Monologo di Mia in Amore a Copenaghen (Netflix): analisi, temi e consigli per audizioni

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~ LA REDAZIONE DI RC

Analisi del monologo di Mia in "Amore a Copenaghen"

Il monologo di Mia in Amore a Copenaghen (Netflix, 2025) è uno dei momenti più intensi del film danese diretto da Ditte Hansen e Louise Mieritz. In poco più di un minuto, la protagonista interpretata da Rosalinde Mynster rivela la propria lotta con l’infertilità, intrecciando vergogna, identità femminile e bisogno di catarsi attraverso la scrittura. Un brano perfetto per audizioni e prove attoriali, grazie al suo equilibrio tra vulnerabilità e controllo emotivo.

  • Scheda del monologo

  • Contesto del film

  • Testo del monologo (estratto+note)

  • Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa

  • Come prepararlo per un'audizione

  • Finale del film (con spoiler)

  • FAQ

  • Credits e dove trovarlo

Scheda del monologo

Film: Amore a Copenaghen (2023) di Ditte Hansen, Louise Mieritz
Personaggio:
Mia
Attrice:
Rosalinde Mynster
Minutaggio:
54:27-55:27

Durata: 1 minuto

Difficoltà Alta. L’attore deve mantenere un equilibrio complesso: la scena è un’intervista pubblica, ma il contenuto è intimo e doloroso. 

Emozioni chiave Vergogna → il corpo vissuto come qualcosa che non risponde, il disgusto verso sé stessa. Lucidità→ Mia sa di cosa sta parlando, non è confusione, è consapevolezza. Vulnerabilità pubblica → l’aprirsi in un contesto in cui non era previsto farlo. Senso di perdita → “Mi sento un po’ meno donna…” è la linea che racchiude il cuore emotivo: non si parla solo di fertilità, ma di identità.

Contesto ideale per un'attriceLaboratorio teatrale: esercizi sul tema della verità scenica, lavorare su “portare in pubblico una confessione privata”. Casting o provino drammatico: ottimo per dimostrare capacità di controllo emotivo, senza ricorrere a lacrime facili.

Dove vederlo: Netflix

Contesto del film "Amore a Copenaghen"

Il film si apre con un incontro che non ha niente di spettacolare: Mia (Rosalinde Mynster), scrittrice affermata, conosce Emil (Joachim Fjelstrup), un padre single. La loro attrazione non è quella del classico “colpo di fulmine” cinematografico, ma un avvicinamento lento, fatto di piccole attenzioni e quotidianità condivisa. C’è una sorta di tenerezza adulta nel loro legame: i due non stanno cercando l’avventura, ma qualcosa che possa trasformarsi in famiglia. Questa normalità è il punto di partenza: il film costruisce il loro rapporto con una naturalezza che sembra quasi disarmante, lontana dagli stereotipi della rom-com. La coppia decide di avere un bambino. È qui che la narrazione prende una piega precisa: non si tratta più di raccontare l’idillio dell’innamoramento, ma la resistenza di una relazione messa alla prova da un desiderio che diventa ossessione. Quando i tentativi naturali falliscono, Mia ed Emil iniziano i trattamenti di fertilità. Il film mostra, senza filtri, come questa scelta li trasformi: il sesso perde leggerezza, i corpi diventano terreni di sperimentazione medica, e la coppia si trova intrappolata in un calendario di ormoni, appuntamenti clinici e rituali artificiali.

Il vero conflitto non è tra i due protagonisti, ma dentro la relazione stessa.
Prima i silenzi erano confortevoli, ora diventano pesanti.


Prima gli abbracci erano spontanei, ora portano con sé il peso della paura di fallire. Mia attraversa fisicamente il percorso più doloroso: il corpo femminile è al centro, mai idealizzato. Lo vediamo gonfiarsi, reagire agli ormoni, cedere alla stanchezza. Emil, invece, vive un senso di impotenza diverso: non può “aiutare” davvero, e questo lo logora. C’è una scena chiave — ripresa dal romanzo — in cui, dopo aver consegnato un campione di sperma alla clinica, Emil si sente ridotto a un gesto meccanico. In un piccolo negozio compra un uccellino di vetro: un oggetto fragile, un portafortuna, ma anche un simbolo della precarietà della loro speranza. Uno degli aspetti più forti di Amore a Copenaghen è il modo in cui mette in scena la fisicità della maternità mancata. Hansen e Mieritz usano una regia asciutta, quasi documentaria, che registra ogni fase del processo: dalle ecografie alle iniezioni, dai dialoghi con i medici ai momenti intimi in cui Mia si specchia e non riconosce più il proprio corpo. La domanda che attraversa il film non è semplicemente “riusciranno ad avere un figlio?”, ma “quanto può resistere l’amore quando diventa subordinato a un obiettivo biologico?”.

