Monologo - Paul Giamatti in \"Black Mirror: Eulogy\"

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Articolo a cura di...


~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Nel cuore di Eulogy, il quinto episodio della settima stagione di Black Mirror, c’è un momento che si sgancia completamente dalla tecnologia per entrare in uno spazio che è emotivamente puro, crudo, senza filtri. È il monologo di Phillip, interpretato da Paul Giamatti, un uomo che ricorda una delle serate più importanti (e dolorose) della sua vita: il fallimento di una proposta di matrimonio. A livello narrativo, è un interludio emotivo, una confessione intima che non ha bisogno di effetti speciali, né di colpi di scena. Qui Brooker scrive con un registro completamente diverso: niente concetti sci-fi, niente intelligenze artificiali o distopie digitali. Solo un uomo, la sua voce, e il ricordo distorto dal dolore. Ed è proprio questo il punto: Eulogy è una puntata che ruota attorno alla fragilità della memoria, e questo monologo è la dimostrazione perfetta di quanto i ricordi siano più legati alle emozioni che ai fatti.

Matrimonio e fallimenti

STAGIONE 7 EP 5
MINUTAGGIO
: 28:56-31:36

RUOLO: Phillip
ATTORE:
Paul Giamatti
DOVE: Netflix



ITALIANO


Noi eravamo qui. Lei sembrava quella di sempre, ma diversa. Disse che era ingrassata, ma a me non sembrava, la trovavo bellissima. Ordinai una bottiglia di champagne, non lo avevo mai fatto in vita mia. Ma lei non lo toccò, non voleva bere proprio nulla. E io le dissi: “Andiamo, sono venuto fin qui, solo un calice”, ma niente. Dovetti mordermi la lingua, perché era irritante. Avevo l’anello in tasca quindi ero nervoso… mi scolavo un calice dopo l’altro, poi… finalmente mi faccio coraggio e tiro fuori l’anello, facendolo quasi cadere per quanto sono teso. Allora lei lo guarda e… Ammutolisce. Non dice niente di niente. Non mi guarda nemmeno in faccia. Le cameriere si lanciano delle occhiate, sanno che sono lì per fare la proposta. mi fissano tutti. Ho le guance bianche, la gola secca, così bevo ancora e alla fine chiedo solo: “Puoi dire qualcosa? Qualsiasi cosa”. Ma lei sta fissando il pavimento, così colpisco il tavolo con un pugno, e a quel punto ci guardano tutti. Lei si alza in piedi e se ne va via. C’è un silenzio totale. Si sentono solo le stoviglie della cucina. Io me ne sto lì e… stanno tutti zitti. Il personale evita il mio sguardo. Sento il tanfo dell’umiliazione su di me. Così restai lì e finii la bottiglia. Mi dissero che non dovevo pagarla, ma insistetti, non volevo la loro pietà.

Black Mirror 7

La settima stagione di Black Mirror è un ritorno al cuore stesso della serie: una riflessione (amara, inquieta, a tratti dolorosa) su un futuro che non sembra poi così distante, e che parla molto più del nostro presente di quanto vorremmo ammettere. Dopo il passo falso del sesto ciclo, che flertava troppo con il paranormale e con una vena retro poco in linea con l’anima high-tech della serie, Charlie Brooker riporta la narrazione dentro coordinate più familiari: distopie possibili, ansie contemporanee e una tecnologia che evolve più in fretta della nostra capacità di comprenderla e gestirla.nQuesta settima stagione è meno "avveniristica" nel senso sci-fi classico e più ancorata a un futuro molto prossimo, che potremmo tranquillamente vedere fra cinque anni, massimo dieci. I sei episodi sono tutti autoconclusivi, come da tradizione, ma per la prima volta si percepisce un’anima più sentimentale, quasi umanista. Non si parla solo di tecnologia, ma di come essa si intrecci con le emozioni, con i legami, con la memoria e l’identità personale.


Se c’è un tema dominante, è il prezzo del progresso. Ma non un prezzo metaforico o etico: proprio il prezzo in senso economico. Gli abbonamenti digitali, le clausole nascoste, le versioni freemium della vita stessa. E la domanda più disturbante non è “quanto siamo disposti a pagare?”, ma “cosa accade quando non possiamo più permettercelo?”.



1. Common People


È l’episodio manifesto della stagione. La distopia è lucida e concreta: il backup digitale della coscienza come abbonamento mensile. Ma la potenza del racconto non sta nella tecnologia in sé, bensì nella lentezza del suo deterioramento e nell’inflessibilità del sistema che la gestisce. Amanda diventa un software a pagamento. Mike, l’uomo che la ama, guarda la donna che conosceva diventare una versione sempre più limitata, sempre più “trial”. Chris O’Dowd è devastante nel rendere il senso di impotenza di fronte a un sistema che non si può combattere, solo subire. È Black Mirror nella sua forma più pura: un dramma umano con un contesto tecnologico spietato.Tema chiave: monetizzazione dell’esistenza – e la disumanizzazione mascherata da progresso.


2. Bête Noire


Una rivisitazione in chiave distopica del confronto tra vittima e carnefice, in un setting che flirta con il concetto di realtà alternative. La tensione qui non deriva tanto dalla tecnologia, quanto dalla paranoia, dal non sapere se quello che accade è vero o solo percepito. L’episodio è un interessante studio sul potere e sulla memoria, su chi detiene il controllo della narrazione. E sul desiderio, spesso sottovalutato, di rivincita sociale. Tema chiave: riscrittura del passato e vendetta emotiva, con uno sguardo malato sull’apparenza.


