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~ LA REDAZIONE DI RC
In un episodio che gioca con la percezione della realtà, con i poteri quasi divini dell’accesso tecnologico a dimensioni parallele, Black Mirror riesce ancora una volta a riportare tutto al punto di partenza: il dolore umano. Il monologo di Verity in Bestia Nera è l’ultimo scoglio di lucidità dentro un delirio emotivo programmato con fredda precisione. È il momento in cui il personaggio, dietro l’apparente onnipotenza, lascia filtrare la verità più disarmante: il potere non guarisce.
Verity ha avuto tutto. Letteralmente. Ha plasmato mondi, realtà, versioni di sé e degli altri. Ha sperimentato cosa significa dominare l’universo – e non in senso metaforico. Ma quello che dice in questo breve e intenso monologo è una confessione, non una rivendicazione. È il punto in cui la vendetta cede il passo alla consapevolezza. E dove capiamo che non c’è soddisfazione nel controllo assoluto, se la ferita originale è ancora aperta.
STAGIONE 7 EPISODIO 2
MINUTAGGIO: 44:00-45:00
RUOLO: Verity
ATTRICE: Rosy McEwen
DOVE: Netflix
INGLESE
Empress of the universe? Yeah. What, make it so I'm empress of the universe? Worshiped by acolytes? Yeah. Yeah, that was the first thing I did. Don't get me wrong. It was amazing. For a while. I've done everything. I've been everything. But whatever I do, all that stuff is just... It's just still there. Just aching away. So here I am, fixing a hole. ( chuckles ) Seeking closure. ( laughs ) Took me five weeks to break Natalie. You've been what, like, five days. How do you think you'll do it? She was a jumper, but you're not a jumper. ( sobs softly ) Maybe you like wrists. Or, um...
ITALIANO
Cioè, potrei essere imperatrice dell’Universo? Venerata da accoliti. Si, si è la prima cosa che ho fatto. Non lo nego. E’ stato fantastico. Per un pò. Ho fatto tutto… Sono stata tutto. Ma qualsiasi cosa faccia, tutta quella roba è ancora… è ancora tutta lì. E… fa ancora male. Quindi eccomi qui, a riparare il danno. In cerca di pace. Natalie è crollata dopo cinque settimane. Con te sono bastati cinque giorni. Come pensi che lo farai? Lei è saltata, ma tu non sei il tipo. Forse più da polsi. Oppure… (Mima il gesto della corda).
La settima stagione di Black Mirror è un ritorno al cuore stesso della serie: una riflessione (amara, inquieta, a tratti dolorosa) su un futuro che non sembra poi così distante, e che parla molto più del nostro presente di quanto vorremmo ammettere. Dopo il passo falso del sesto ciclo, che flertava troppo con il paranormale e con una vena retro poco in linea con l’anima high-tech della serie, Charlie Brooker riporta la narrazione dentro coordinate più familiari: distopie possibili, ansie contemporanee e una tecnologia che evolve più in fretta della nostra capacità di comprenderla e gestirla.nQuesta settima stagione è meno "avveniristica" nel senso sci-fi classico e più ancorata a un futuro molto prossimo, che potremmo tranquillamente vedere fra cinque anni, massimo dieci. I sei episodi sono tutti autoconclusivi, come da tradizione, ma per la prima volta si percepisce un’anima più sentimentale, quasi umanista. Non si parla solo di tecnologia, ma di come essa si intrecci con le emozioni, con i legami, con la memoria e l’identità personale.
Se c’è un tema dominante, è il prezzo del progresso. Ma non un prezzo metaforico o etico: proprio il prezzo in senso economico. Gli abbonamenti digitali, le clausole nascoste, le versioni freemium della vita stessa. E la domanda più disturbante non è “quanto siamo disposti a pagare?”, ma “cosa accade quando non possiamo più permettercelo?”.