Col tempo, le crepe diventano visibili. Non ci sono grandi litigi né scene melodrammatiche, ma uno scivolare lento verso la distanza: parole non dette, desideri repressi, paure che si accumulano. Emil teme di perdere Mia, Mia teme di perdere se stessa dentro un corpo che non “risponde”.

Il film evita il ricatto emotivo dello spettatore: non c’è la promessa di un lieto fine sicuro, ma un racconto che rimane sospeso, come la vita delle coppie che attraversano davvero questi percorsi.

Testo del monologo + note

Io in realtà non ho affatto il blocco dello scrittore. Io scrivo di continuo… il punto è che riesco a scrivere solamente del privato, dei pensieri, o… Si, cose da diario, ecco… Su… Su… su ogni tipo di… disgusto, o vergogna. Si, perché noi siamo… o io sono… siamo tante, penso. E’ quasi un’epidemia. E… molte di noi credono che… che il loro corpo, che… Io racconto delle mie cure per la fertilità. E… ecco, ora l’ho detto. E… quindi uso la scrittura per elaborare i pensieri tristi e il disgusto che provo verso me stessa, perché… Mi sento un pò meno donna, non riuscendo ad essere mamma. Si, dicevo poco fa che è una sorta di diario con cose private, e anche un pò lamentoso. E anche un pò troppo cupo, credo, paragonato a quello che scrivo di solito. 

“Io in realtà non ho affatto il blocco dello scrittore. Io scrivo di continuo…” → tono sicuro solo in apparenza, voce leggermente accelerata; come a giustificarsi

.

“… il punto è che riesco a scrivere solamente del privato, dei pensieri, o…” → rallentamento; lo sguardo si sposta verso il basso, come se stesse scegliendo con

cautela le parole.

“Si, cose da diario, ecco…” → micro-sorriso di autoironia; pausa breve dopo “ecco”, quasi a chiudere un pensiero scomodo.

“Su… Su… su ogni tipo di… disgusto, o vergogna.” → esitazioni reali: i “su…” non vanno recitati fluidi, ma vissuti come blocchi mentali; tono più basso su “vergogna”.

“Si, perché noi siamo… o io sono… siamo tante, penso.” → incertezza marcata; piccola correzione (“o io sono”) detta con voce incrinata; lo sguardo cerca conferma esterna.

“E’ quasi un’epidemia.” → breve crescendo; come se trovasse una definizione più grande del previsto; pausa dopo la frase.

“E… molte di noi credono che… che il loro corpo, che…” → interruzione brusca; silenzio come se fosse difficile completare la frase; occhi che cercano un punto fisso.

“Io racconto delle mie cure per la fertilità. E… ecco, ora l’ho detto.” → “Io racconto…” detto con voce piatta, quasi clinica; poi micro-sospiro prima di “ora l’ho detto”, come se fosse una liberazione.

“E… quindi uso la scrittura per elaborare i pensieri tristi e il disgusto che provo verso me stessa, perché…” → ritmo lento, voce che cala progressivamente; “disgusto” accentuato ma senza enfasi teatrale, come se le facesse male pronunciarlo.

“Mi sento un pò meno donna, non riuscendo ad essere mamma.” → frase cardine; tono più fermo ma spezzato da un’emozione trattenuta; sguardo verso l’intervistatore, poi immediatamente abbassato.

“Si, dicevo poco fa che è una sorta di diario con cose private, e anche un pò lamentoso.” → ritorno a un tono quasi giustificativo; sorriso amaro, come per ridimensionare ciò che ha appena confessato.

“E anche un pò troppo cupo, credo, paragonato a quello che scrivo di solito.”