3. Hotel Reverie


Una delle puntate più ambiziose, visivamente e concettualmente. Un film classico viene “abitato” da attori digitali, con risultati che sfiorano la malinconia di Her e la nostalgia cinefila di The Artist. Ma il tema vero è quello dell’autenticità in un mondo in cui ogni emozione può essere programmata. Può un amore nato da un copione essere reale? L’episodio non trova una risposta chiara – e va bene così. Tema chiave: l’illusione dell’autenticità nei mondi sintetici. E il bisogno umano di crederci lo stesso.


4. Come un giocattolo


Il più anomalo della stagione, quasi un horror psicologico travestito da retro game. Lì dove ci si aspetterebbe nostalgia, Brooker tira fuori un senso di colpa generazionale. I nerd degli anni ‘90, creatori di mondi, diventano oggi figure ambigue, cariche di traumi e contraddizioni. Il Tamagotchi come metafora della responsabilità verso le intelligenze artificiali che abbiamo creato. E l’umano, ancora una volta, si rivela il vero mostro. Tema chiave: responsabilità creativa, abuso tecnologico, e la crudeltà connaturata all’essere umano.


5. Eulogy


Un racconto che parte come una riflessione sul lutto ma vira verso un territorio più ambiguo: quello della memoria falsata. Paul Giamatti è struggente nel dare voce a un uomo che si aggrappa ai ricordi per non affondare, mentre lo spettatore viene lentamente spinto a dubitare della verità di quei ricordi. Cosa ricordiamo davvero? E cosa invece scegliamo di ricordare per proteggerci? Tema chiave: soggettività della memoria e illusione terapeutica della tecnologia.


6. USS Callister: Into Infinity


Il primo vero sequel della serie – e una scelta audace. Brooker decide di espandere l’universo narrativo di USS Callister, ma lo fa con intelligenza: anziché ripetere lo schema del primo episodio, mette in scena un conflitto etico tra due visioni opposte dell’individuo: si può cambiare, o restiamo sempre uguali? Il tono resta quello di una space-opera satirica, ma il cuore dell’episodio è profondamente filosofico. Tema chiave: identità, rieducazione e redenzione, nel contesto di una simulazione senza regole.

Questa settima stagione non inventa nulla di nuovo, ma torna a porre domande scomode con una lucidità narrativa che mancava da un po’. Il futuro immaginato non è fatto di robot o navicelle spaziali, ma di contratti, abbonamenti, backup digitali, simulazioni cinematografiche e videogiochi che assomigliano fin troppo alla nostra vita reale.

Analisi Monologo

“Noi eravamo qui. Lei sembrava quella di sempre, ma diversa.” Il monologo si apre con un ossimoro emozionale: quella di sempre, ma diversa. È così che spesso ricordiamo le persone che abbiamo amato, soprattutto quando le rivediamo dopo tempo o dopo una ferita. L’introduzione è sottile, malinconica, e già piena di ambiguità. È un ricordo? Un sogno? Una proiezione? In Eulogy, non è mai chiaro dove finisca la realtà e dove cominci la versione della realtà che ci raccontiamo per sopravvivere. “Ordinai una bottiglia di champagne, non lo avevo mai fatto in vita mia.” Dettaglio minuscolo, ma rivelatore. Phillip non è un uomo abituato ai gesti romantici plateali. Il fatto che abbia ordinato lo champagne – per la prima volta – racconta tutto quello che dobbiamo sapere su di lui: voleva fare qualcosa di speciale, ma stava già uscendo dai suoi schemi. La proposta non era solo un passo avanti nella relazione, era un atto di superamento personale.


“Ma lei non lo toccò, non voleva bere proprio nulla.” Da qui in poi il racconto vira verso la frustrazione. È un climax lento e straziante. L’assenza di partecipazione da parte di lei – che non parla, non beve, non risponde – si trasforma in uno specchio crudele: ogni gesto mancato è un rifiuto implicito. E Phillip lo sente. Ma non riesce ad accettarlo. L’alcol, il nervosismo, l’anello in tasca: sono tutti segni di un uomo che sta costruendo un momento perfetto… per una persona che, forse, non è più parte di quel momento. “Le cameriere si lanciano delle occhiate… mi fissano tutti.” La scena si fa visivamente teatrale. Non è più solo un disastro emotivo, è una performance pubblica fallita. Questo è il punto in cui il monologo smette di essere un semplice ricordo d’amore e diventa un trauma pubblico. Il vero nemico qui non è lei. È l’immagine di sé stesso che Phillip non riesce più a salvare. “Sento il tanfo dell’umiliazione su di me.” Una frase che sa di letteratura, non di dialogo televisivo. È fisica, viscerale. Non dice solo “mi sono sentito umiliato”: lo ha annusato. L’umiliazione è diventata un odore che lo ha marchiato.

Conclusione

Il monologo di Phillip è uno dei momenti più intensi e umani dell’intera stagione. In un episodio che parla di tecnologia in grado di replicare i ricordi, questo racconto ci ricorda che non esiste memoria priva di interpretazione. Phillip non sta solo rivivendo un momento del passato: lo sta ricostruendo, lo sta narrando a se stesso.

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