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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Perempuam in "Il Buco - Capitolo 2" mette in luce una riflessione cruda e complessa sull'arte, la responsabilità personale e il successo. La protagonista racconta come una sua scultura, simbolo di brutalità animale, abbia causato la tragica morte di un bambino, un evento che paradossalmente ha spinto la sua carriera artistica a nuovi livelli di fama e prestigio. La narrazione, fredda e distaccata, invita lo spettatore a riflettere su questioni morali, etiche e sul valore dell'arte in relazione alla vita umana.
MINUTAGGIO: 1:10:36-1;16:30
RUOLO: Perempuam
ATTRICE: Milena Smit
DOVE: Netflix
INGLESE
Coming Soon :)
ITALIANO
Dopo tanti anni di duro lavoro era arrivata la mia grande notte. Era la mia quarta esposizione. La condividevo con artisti molto importanti. Io partecipavo con una serie di sculture che rappresentavano la brutalità animale. C'era anche il mio fidanzato, aveva portato suo figlio per farmelo conoscere e... ecco... i bambini non stanno mai fermi. O almeno non quello. Una delle opere era un cane bestiale, crudele, atroce, gli artigli erano coltelli affilati rivolti verso lo spettatore. Mi avevano detto che era pericoloso, ma per me quel pericolo, quell'ardore erano ciò che lo rendevano davvero speciale. Mi sono rifiutata di far mettere un perimetro di sicurezza. Il bambino non smetteva di correre, e poi è inciampato. Uno degli artigli, uno dei coltelli... gli è entrato in un occhio. Mi piace pensare che non abbia sofferto. Che sia morto sul colpo. Gli avvocati hanno fatto un buon lavoro. Il giudice ha sentenziato che è stato un incidente; l'Assicurazione ha pensato al resto. E io sono diventata una degli artisti più valutati della mia generazione. Tutte le mie opere sulla brutalità animale sono state vendute per milioni. Specialmente quella del cane. Mi avevano detto che il cane era pericoloso. Ma io ho continuato lo stesso. Se potessi tornare indietro, per salvarlo...
"Il Buco" (titolo originale: El Hoyo) è un film spagnolo del 2019 diretto da Galder Gaztelu-Urrutia, distribuito globalmente da Netflix. È un thriller distopico con elementi di horror, intriso di una potente allegoria sociale. Ambientato in una prigione verticale a più livelli, il film esplora temi di ingiustizia, avidità, sopravvivenza e disuguaglianza, con un'estetica minimalista ma incisiva.
La prigione in cui si svolge la storia è chiamata "Il Buco" ed è una struttura verticale con centinaia di piani. Al centro della prigione c'è una piattaforma che, partendo dal piano più alto, scende attraverso ogni livello una volta al giorno, portando cibo per i prigionieri. Ma la quantità di cibo è limitata e i prigionieri ai piani inferiori ricevono solo ciò che rimane dai livelli superiori, creando un sistema gerarchico brutale dove chi sta in alto mangia abbondantemente, mentre chi sta in basso deve lottare per la sopravvivenza con le briciole rimaste.
Il protagonista, Goreng, si risveglia su uno di questi livelli e scopre presto che ogni mese i prigionieri vengono trasferiti casualmente a nuovi piani. A seconda del piano in cui ci si trova, si può vivere un mese in relativa agiatezza o in una fame disperata. Il film segue il suo tentativo di navigare questa struttura disumana, mentre medita su temi etici e morali. Il film contiene anche molteplici riferimenti religiosi, in particolare alla parabola cristiana del sacrificio. Una delle caratteristiche più angoscianti del film è la ripetitività. Ogni mese, i prigionieri sono spostati a nuovi livelli, e il ciclo ricomincia.
IL BUCO - CAPITOLO 2
"Il Buco - Capitolo 2" è il sequel, disponibile su Netflix dal 4 ottobre 2024. Il film riprende l'ambientazione della prigione verticale, ma introduce nuovi personaggi e dinamiche più complesse.
In questo secondo capitolo, un misterioso leader ha imposto una nuova legge all'interno del "Buco", cercando di rendere il sistema più "giusto", con l'obiettivo di redistribuire il cibo in modo equo tra tutti i livelli della prigione. Ma la brutalità del sistema persiste, con regole ancora più spietate: chi mangia dal piatto sbagliato può essere condannato a morte. La protagonista, una nuova detenuta interpretata da Milena Smit, si unisce a un gruppo di ribelli che cercano di rovesciare il leader e interrompere questo ciclo di violenza.
Perempuam riflette su come l'arte e il successo siano stati ottenuti a scapito della vita di un bambino. Nonostante la tragedia, il suo nome è cresciuto e le sue opere sono diventate incredibilmente preziose. C'è una forte critica qui alla mercificazione dell'arte e al modo in cui eventi tragici possano trasformarsi in opportunità di fama e guadagno, sollevando questioni etiche e morali sul valore dell'arte rispetto alla vita umana.
Il monologo esplora la tematica della responsabilità. La protagonista è chiaramente consapevole del pericolo rappresentato dalla sua scultura, ma sceglie di ignorarlo, guidata dalla convinzione che l'elemento del pericolo sia parte integrante dell'opera. Dopo l'incidente, la sua posizione legale è protetta, ma l’ambiguità morale rimane: è lei la vera responsabile della morte del bambino? La sua freddezza nel raccontare i fatti, senza pentimento immediato, apre a riflessioni sul senso di colpa e sull'autoassoluzione. Le sue opere rappresentano la brutalità animale, ma questa brutalità si riflette anche nell'evento stesso. La scultura, nata per rappresentare la ferocia animale, diventa ironicamente un simbolo della ferocia umana, del nostro modo di perseguire la grandezza e il successo anche a costo di vite innocenti.
La menzione degli avvocati e della sentenza che riduce l’incidente a una fatalità legale evidenzia una critica al sistema giudiziario e al modo in cui il potere e il denaro possono risolvere situazioni tragiche senza conseguenze reali per chi è coinvolto. Anche la frase “gli avvocati hanno fatto un buon lavoro” sottolinea la freddezza della protagonista e la sua insensibilità rispetto alla tragedia, mostrando come la legge possa, in certi casi, occultare la verità morale.
La narrazione in prima persona ha un tono distaccato, quasi clinico, che accentua l’orrore della situazione. La protagonista sembra riconoscere la tragicità dell'evento solo in modo superficiale, come se fosse un episodio marginale rispetto alla sua carriera artistica. La struttura ricorda quasi una confessione, ma senza il pentimento che ci si potrebbe aspettare. Questo fa emergere un contrasto tra l'intensità del dolore dell'evento e la freddezza della narrazione.
L'ultimo pensiero della protagonista — "Se potessi tornare indietro, per salvarlo..." — introduce un barlume di rimorso, ma rimane sospeso e ambiguo. Non sappiamo se questo pensiero è sincero o se è solo un tentativo tardivo di cercare una forma di redenzione. L’assenza di una vera e propria riflessione emotiva rende il monologo ancora più inquietante, rafforzando l'immagine di un’artista consumata dal successo a tal punto da non essere in grado di provare empatia o rimorso profondo.
Il monologo termina con una riflessione sospesa sul rimorso della protagonista, che, nonostante il suo successo, lascia intravedere un possibile rimpianto per l'incidente accaduto. Ma questa riflessione appare tardiva e ambiguamente sincera, alimentando il dubbio se si tratti di un pentimento reale o di una consapevolezza razionale, priva di vero dolore.
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