→ voce più bassa, come se stesse concludendo; lasciar cadere l’ultima parola senza forzarla, con uno stacco netto.

Come renderlo autentico

Alternare esitazioni reali e frasi nette: il monologo è fatto di interruzioni, autocorrezioni, piccoli silenzi che vanno vissuti come pensiero in tempo reale.

Intonazione: partire con un tono quasi professionale, poi gradualmente più fragile e intimo.

Pause: i “su…” e i “…” non sono tecnici, ma riflesso di un blocco interiore; devono sembrare inevitabili.

Sguardo: oscillare tra l’intervistatore (quando cerca conferma) e il basso (quando si vergogna).

Sottotesto: ogni battuta è un tentativo di ammettere pubblicamente ciò che non riesce ad accettare in privato — “non riuscendo ad essere mamma” è la confessione centrale, tutto il resto la prepara.

Corpo: nessun gesto eclatante, ma piccole chiusure (mani che si stringono, postura che si incurva leggermente); alla chiusa, un silenzio lasciato sospeso.

Di cosa parla il monologo di Mia in "Amore a Copenaghen"

Il monologo di Mia (interpretata da Rosalinde Mynster) si concentra sul rapporto tra scrittura, corpo femminile e infertilità. Durante un’intervista, la protagonista abbandona la facciata professionale e confessa pubblicamente le sue difficoltà con i trattamenti di fertilità.

È un momento chiave del film diretto da Ditte Hansen e Louise Mieritz, perché mette a nudo la fragilità identitaria della protagonista.

TEMI PRINCIPALI DEL MONOLOGO

Blocco creativo apparente → Mia non smette di scrivere, ma riesce solo a produrre testi privati, simili a un diario.

Vergogna e disgusto → il corpo che non riesce a generare vita diventa fonte di dolore.

Infertilità e identità → “Mi sento un po’ meno donna” è la frase che racchiude il conflitto centrale.
Scrittura come catarsi → la pagina diventa lo spazio per elaborare fallimenti e pensieri cupi.
Confessione pubblica → in un contesto di intervista, Mia rivela un segreto intimo, rompendo un tabù.

FUNZIONE NARRATIVA

Il monologo segna una svolta emotiva nella trama di Amore a Copenaghen. Sposta il conflitto dall’intimità di coppia alla dimensione sociale. Mostra come il dolore privato diventi racconto condiviso. Porta il tema dell’infertilità e della femminilità al centro della narrazione.

FRASI CHIAVE DEL MONOLOGO

“Io racconto delle mie cure per la fertilità. E… ecco, ora l’ho detto.” → ammissione pubblica.

“Mi sento un po’ meno donna, non riuscendo ad essere mamma.” → cuore drammatico e identitario.

“Uso la scrittura per elaborare i pensieri tristi e il disgusto verso me stessa.” → funzione catartica della scrittura.

Come preparare il monologo di Mia (Amore a Copenaghen) per un’audizione

STEP PRATICI PER IL MONOLOGO ED ERRORI DA EVITARE

Obiettivo del monologo Trasmettere la fragilità di una donna che, dietro l’apparente sicurezza, rivela la propria lotta contro l’infertilità e il senso di vergogna. Non è un lamento, ma una confessione che prende forma davanti a un pubblico.

Sottotesto “Non sto parlando ai giornalisti, sto parlando a me stessa.” Ogni frase è un tentativo di legittimare il mio dolore. Il vero pensiero nascosto: “Ho paura di non essere abbastanza come donna e come compagna.”

Azione minima Mani intrecciate o appoggiate, piccoli gesti nervosi (sfiorarsi le dita, giocherellare con un oggetto). Evitare gestualità ampie: la potenza sta nella chiusura del corpo. Uno o due sguardi diretti verso l’interlocutore, subito ritratti.

Dinamica vocale

Inizio: tono quasi giornalistico, con ritmo controllato.
Progressione: frasi spezzate, esitazioni reali (“su… su… su…”).
Culmine: abbassare la voce su “Mi sento un po’ meno donna…”, lasciando spazio al silenzio.
Finale: chiusura smorzata, senza enfasi, come se la voce si consumasse.

