Monologo di Molly in Goodbye June: il chiarimento con Julia

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~ LA REDAZIONE DI RC

Analisi della lettera di Molly in "Goodbye June"

Il monologo di Molly in Goodbye June è uno dei momenti più delicati e autentici del film, perché racconta la riconciliazione non come soluzione, ma come atto di verità emotiva. In questa scena, Molly affronta la sorella Julia senza accusarla davvero, lasciando emergere anni di amore, invidia, senso di abbandono e vergogna mai elaborati. 

  • Scheda del monologo

  • Contesto del film

  • Testo del monologo (estratto+note)

  • Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa

  • Finale del film (con spoiler)

  • Credits e dove trovarlo

Scheda del monologo

Serie: Goodbye June
Personaggio: Molly
Attrice: Andrea Riseborough

Minutaggio: 1:13:58-1:15:58

Durata: 2 minuti

Difficoltà: 8/10 gestione dell’ambivalenza + memoria emotiva + controllo del ritmo

Emozioni chiave Invidia infantile, abbandono, rabbia trattenuta, vergogna, senso di inferiorità, amore non risolto

Contesto ideale per un attore drammi familiari, ruoli di sorelle / figli adulti

Dove vederlo: Netflix

Contesto di "Goodbye June"

Il film si apre in una mattina d’inverno. Una coppia di anziani si prepara per andare a dormire. L’uomo si allontana un attimo, mentre la donna crolla improvvisamente sul pavimento della cucina. Il bollitore continua a fischiare, unico suono in una casa ormai sospesa. Il figlio, svegliato dal rumore, accorre e capisce subito che qualcosa non va. La donna viene portata d’urgenza in ospedale. Parallelamente, il racconto introduce gli altri membri della famiglia, ognuno immerso nella propria quotidianità: Jules, madre di tre figli, impegnata a gestire la routine tra scuola, spettacoli natalizi e un figlio più piccolo con un ritardo cognitivo; Molly, ossessivamente attenta all’alimentazione biologica del figlio Tibalt; e Connor, il figlio maschio, che cerca di tenere insieme i pezzi di una famiglia già fragile. Un’altra sorella, Helen, è inizialmente irraggiungibile, impegnata in pratiche olistiche lontane dal contesto familiare.

Quando la notizia arriva, capiamo subito che non è la prima volta: June combatte contro il cancro da tre anni. Le reazioni dei figli non sono di panico, ma di stanchezza emotiva. In sala d’attesa emergono vecchie tensioni, soprattutto tra le sorelle, che si salutano con la distanza di due estranee. L’aria è tesa, carica di non detti. La diagnosi è definitiva: June si è ripresa dall’episodio acuto, ma il tumore è ormai fuori controllo. Non esistono più cure efficaci. Le restano poche settimane di vita, che trascorrerà in ospedale. Molly esplode in un attacco nervoso contro un medico per un gesto insignificante, segno di un dolore che non trova sfogo. Rimasti soli, i figli iniziano a rinfacciarsi colpe e assenze, rivelando ferite familiari mai rimarginate.

Quando finalmente si riuniscono attorno al letto di June, la donna è vigile, lucida a tratti, e sorprendentemente ironica. Racconta la sensazione di mancanza d’aria provata quella mattina e propone, con una leggerezza spiazzante, di “fare l’oca” per Natale. Nessuno ha il coraggio di dirle la verità sulla diagnosi. Entrano in scena le cure palliative e due giovani inservienti, Julia e Patrick, che rivelano come June avesse già pianificato tutto con loro. Molly però tenta di controllare ogni decisione, convinta di sapere cosa sia giusto per la madre. Il conflitto tra le figlie diventa sempre più evidente, soprattutto con Jules, accusata persino di indossare l’anello della madre, affidatole proprio da June.

