Monologo maschile - Toni Servillo in \"Le conseguenze dell'amore\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo è uno dei momenti più carichi di verità nuda in Le conseguenze dell’amore. È come se Titta, per una volta, mettesse via il tono calcolato, i giri di parole, e raccontasse tutto — senza dramma, senza emozione, ma con un’urgenza silenziosa che si sente sotto la pelle. È una vera e propria radiografia di sé stesso, un bilancio esistenziale dove l’uomo elenca i dati della sua vita come fossero numeri su un estratto conto, con la freddezza apparente di chi ormai si è abituato al vuoto. Questa confessione arriva tardi, nel film. E per questo ha un peso diverso. Titta non parla più con la distanza filosofica dei primi monologhi, né con l’ironia misurata di quello sull’eroina. Qui racconta chi è e cosa è stato, senza più bisogno di metafore o costruzioni. È la voce di un uomo che ha smesso di fingere che il suo passato non conti, ma che non si arrende nemmeno del tutto alla disfatta. Il tono è lo stesso di sempre — pacato, quasi monotono — ma le parole sono pesantissime. Questa volta non si nasconde: si espone, e nella sua esposizione c’è un tentativo di riafferrare la propria identità.

Mi chiamo Titta di Girolamo

MINUTAGGIO:

RUOLO: Titta Di Girolamo

ATTORE: Toni Servillo

DOVE: Netflix

ITALIANO

Mi chiamo Titta. Di Girolamo. Da 24 anni, ogni mercoledì mattina, alle dieci, faccio uso regolare di eroina. Non ho mai fatto eccezioni, tranne stasera. Dieci anni fa ero un commercialista, ma un commercialista... Insomma, ero qualcuno nella Borsa, io. Ho negoziato anche l'acquisto di una... petroliera. Mica è facile negoziare l'acquisto di una petroliera. Investivo miliardi. Ho investito anche per Cosa Nostra. Per loro ho investito 250 miliardi, in due ore ne ho persi 220. Ma hanno capito che non me li sono messi in tasca. Mi hanno fatto la grazia e... mi hanno chiuso qua. In questo albergo. Da qua, una o due volte la settimana, trasporto una valigia con dentro milioni di dollari in una banca, ma non sono affiliato a Cosa Nostra. Ho una pistola, ma non l'ho mai usata. Soffro di insonnia. Sono separato da mia moglie da dieci anni. Ho tre figli. Spesso gli telefono, ma non mi vogliono parlare. Domani faccio 50 anni. È il mio compleanno, ma non mi sento stanco.

Le conseguenze dell'amore

Le conseguenze dell’amore (2004) di Paolo Sorrentino è il secondo lungometraggio del regista napoletano e segna l’inizio della collaborazione con Toni Servillo, qui nei panni di Titta Di Girolamo: un uomo qualunque in apparenza, ma in realtà immerso in una vita sospesa, fatta di routine e segreti. Il film è girato quasi interamente in un albergo svizzero, e già questa scelta visiva dice molto: un luogo neutro, anonimo, quasi fuori dal tempo. Titta è un uomo statico. Sta lì, nel salone dell’hotel, sempre allo stesso tavolo, con lo stesso bicchiere, gli stessi gesti. E quella che all’inizio sembra solo noia borghese, un’esistenza grigia, si rivela gradualmente per quello che è: un’esistenza imposta. Titta è un ex broker della finanza caduto in disgrazia, finito a fare da tramite per i soldi della mafia. La sua apatia è una forma di resistenza: non può permettersi desideri, non può affezionarsi a nulla. Ma tutto cambia quando nella sua vita entra Sofia, la barista dell’hotel. Il punto centrale qui è l’impossibilità del cambiamento. O meglio: il cambiamento che arriva troppo tardi, quando l’uomo ha già perso la capacità di muoversi nel mondo come essere umano.

Già in questo film Sorrentino dimostra una firma precisa, che poi diventerà riconoscibile: lunghi piani sequenza, scelte musicali non convenzionali (la colonna sonora elettronica di Pasquale Catalano è parte integrante del tono del film), l’uso della voce off come strumento di introspezione. E poi i vuoti. Quegli spazi ampi, freddi, dove le persone sembrano piccole. La Svizzera, nel film, è perfetta per raccontare questa alienazione: un paese ordinato, ma che sembra finto, come la vita di Titta.

Un dettaglio interessante è l’uso del tempo. Il film non è tanto una storia con un inizio e una fine quanto un’immersione in un presente che si ripete, fino a quando qualcosa lo incrina. E in quell’incrinatura entra la possibilità del sentimento. Ma il punto è: può sopravvivere?

Il titolo è già una chiave di lettura: Le conseguenze dell’amore. Perché l’amore, in questo contesto, non è salvezza. È un cortocircuito. Titta, che ha imparato a non sentire niente per non soffrire, comincia a sentire. E nel momento in cui prova qualcosa, perde tutto.

L’amore è un gesto minimo – lo sguardo con cui osserva Sofia – ma ha un peso devastante. È qui che entra in gioco l’elemento tragico del film: la trasformazione interiore di Titta è il suo stesso destino. Quando finalmente prova qualcosa, non è più in grado di sostenere le conseguenze.

Analisi Monologo

«Mi chiamo Titta. Di Girolamo.»