Chiusa Dopo l’ultima battuta (“paragonato a quello che scrivo di solito”), mantenere un micro-silenzio. Sguardo basso o laterale, per comunicare pudore. Nessun tentativo di “salvare” il momento: la forza è lasciare l’imbarazzo sospeso.

Errori comuni

Forzare il pianto: il monologo non è scritto per lacrime plateali, ma per rivelare una fragilità trattenuta.
Recitare i silenzi come artificio: i “…” e i “su…” devono sembrare blocchi reali di pensiero, non pause impostate.
Esagerare i gesti: qui vince la sottrazione, non l’enfasi fisica.
Dare un tono “eroico” alla confessione: in realtà Mia si percepisce minore, non grande.

Il finale del film "Amore a Copenaghen"(Spoiler alert)

Dopo una lunga serie di tentativi falliti, Mia ed Emil si trovano davanti alla possibilità di interrompere il percorso di fertilità. La pressione medica, i fallimenti e la distanza emotiva hanno eroso la loro relazione. In una delle ultime scene, Mia riceve la notizia che l’ennesimo ciclo non è andato a buon fine. È sera, rientra a casa e trova Emil addormentato sul divano, con l’uccellino di vetro — comprato all’inizio del percorso — appoggiato sul tavolo. Quel piccolo oggetto diventa il simbolo della loro storia: fragile, ma ancora intatto.

Mia si siede accanto a lui e lo osserva a lungo. Non ci sono grandi dichiarazioni né promesse: solo un silenzio condiviso, che lascia intuire una scelta difficile. La coppia non ha ottenuto il figlio che desiderava, ma decide di rimanere insieme, anche se il loro futuro resta incerto. Il film si chiude con un’inquadratura di Mia che guarda fuori dalla finestra verso Copenaghen, il volto segnato dalla stanchezza ma con un accenno di serenità. La regia lascia volutamente aperto il finale: non c’è lieto fine classico, ma la sensazione che l’amore — pur ferito — abbia trovato una forma di sopravvivenza oltre l’idea di genitorialità.

FAQ

  • Quanto dura il monologo? Il monologo dura circa un minuto (54:27 – 55:27) nel film Netflix Amore a Copenaghen (2025).

  • Che temi tratta? Affronta infertilità, identità femminile, vergogna del corpo e scrittura come catarsi. È una confessione intima resa pubblica.

  • È adatto a un’audizione? Sì, è ideale per un’audizione che richiede verità scenica e capacità di gestire pause naturali e vulnerabilità senza eccessi melodrammatici.

  • Che età di casting copre? È più adatto ad attrici tra i 30 e i 40 anni, fascia che meglio rispecchia il personaggio di Mia, scrittrice adulta alle prese con il desiderio di maternità.

  • Qual è la difficoltà interpretativa? Alta: bisogna mantenere il tono intimo, evitare il pathos esagerato e rendere autentiche esitazioni e silenzi.

  • Qual è la frase chiave del monologo?Mi sento un po’ meno donna, non riuscendo ad essere mamma.” → è il cuore emotivo e identitario del brano.

  • Quali errori evitare? Forzare il pianto. Recitare le pause in modo artificiale. Usare gesti eccessivi. Trasformare la confessione in un discorso eroico.

  • Per quali esercizi è utile questo monologo? Lavoro sul sottotesto (pensieri nascosti dietro le parole). Allenamento sulle pause come riflesso di un blocco emotivo. 

  • In quale contesto usarlo? Perfetto per: Provini drammatici contemporanei. Accademie di recitazione (esercizi sulla verità scenica). Laboratori teatrali sul tema della vulnerabilità.

Credits e dove vederlo

Regia: Ditte Hansen, Louise Mieritz

Sceneggiatura: Ditte Hansen, Louise Mieritz

Produttori: Jonas Allen, Charlotte Buch, Louise Birk Hastrup, Jenny Mattesen, Mikael Olsen

Cast principale: Joachim Fjelstrup (Emil) Rosalinde Mynster (Mia) Sara Fanta Traore (Gro) Magnus Millang (Simon) Mille Lehfeldt (Rikke)

Montaggio: Viola Frederikke Lindkvist Hjorth, Peter Winther

Colonna sonora / Musica: Jomi Massage

Direttore della Fotografia: Mia Mai Dengsø Graabæk

Dove vederlo: Netflix

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