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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo di Hancock è uno dei momenti più intensi del film. Dietro una narrazione apparentemente semplice, c’è il cuore del personaggio: uno smarrimento esistenziale profondo che va ben oltre il “chi sono?”, arrivando a toccare il bisogno umano – quasi disperato – di appartenenza e riconoscimento. Siamo ben lontani dal classico racconto delle origini che conosciamo nei cinecomic. Niente pipistrelli in un vicolo, niente pianeti esplosi, nessuna fuga da laboratori scientifici. Hancock non sa chi è, non ha memoria, non ha passato. Non è nato come simbolo: si è svegliato in un pronto soccorso con la testa spaccata e il cervello vuoto di ricordi. E da lì ha dovuto costruirsi – o meglio, improvvisarsi – una persona. Questo monologo arriva quando Ray cerca di scavare nel passato di Hancock, e lui si apre con un tono che mescola amara ironia e una solitudine palpabile.
MINUTAGGIO: 50:00-52:33
RUOLO: Hancock
ATTORE: Will Smith
DOVE: Netflix
INGLESE
No, man, I'm from Miami. Woke up in a hospital, first thing I remember. Regular old Miami emergency room. My skull was fractured. They told me I tried to stop a mugging. I guess I was a regular guy before... and when I woke up, I was changed. The hospital nurse tried to put a needle in my arm... and it just broke against my skin. And then my skull healed in, like, an hour. The doctors were astounded... and they wanted to know my story. Just like you. But I couldn't tell them. I don't know who I am. Only thing I had in my pocket was... bubble gum... two movie tickets. Boris Karloff, Frankenstein. But no ID, nothing. I went to sign out, the nurse asked me for my John Hancock. I actually thought that's who I was. It was probably in the papers 80 years ago. Oh, I don't age. This is it. Gotta wonder, though: What kind of bastard must I have been... that nobody was there to claim me? I mean, I'm not the most charming guy in the world... so I've been told, but... nobody?
ITALIANO
No, macché, sono di Miami, mi sono svegliato in ospedale, è il mio primo ricordo. Normalissimo pronto soccorso di Miami. Si, avevo il cranio fratturato. Mi hanno detto che ho cercato di impedire un’aggressione. Forse ero uno normale prima e quando mi sono svegliato ero cambiato. In ospedale un’infermiera ha cercato di infilarmi un ago nel braccio e la mia pelle l’ha spaccato. E poi la frattura è guarita in tipo un’ora. I medici erano sbalorditi, e volevano sapere la mia storia. Proprio come te, ma… io non so niente, non so chi sono. Le uniche cose che avevo in tasca erano del chewing gum e due biglietti del cinema. Boris Karloff, sai Frankenstein. Ma… niente documenti, niente… uscendo dovevo firmare e… sul muro c’era un ritratto di John Hancock. La prima firma sulla dichiarazione d’indipendenza e ho pensato di rubargli il nome. Era sui giornali, probabilmente ottant’anni fa…. Ah, io non invecchio, resto sempre così. Però mi sono sempre chiesto… ma che razza di bastardo ero prima? Perché nessuno è venuto a cercarmi? Insomma, non penso di essere l’uomo più piacevole del mondo, così mi dicono, ma… Proprio nessuno…?
“Hancock” è un film del 2008 diretto da Peter Berg, con Will Smith nel ruolo del protagonista. È un film che parte come una sorta di satira sul genere supereroistico, ma poi vira verso un racconto più introspettivo, in cui i toni cambiano gradualmente. E questa evoluzione è uno degli aspetti più discussi e affascinanti del film. La trama si apre con John Hancock, un uomo con poteri da supereroe – può volare, ha una forza sovrumana, è invulnerabile – ma che vive ai margini della società di Los Angeles. È alcolizzato, apatico, scorbutico, e quando si mette in testa di “fare il bene”, finisce per causare danni collaterali enormi: trancia treni, distrugge strade, insulta la gente. Questo approccio, nei primi 30 minuti, è chiaramente in contrasto con l’iconografia classica del supereroe. Hancock è solo, detestato dalla popolazione e soprattutto non ha una vera identità eroica. La domanda implicita è: che senso ha avere dei poteri, se poi sei un disastro come persona?