1. Common People
È l’episodio manifesto della stagione. La distopia è lucida e concreta: il backup digitale della coscienza come abbonamento mensile. Ma la potenza del racconto non sta nella tecnologia in sé, bensì nella lentezza del suo deterioramento e nell’inflessibilità del sistema che la gestisce. Amanda diventa un software a pagamento. Mike, l’uomo che la ama, guarda la donna che conosceva diventare una versione sempre più limitata, sempre più “trial”. Chris O’Dowd è devastante nel rendere il senso di impotenza di fronte a un sistema che non si può combattere, solo subire. È Black Mirror nella sua forma più pura: un dramma umano con un contesto tecnologico spietato.Tema chiave: monetizzazione dell’esistenza – e la disumanizzazione mascherata da progresso.
2. Bête Noire
Una rivisitazione in chiave distopica del confronto tra vittima e carnefice, in un setting che flirta con il concetto di realtà alternative. La tensione qui non deriva tanto dalla tecnologia, quanto dalla paranoia, dal non sapere se quello che accade è vero o solo percepito. L’episodio è un interessante studio sul potere e sulla memoria, su chi detiene il controllo della narrazione. E sul desiderio, spesso sottovalutato, di rivincita sociale. Tema chiave: riscrittura del passato e vendetta emotiva, con uno sguardo malato sull’apparenza.
3. Hotel Reverie
Una delle puntate più ambiziose, visivamente e concettualmente. Un film classico viene “abitato” da attori digitali, con risultati che sfiorano la malinconia di Her e la nostalgia cinefila di The Artist. Ma il tema vero è quello dell’autenticità in un mondo in cui ogni emozione può essere programmata. Può un amore nato da un copione essere reale? L’episodio non trova una risposta chiara – e va bene così. Tema chiave: l’illusione dell’autenticità nei mondi sintetici. E il bisogno umano di crederci lo stesso.
4. Come un giocattolo
Il più anomalo della stagione, quasi un horror psicologico travestito da retro game. Lì dove ci si aspetterebbe nostalgia, Brooker tira fuori un senso di colpa generazionale. I nerd degli anni ‘90, creatori di mondi, diventano oggi figure ambigue, cariche di traumi e contraddizioni. Il Tamagotchi come metafora della responsabilità verso le intelligenze artificiali che abbiamo creato. E l’umano, ancora una volta, si rivela il vero mostro. Tema chiave: responsabilità creativa, abuso tecnologico, e la crudeltà connaturata all’essere umano.
5. Eulogy
Un racconto che parte come una riflessione sul lutto ma vira verso un territorio più ambiguo: quello della memoria falsata. Paul Giamatti è struggente nel dare voce a un uomo che si aggrappa ai ricordi per non affondare, mentre lo spettatore viene lentamente spinto a dubitare della verità di quei ricordi. Cosa ricordiamo davvero? E cosa invece scegliamo di ricordare per proteggerci? Tema chiave: soggettività della memoria e illusione terapeutica della tecnologia.
6. USS Callister: Into Infinity
Il primo vero sequel della serie – e una scelta audace. Brooker decide di espandere l’universo narrativo di USS Callister, ma lo fa con intelligenza: anziché ripetere lo schema del primo episodio, mette in scena un conflitto etico tra due visioni opposte dell’individuo: si può cambiare, o restiamo sempre uguali? Il tono resta quello di una space-opera satirica, ma il cuore dell’episodio è profondamente filosofico. Tema chiave: identità, rieducazione e redenzione, nel contesto di una simulazione senza regole.
Questa settima stagione non inventa nulla di nuovo, ma torna a porre domande scomode con una lucidità narrativa che mancava da un po’. Il futuro immaginato non è fatto di robot o navicelle spaziali, ma di contratti, abbonamenti, backup digitali, simulazioni cinematografiche e videogiochi che assomigliano fin troppo alla nostra vita reale.