Helen arriva infine, incinta. La sua gravidanza apre un nuovo livello emotivo: la consapevolezza che il figlio nascerà senza nonna. In un momento di fragilità, Helen confessa di essersi separata dal compagno e di aver concepito il bambino tramite una procedura legale con un donatore, scelta che la fa sentire giudicata e inadeguata. Intanto Connor, sopraffatto dall’ansia, si rifugia nella chiesa dell’ospedale, dove incontra Angeli Ikande, l’infermiere che segue June. Angeli racconta di aver perso sua madre da bambino e di aver dedicato la vita a dare dignità alle persone nel momento della morte. Il suo sguardo esterno diventa una guida silenziosa per la famiglia.

La situazione domestica precipita quando la casa dei genitori viene allagata a causa di una distrazione del padre, Bernard, sempre più disorientato e incline a bere. Anche lui sta vivendo il lutto prima della perdita, senza sapere come gestirlo. Nei giorni successivi, tra visite, piccoli regali e tentativi maldestri di normalità, June affronta il dolore fisico con lucidità. In uno dei momenti più delicati, chiede a Jules di dirle la verità: morirà? Jules non mente. June si commuove, poi chiede semplicemente di stare insieme. Le chiede anche se la odierà dopo la sua morte. È una domanda che pesa più di qualunque diagnosi.

Testo del monologo + note

Volevo essere proprio come te da piccola, Jules. Avrei fatto qualunque cosa mi chiedessi. Volevo vestirmi come te, bere quei tuoi frullati con due cannucce, stesse patatine porca troia. Chiesi un cazzo di criceto perché te l’avevano regalato, e io odio i criceti. Avevo 13 anni quando andasti via, e ti ho odiata da quel giorno. Ti ho odiata tantissimo, perché amavo averti lì con me. E non venivi a trovarci spesso, mi sembrava di non vederti mai. Credo di essermi sentita abbandonata. Poi tu sei diventata una persona di successo, mentre io continuavo a frugare dietro il divano in cerca di qualche spicciolo. Ti rendi conto di come mi abbia fatto impazzire? E hai sempre avuto capelli perfetti, cazzo, era insopportabile. E poi hai Tom. E’ perfetto, Tom. Conoscevo da poco Jerry e rimasi incinta. Ero circa alla ventiduesima settimana quando l’ho scoperto. E’ incredibile che Syd sia sana, dico davvero. Non facevo altro che… fumare erba e bere vodka. 

“Volevo essere proprio come te da piccola, Jules.”: attacco morbido, quasi nostalgico; chiamala “Jules” come un gesto di ritorno all’infanzia; sguardo che cerca contatto ma si ferma un attimo prima, per paura di essere respinta.

“Avrei fatto qualunque cosa mi chiedessi.”: ammissione senza orgoglio, più vulnerabile che adorante; micro-pausa dopo “qualunque cosa”; voce più bassa, come se stesse confessando qualcosa di “troppo”.

“Volevo vestirmi come te, bere quei tuoi frullati con due cannucce, stesse patatine porca troia.”: accelera leggermente sull’elenco, come ricordi che escono da soli; “due cannucce” è un dettaglio tenero, sorriso minuscolo e subito spento; “porca troia” non è aggressione, è una valvola per non piangere.

“Chiesi un cazzo di criceto perché te l’avevano regalato, e io odio i criceti.”: qui entra il comico amaro; breve risata secca (una sola, strozzata) o un soffio dal naso; su “odio i criceti” fai un mezzo shrug, come a dire: guarda quanto ero disperata di assomigliarti.

“Avevo 13 anni quando andasti via, e ti ho odiata da quel giorno.”: cambio netto di temperatura; rallenta; “13 anni” deve pesare (è l’età della frattura); dopo “andasti via” lascia un vuoto breve, come se rivedesse la scena; lo sguardo si sposta di lato, non regge Julia.

“Ti ho odiata tantissimo, perché amavo averti lì con me.””: frase-chiave: non gridarla; dilla con lucidità dolorosa; pausa dopo “tantissimo” per far entrare la contraddizione; su “amavo” la voce si incrina appena, ma non cedere al pianto: è una verità detta finalmente, non una richiesta di conforto.

“E non venivi a trovarci spesso, mi sembrava di non vederti mai.”: tono più “pratico”, quasi contabile; qui Molly prova a rendere oggettivo il dolore; “mi sembrava” va detto come un’auto-correzione (non voglio esagerare… ma sì, era così); sguardo torna su Julia, più diretto.

