ricorrere a metodi disperati, arruola Nash. Ed è qui che entra in gioco il personaggio di Emmanuel Ashburn (Robert De Niro), una figura più fredda, burocratica, ma con il peso di chi ha visto troppi fallimenti. Nash viene quindi mandato in una missione di infiltrazione che è, in fondo, un viaggio a ritroso nella sua stessa identità.
È un film che cerca di parlare della guerra dopo la guerra. Non quella sui campi di battaglia, ma quella che si combatte dentro chi torna a casa. Bokushi e Nash sono due risposte diverse allo stesso trauma: uno costruisce un culto per dare senso al caos, l’altro cerca vendetta per ciò che ha perso. Nessuno dei due è davvero nel giusto.
“Perché non ti siedi? Per chi tifi?”
Apertura da uomo qualunque. Una domanda casuale che serve ad abbassare le difese. La richiesta di sedersi è una falsa cortesia: serve a stabilire che Ashburn ha il controllo della scena. Ti mette a tuo agio solo per affondare meglio il colpo.
“Io tifo per i Phillies. Potrei farti fumare le orecchie parlando di Mike Schmidt, Pete Rose e Steve Carlton.”
Questa parte è quasi teatrale. Ashburn si costruisce l’immagine del vecchio appassionato di sport, quello che sa tutto delle leggende della sua squadra. Ma è una strategia. Sta usando l’aneddoto per creare familiarità, per portare Nash dentro il suo mondo, alle sue regole. E intanto, lo sposta dove vuole lui: lontano dalla rabbia, lontano dal rifiuto.
“Sai veramente chi ha il mio rispetto? Il battitore di riserva.”
Qui cambia tono. Non parla più di miti, ma di ruoli sacrificabili. Il battitore di riserva non è il protagonista, non è l’eroe. È quello che entra all’ultimo momento, spesso senza preparazione, spesso per fallire. Ma è anche quello che, se ce la fa, salva la partita. Ashburn sta chiaramente paragonando Nash a quel tipo di giocatore: uno che nessuno vorrebbe essere, ma che ora è necessario.
Sta dicendo: sei qui perché serve qualcuno che rischi al posto nostro.
“Nessuno ha meno probabilità di riuscirci di chi se ne era seduto distratto in panchina e all’improvviso è chiamato a battere per la sua squadra.”
Una verità amara. Ashburn non sta motivando Nash, lo sta provocando. Gli sta dicendo: nessuno si aspetta che tu ce la faccia. È un colpo basso mascherato da riflessione oggettiva. Serve a mettere pressione, a ricordargli che è solo un pezzo del gioco.
“Evoli. È tua moglie, giusto?”
Cambio secco, chirurgico. Ashburn passa dallo sport alla vita privata con una naturalezza inquietante. Usa il nome della moglie come una lama. Questo passaggio è la conferma: tutto il discorso precedente era una preparazione per arrivare al ricatto emotivo.
“E se il tuo sogno più ardito fosse realtà? Se lei fosse ancora viva?”
Una frase che puzza di speculazione psicologica. Ashburn sta sondando il terreno: vuole vedere fino a che punto Nash è ancora vulnerabile, quanto peso emotivo ha ancora quella ferita. È come gettare esche nel buio e vedere se qualcuno abbocca.
“Che peccato che sarebbe se lei diventasse un’altra vittima. Le cose si possono mettere molto male in questi Raid.”
Ed eccola, la minaccia. Fredda, indiretta, ma inequivocabile. La donna di Nash potrebbe essere viva, ma anche no. In ogni caso, se qualcosa va storto, potrebbe morire. Ashburn usa il linguaggio dell’inevitabilità: non dice che lui la ucciderà, dice che “le cose possono andare male”. Ma lo fa dopo aver evocato volutamente la sua morte. È un abuso psicologico di precisione.
Questo monologo è un perfetto esempio di intimidazione istituzionale mascherata da chiacchiera amichevole. Ashburn incarna il volto più subdolo del potere: quello che ti mette davanti a una scelta solo in apparenza libera, ma che è già stata decisa da altri. Il paragone con il baseball è geniale perché normalizza il sacrificio, lo rende familiare, accettabile. Ma alla fine il discorso non è sullo sport: è sulla guerra, sulla manipolazione, e sull'uso del dolore personale come strumento di comando.
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