“Cioè, potrei essere imperatrice dell’universo? Venerata da accoliti.” Il tono è sarcastico, teatrale. Verity prende in giro l’idea stessa del potere assoluto, ma lo fa da una posizione di chi lo ha davvero sperimentato. Non è una fantasia, è una constatazione. Si è costruita un mondo dove poteva essere tutto ciò che desiderava, e ne ha fatto abuso. Come qualsiasi persona ferita, ha confuso la sovraesposizione con la guarigione. Il sarcasmo è una maschera sottile: Verity sa che quello che sta per dire è molto più serio, ma ci arriva con leggerezza solo apparente. Perché dietro la battuta c’è un vuoto. “È stato fantastico. Per un po’.” La frase si spezza a metà. Prima la soddisfazione. Poi, subito, il limite. Brooker gioca con la brevità per farci sentire quanto poco sia durato l’effetto liberatorio del potere. L’entusiasmo iniziale è evaporato in fretta. La vendetta, la gloria, la divinizzazione… sono state solo un diversivo. Questo è il cuore del discorso: anche l’onnipotenza ha una scadenza, se è solo un anestetico per una ferita emotiva irrisolta. “Ho fatto tutto… Sono stata tutto.” Questa è forse la frase più ambiziosa del monologo. Verity afferma di aver esaurito tutte le possibilità. Non le è rimasto più nulla da provare, da essere. Ha esaurito l’esperienza. Eppure... nulla è cambiato. È il paradosso della modernità portato all’estremo: avere accesso a ogni forma di realizzazione possibile, ma sentire comunque il vuoto identitario. Il dolore originale, quello che ha generato tutto, non è stato toccato.
“Ma qualsiasi cosa faccia, tutta quella roba è ancora... è ancora tutta lì. E fa ancora male.” Qui il tono si abbassa. Non c’è più sarcasmo, né teatralità. Verity si toglie il mantello. È una persona ferita che ammette, finalmente, che nessun controllo, nessuna realtà alternativa, nessuna manipolazione può cambiare ciò che è stato. Non si tratta di rimpianto: si tratta di impotenza emotiva. È in questo momento che il monologo diventa universale: chi non ha mai provato a “rifarsi” una realtà, dentro la propria testa, per evitare di affrontare ciò che fa male? “Quindi eccomi qui, a riparare il danno. In cerca di pace.” Verity si posiziona non più come vendicatrice, ma come redentrice. Ma la sua redenzione è distorta: non vuole costruire qualcosa di nuovo. Vuole pareggiare i conti attraverso il dolore altrui. “Riparare il danno” non è un atto terapeutico. È un tentativo disperato di traslare il proprio trauma sugli altri. In questa frase, “pace” non significa guarigione. Significa tregua interiore, ma ottenuta tramite una nuova rovina.
“Natalie è crollata dopo cinque settimane. Con te sono bastati cinque giorni.”
Questa è una delle battute più fredde e spietate di tutto l’episodio. Verity non parla più da essere umano, ma da osservatrice di un esperimento psicologico. Registra, misura, confronta. Non c’è più empatia, solo analisi. La sofferenza è diventata un dato. È un passaggio che trasforma Verity in qualcosa di disumano. O, forse, in qualcosa che è diventato disumano pur di non soffrire più come un essere umano. “Come pensi che lo farai? Lei è saltata, ma tu non sei il tipo. Forse più da polsi.” Il monologo si chiude nel punto più oscuro. Verity prevede il suicidio di Maria. Lo anticipa, lo classifica, lo personalizza. Non c’è più rabbia, né ironia. Solo una diagnosi terminale del destino dell’altra. E il gesto della corda è la firma finale su una condanna che non viene detta esplicitamente, ma che è già stata interiorizzata. È qui che l’orrore di Black Mirror si manifesta in pieno: quando il dolore diventa strategia, e la vendetta si trasforma in un algoritmo che genera disperazione calcolata.
Il monologo finale di Verity è il canto di una creatura che ha attraversato tutte le versioni possibili della realtà, per scoprire che nessuna alternativa potrà mai cancellare ciò che è stato. È un momento di verità disarmante, in cui Brooker abbandona ogni velleità tecnologica per restituirci una semplice constatazione: non si può editare il dolore. Verity non è più un genio del male, non è nemmeno una vittima in cerca di giustizia. È una persona consumata dal ricordo, che ha provato ogni via possibile per non sentire più male – tranne quella più semplice: accettarlo. E nel suo desiderio di pace, trascina gli altri nella propria guerra.
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