“Credo di essermi sentita abbandonata.”: abbassa la difesa; “credo” è una protezione, dillo come se stesse testando la parola; pausa dopo “sentita”; “abbandonata” va quasi sussurrata, con un respiro che si sente.

“Poi tu sei diventata una persona di successo, mentre io continuavo a frugare dietro il divano in cerca di qualche spicciolo.”: immagine concreta, umiliante; raccontala senza vittimismo, come una cronaca; su “dietro il divano” accenna un gesto minimo della mano, come se toccasse quel punto; la vergogna deve stare sotto, non sopra.

“Ti rendi conto di come mi abbia fatto impazzire?”: non è una domanda: è una richiesta di essere vista; qui lo sguardo deve inchiodare Julia; pausa prima di “impazzire”; “impazzire” non è isteria, è esaurimento.

“E hai sempre avuto capelli perfetti, cazzo, era insopportabile.”: torna l’ironia velenosa, ma con affetto storto; “capelli perfetti” è un simbolo (ordine, controllo, facilità); “cazzo” serve a non sembrare patetica; “insopportabile” va detto con un mezzo sorriso che fa male.

“E poi hai Tom.”: colpo corto; qui il ritmo si spezza; guarda Tom (se presente) solo per un istante, poi torna su Julia; è la prova vivente di una vita “riuscita”.

“E’ perfetto, Tom.”: dillo piano, quasi con resa; “perfetto” non è vero, è percepito; piccola pausa dopo “perfetto”, come se si mordesse la lingua per non aggiungere altro.

“Conoscevo da poco Jerry e rimasi incinta.”: qui entra la confessione nuda; via ogni sarcasmo; voce più bassa, più semplice; lo sguardo cade giù: non vuole essere giudicata mentre lo dice.

“Ero circa alla ventiduesima settimana quando l’ho scoperto.”: lascia che il numero faccia paura; micro-pausa dopo “ventiduesima settimana”; su “quando l’ho scoperto” mostra incredulità verso te stessa, come se ancora non ci credesse.

“E’ incredibile che Syd sia sana, dico davvero.”: qui c’è tenerezza + colpa; “Syd” va detto con amore immediato; “dico davvero” è un’ancora, un tentativo di non crollare; un respiro più profondo prima della frase successiva.

“Non facevo altro che… fumare erba e bere vodka.”: l’ellissi è tutto: fermati davvero su quei tre puntini; lascia che la vergogna passi negli occhi prima delle parole; “fumare erba” e “bere vodka” non vanno sparati: vanno detti come cose che non riesce a perdonarsi; chiusura senza conclusione, come se il resto lo conoscessero già.

Analisi del monologo di Molly in "Goodbye June"

Il monologo di Molly non nasce come atto di accusa, ma come cedimento. È una resa emotiva che arriva solo quando tutte le difese sono ormai inutili, favorita dall’intervento silenzioso della madre che crea lo spazio per una verità non più rimandabile. Molly non parla per ferire Julia, ma per spiegare a se stessa una frattura che l’ha definita per anni.

L’apertura è infantile, quasi tenera: il desiderio di essere “come te” racconta un’ammirazione assoluta, non ancora corrotta dalla rabbia. I dettagli concreti, i vestiti, i frullati, le patatine, non sono nostalgia decorativa, ma prove fisiche di un’identità costruita per riflesso. Molly non stava cercando se stessa, stava cercando Julia. Anche l’episodio del criceto, apparentemente comico, rivela una dinamica dolorosa: il bisogno di imitare arriva fino all’auto-negazione. L’ironia serve a non crollare, non a far ridere.

Il passaggio cruciale arriva con l’età: “avevo 13 anni”. Non è un numero casuale, è l’età della formazione emotiva, del primo abbandono consapevole. Da qui in poi il monologo cambia temperatura. L’odio che Molly nomina non è distruttivo, è reattivo: nasce dall’amore non ricambiato nella forma desiderata. La frase “ti ho odiata perché amavo averti lì con me” è il centro emotivo del discorso, perché tiene insieme due poli opposti senza risolverli. Molly non chiede scusa per questo sentimento, lo riconosce.