L’incontro con Ray Embrey (Jason Bateman), un idealista che lavora nel campo delle pubbliche relazioni, cambia le cose. Dopo che Hancock salva Ray da un incidente ferroviario, l’uomo decide di aiutarlo a migliorare la sua immagine. Inizia così una sorta di “riabilitazione supereroica”: Hancock si consegna alla polizia, va in prigione e, gradualmente, riesce a ottenere la simpatia del pubblico. Mary (Charlize Theron), la moglie di Ray, ha da subito una reazione strana verso Hancock. Il motivo si scopre a metà film: anche lei ha poteri, simili ai suoi. Anzi, molto di più: Mary e Hancock sono legati da un passato misterioso, una mitologia che il film accenna ma non esplora fino in fondo.
Scopriamo che i due sono in realtà esseri immortali, creati “a coppie”, e che più stanno vicini, più diventano umani, vulnerabili. Sono stati amanti in passato, ma ogni volta che si riavvicinano, finiscono per indebolirsi. È un legame tragico, fatto di amore che porta distruzione. Questo è il momento in cui il film cambia completamente pelle: da commedia cinica a tragedia quasi mitologica. Hancock decide di allontanarsi da Mary per salvarla e per permetterle di vivere una vita normale con Ray. Il finale, ambientato in un ospedale durante una rapina, mette Hancock davanti alla scelta definitiva: essere un eroe, ma solo. Sopravvive, ma il prezzo è la distanza da chi ama. L’ultima scena lo mostra a New York, solitario ma con un nuovo scopo. Ha accettato il suo ruolo, anche se a costo della felicità personale.
Tutto il monologo è costruito in modo frammentato, proprio come la memoria di Hancock. Si parte da un fatto concreto – il risveglio in ospedale – e si passa a una serie di dettagli minimi: l’ago che si spezza, la ferita che guarisce da sola, il biglietto del cinema con Boris Karloff. C’è qualcosa di profondamente umano e vulnerabile nel modo in cui Hancock racconta questi eventi. È come se stesse cercando di convincere prima sé stesso che l’amnesia ha un senso, che c’è un motivo per tutto, ma sotto c’è la consapevolezza che qualcosa si è rotto in modo irreversibile. Il riferimento a Frankenstein non è casuale. È una citazione quasi nascosta, ma potentissima: Frankenstein non è il mostro, è l’uomo creato senza un’origine propria, rifiutato, confuso, alla ricerca di un’identità e di un posto nel mondo. Hancock si riconosce in quella creatura: potente ma fuori posto, vivo ma senza radici.
Il momento chiave arriva quando dice:
“Però mi sono sempre chiesto… ma che razza di bastardo ero prima? Perché nessuno è venuto a cercarmi?” Qui si apre il vuoto. La domanda non è “chi ero?”, ma “perché nessuno mi ha cercato?”. Questo è il punto dolente: l’idea che, qualunque fosse la sua identità passata, non fosse abbastanza importante per nessuno. Il dolore non è solo nella perdita di sé, ma nel sentirsi irrilevante, abbandonato, invisibile. Anche la scelta del nome – “rubato” a John Hancock, la prima firma sulla Dichiarazione d’Indipendenza – è carica di significato. Non è un nome scelto, ma trovato per caso, un’identità appiccicata come una toppa. Un uomo immortale che non ha lasciato traccia, e che per esistere ha dovuto copiare qualcun altro.
Questo monologo ci restituisce un Hancock completamente spogliato della maschera da antieroe cinico e arrogante. È un uomo spezzato, privo di radici, che non sa da dove viene e – soprattutto – non sa perché non ha nessuno. La forza sovrumana, l’invulnerabilità, l’immortalità… non servono a nulla se non hai qualcuno che ti riconosca, che dica “io ti conosco, tu sei qualcuno per me”.
È proprio questa assenza di connessione a renderlo pericoloso, instabile, distruttivo. Hancock non ha nessuno che gli faccia da specchio, che lo contenga, che gli restituisca un’immagine di sé più umana. E questo lo isola. Non è un eroe incompreso, è un uomo dimenticato.
E, in fondo, questa è una delle cose più devastanti che possano succedere a un essere umano – con o senza superpoteri.
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