L’inizio è solenne, ma secco. Nome e cognome. Detto così, senza infiorature, suona come un tentativo di riaffermarsi. Di dire: esisto ancora, anche se mi sono dissolto in questa routine d’albergo, anche se non sono più quello che ero. È quasi un atto di resistenza. Dopo tutta una vita vissuta da ombra, questo è un momento di visibilità. Come chi, prima di sparire del tutto, vuole lasciare un segno.

«Da 24 anni, ogni mercoledì mattina, alle dieci, faccio uso regolare di eroina. Non ho mai fatto eccezioni, tranne stasera.»

La prima frattura. Titta ci ricorda il rituale su cui ha fondato la propria sopravvivenza — l’uso rigidamente controllato dell’eroina — e ci dice che per la prima volta ha infranto la regola. Tranne stasera. C’è un prima e un dopo. Quello che sta accadendo in quel momento è una deviazione dalla norma, e quindi è importante. È il segno che qualcosa in lui si è mosso, che una crepa si è aperta. Magari minuscola, ma irreversibile.

«Dieci anni fa ero un commercialista, ma un commercialista… insomma, ero qualcuno nella Borsa, io.»

Qui c’è uno scivolamento interessante. Parte con una definizione generica — un commercialista — ma poi corregge sé stesso, come se non volesse essere ridotto a una figura comune. Ero qualcuno. Questo bisogno di puntualizzare tradisce un desiderio di riconoscimento che ancora brucia. Non è nostalgia, è bisogno di rivendicare una dignità perduta. Anche se ormai è solo una memoria lontana, Titta vuole essere ricordato — almeno da sé stesso — come uno che ha contato qualcosa.

«Ho negoziato anche l’acquisto di una… petroliera. Mica è facile negoziare l’acquisto di una petroliera.»

Qui entra la nota surreale tipica di Sorrentino. Il dettaglio della petroliera ha una potenza visiva e simbolica fortissima: un oggetto gigantesco, fuori scala, che rappresenta il potere, il rischio, la grandezza e la rovina. È come se Titta dicesse: guardate quanto ero capace. Ma subito dopo, la ripetizione — “Mica è facile” — svela una malinconia sottile. È una battuta da bar detta con l’amarezza di chi non ha più nemmeno un pubblico.

«Per loro ho investito 250 miliardi, in due ore ne ho persi 220. Ma hanno capito che non me li sono messi in tasca. Mi hanno fatto la grazia e... mi hanno chiuso qua.»

Questo è il cuore del racconto. La caduta. La svolta. È il momento in cui la vita di Titta cambia direzione, e lui diventa un prigioniero a cielo aperto. La parola grazia ha un peso enorme: implica un giudizio, una condanna evitata per poco. Ma il prezzo è alto. La vita di Titta da quel momento in poi è una non-vita: sorvegliata, ripetitiva, sospesa. È in questa frase che il film cambia registro: il protagonista, da figura opaca, diventa figura tragica.

«Da qua, una o due volte la settimana, trasporto una valigia con dentro milioni di dollari in una banca, ma non sono affiliato a Cosa Nostra.»

Ancora una volta, la precisazione. Non sono uno di loro. Titta ci tiene a distinguersi, a non essere confuso con chi agisce senza scrupoli. Lui è un tramite. Un sopravvissuto. È dentro il sistema criminale, ma non appartiene a quel mondo. È una differenza sottile, ma per lui è fondamentale. Serve a conservare un frammento di identità, un senso minimo di integrità.

«Ho una pistola, ma non l’ho mai usata. Soffro di insonnia. Sono separato da mia moglie da dieci anni. Ho tre figli. Spesso gli telefono, ma non mi vogliono parlare.»

Qui il tono si abbassa, diventa quasi spoglio. È una lista di fatti, come una cartella clinica esistenziale. Ma è proprio in questa semplicità che colpisce di più. L’arma che non ha mai usato, l’insonnia che corrode, i figli che lo rifiutano… sono tutti dettagli che raccontano l’isolamento, la perdita di relazioni reali. Titta non si lamenta. Riporta. Ma il dolore è tutto lì, nel modo in cui lo fa: senza un briciolo di enfasi.

«Domani faccio 50 anni. È il mio compleanno, ma non mi sento stanco.»

Il finale è quasi beffardo. È una frase che può essere letta in tanti modi. Non si sente stanco, sì — ma neanche vivo. È come se stesse dicendo: sono ancora qui, ma non so più perché. Il compleanno, normalmente occasione di bilanci e celebrazioni, qui è solo un numero. L’unica nota che lo accompagna è questa sensazione ambigua di “non stanchezza”. Che suona più come intorpidimento.

Conclusione

Questo monologo è il punto più vicino che abbiamo alla verità intera di Titta Di Girolamo. È un autoritratto fatto di cronaca, di nomi, date, numeri, episodi precisi. Ma dietro la concretezza dei dettagli c’è una voragine emotiva. Non c’è autoindulgenza, non c’è dramma. Solo la constatazione asciutta di un’esistenza che ha perso senso, ma non del tutto dignità. Titta parla come un contabile della propria rovina, ma in quel parlare c’è un’umanità che non ha mai smesso di pulsare. Non chiede perdono, non cerca redenzione. Sta solo provando, forse per l’ultima volta, a dire: io c’ero.

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