Quando parla dell’assenza di Julia, il linguaggio si fa più pratico, quasi difensivo. Molly cerca di legittimare il proprio dolore rendendolo “misurabile”: le visite rare, la sensazione di non essere vista. La parola “abbandonata” arriva con cautela, preceduta da un “credo”, come se dirla apertamente fosse ancora troppo pericoloso. Non è una certezza, è una ferita che fa ancora male se nominata con troppa forza.

Il confronto tra le loro vite segna un altro scarto importante. Il successo di Julia non è invidiato in modo astratto, ma messo in relazione diretta con la precarietà di Molly. L’immagine di frugare dietro il divano è potente perché è umiliante, concreta, domestica. Non c’è vittimismo, c’è constatazione. Anche l’ossessione per i “capelli perfetti” funziona come simbolo: Julia incarna l’ordine, la continuità, una vita che sembra sempre sotto controllo. Molly invece vive nel disordine emotivo e materiale.

L’ingresso di Tom cristallizza questa distanza. Non serve descriverlo: basta nominarlo. È la prova vivente di una stabilità che Molly non ha avuto. Da qui il monologo si spoglia definitivamente di ironia e entra nella confessione più nuda: la gravidanza inattesa, scoperta tardi, il comportamento autodistruttivo. Molly non cerca perdono né assoluzione. Quando parla di Syd e della sua salute, affiora un amore profondo mescolato a colpa. La chiusura non è risolutiva, perché non deve esserlo: il monologo finisce sospeso, come una verità finalmente detta ma non ancora digerita.

Finale "Goodbye June"

June osserva la tabella degli orari di visita ideata da Molly e capisce che le figlie non stanno mai insieme. Con l’aiuto di Angeli, orchestra un ultimo tentativo di riconciliazione. Riunisce Molly e Jules e affida loro un compito: scrivere una lettera per il nipotino che deve nascere. In realtà, la lettera parla di loro, del loro legame spezzato. Le due sorelle, costrette a condividere lo spazio, finalmente si aprono, ammettendo rancori e fragilità. È una riconciliazione imperfetta, ma reale. Anche Connor affronta il padre, accusandolo di non essere presente e di rifugiarsi nell’alcol. Bernard reagisce fuggendo in un pub, dove però sorprende tutti salendo su un piccolo palco e dedicando una canzone a June e ai suoi figli. È il suo modo goffo, ma sincero, di dire “io ci sono”.

Con le forze ormai al limite, June viene sorpresa dal marito con un Natale anticipato. In una sala dell’ospedale, la famiglia ricrea la notte della nascita di Gesù. È un gesto ingenuo, forse ridicolo, ma profondamente umano. Bernard mantiene la promessa: le canta una canzone mentre June, esausta, si spegne circondata dall’amore dei suoi cari. Il film si chiude un anno dopo. È di nuovo Natale. La famiglia è riunita. June non c’è più, ma qualcosa è cambiato. I rapporti, seppur segnati, sono più veri. Il suo ultimo miracolo non è stato guarire, ma lasciare dietro di sé una famiglia finalmente capace di stare insieme.

June diventa consapevolmente il perno emotivo che costringe i figli a guardarsi, a parlarsi, a smettere di fuggire. La sua eredità non è morale né materiale, ma relazionale: insegna che l’amore non è ordine, controllo o perfezione, ma presenza.

Il salto temporale finale conferma questa idea. La famiglia sopravvive alla perdita non perché sia guarita, ma perché ha imparato a condividere il dolore. June “torna come neve a Natale”, come aveva detto: non come fantasma, ma come memoria che unisce.

Credits e dove vederlo

Regia: Kate Winslet

Sceneggiatura: Joe Anders

Cast: Kate Winslet: Julia Helen Mirren: June Timothy Spall: Bernard "Bernie" Andrea Riseborough: Molly Johnny Flynn: Connor Toni Collette: Helen
Dove vederlo: Netflix

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