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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Stefano Mele nella serie Il Mostro è un pezzo perfetto per chi cerca un testo da portare in audizione, ricco di verità emotiva e controllo. Tratto dal primo episodio della miniserie diretta da Stefano Sollima, questo momento raccoglie anni di silenzio, colpa e amore paterno. In questa guida analizziamo come interpretarlo al meglio, con appunti tecnici, sottotesto e consigli professionali per portarlo in scena.
Scheda del monologo
Contesto del film
Testo del monologo (estratto+note)
Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa
Come prepararlo per un'audizione
Finale del film (con spoiler)
FAQ
Credits e dove trovarlo
Durata: 2 minuti 30 sec
Contesto ideale per l’interpretazione attoriale Workshop di drammaturgia sul trauma o la memoria. Casting su ruoli silenziosi ma intensi (tipo padre dimesso, uomo accusato ingiustamente, figura grigia con passato pesante) Monologo per prove su emozioni trattenute (non urlate)
Dove vederlo: Netflix
Il Mostro, miniserie diretta da Stefano Sollima, racconta con sguardo cupo, disturbante e stratificato uno dei casi più inquietanti della cronaca nera italiana: quello del Mostro di Firenze. Il racconto prende il via nel 1982, con l’omicidio di una giovane coppia appartata in macchina. La scena del crimine è chiara, metodica, e richiama altre morti avvenute anni prima. La procura, guidata dalla Dottoressa Silvia Della Monica, riapre così i fascicoli del passato. Quello che emerge non è un semplice caso di omicidio seriale, ma una rete fatta di famiglie contorte, rapporti malati, abusi mai affrontati, uomini che vogliono possedere le donne con il corpo e con il silenzio.
A ogni episodio, cambia il sospettato. Stefano Mele, ex marito della vittima Barbara Locci, è il primo a finire sotto accusa. Poi tocca all’ex amante Francesco Vinci, al fratello Giovanni Mele, infine a Salvatore Vinci, figura centrale e ambigua che sembra sempre un passo avanti alle indagini. Ogni racconto apre un nuovo pezzo di verità, ma mai tutta intera. La serie si muove tra presente e passato, ricostruendo con lucidità le dinamiche sociali e familiari di un’epoca che ha preferito il silenzio alla giustizia.

La notte dell’omicidio ero con Francesco Vinci. E’ stato lui a sparare. Ha ucciso Barbara perché era geloso pazzo. Erano stati insieme e poi l’aveva lasciato per lo Bianco. Lui sapeva come fare per risultare negativo al guanto. Al guanto di paraffina. E poi si è fatto fare l’alibi dalla moglie che aveva paura di lui come tutti. E’ stato lui poi ad accompagnare mio figlio Natalino da De Felice. Ma quando mi venne detto che mio figlio aveva confermato che ero stato io ad accompagnarlo, ho capito che qualcuno l’aveva minacciato. Ho capito che se l’avessi smentito Francesco Vinci l’avrebbe ucciso. Per questo mi sono accusato da solo. Per questo mi sono fatto 13 anni di carcere, in silenzio.
“La notte dell’omicidio ero con Francesco Vinci.” Tono basso, quasi confessato a se stessi; pausa dopo “omicidio” per permettere al peso della parola di sedimentare. Lo sguardo resta fisso, non c’è intento accusatorio, solo constatazione.
“È stato lui a sparare”: aumento minimo della tensione vocale; intonazione netta ma non urlata, quasi come se fosse una verità che ha dovuto masticare per anni. Pausa secca dopo “lui”, come separazione morale.
“Ha ucciso Barbara perché era geloso pazzo.” su “geloso pazzo” la voce si irrigidisce leggermente, ma resta contenuta. Sguardo lontano, come rivedere la scena nella mente.
“Erano stati insieme e poi l’aveva lasciato per Lo Bianco”: tono narrativo, quasi distaccato; come chi conosce il motivo ma non ne giustifica l’effetto. Pausa breve dopo “insieme”. Sguardo verso chi ascolta, in cerca di ricezione.
“Lui sapeva come fare per risultare negativo al guanto. Al guanto di paraffina”: “Lui sapeva” va detto con velata amarezza, come chi ha osservato da lontano ma non ha potuto impedirlo. Su “guanto di paraffina” c’è ripetizione: sfruttala come ritmo emotivo, pausa tra le due frasi. La seconda va quasi sussurrata, con sguardo più basso.
“E poi si è fatto fare l’alibi dalla moglie che aveva paura di lui come tutti.” “che aveva paura di lui come tutti” va detto con voce bassa, amara, quasi più per sé che per gli altri. Non enfatizzare “come tutti”, fallo pesare nel silenzio dopo.
“È stato lui poi ad accompagnare mio figlio Natalino da De Felice.”: “mio figlio Natalino” è il cuore emotivo qui. Voce che si incrina leggermente, senza pianto, solo peso affettivo. Pausa dopo “Natalino”, come se lo si vedesse bambino, indifeso.
“Ma quando mi venne detto che mio figlio aveva confermato che ero stato io ad accompagnarlo…”: crescendo lento; “aveva confermato” va marcato, con pausa lunga prima della chiusa.
“Ho capito che qualcuno l’aveva minacciato.”: tono pacato ma lucido; pausa breve dopo “ho capito”, come se il pensiero tornasse a quel momento di chiarezza. La parola “minacciato” va detta con voce più stretta, come se ancora facesse male.
“Ho capito che se l’avessi smentito Francesco Vinci l’avrebbe ucciso:” qui c’è rabbia repressa, ma va solo accennata nella gola, non nelle parole.
“Per questo mi sono accusato da solo”: la frase più importante. Va detta con lentezza, ogni parola pesata.
“Per questo mi sono fatto 13 anni di carcere, in silenzio.”: “13 anni di carcere” va detto senza enfasi, ma con pienezza di respiro.
Nel primo episodio della serie Il Mostro, il personaggio di Stefano Mele (interpretato con voce trattenuta e corpo quasi chiuso in sé stesso) pronuncia un monologo che segna un punto di svolta nella narrazione. Dopo decenni di silenzio e condanna, Mele racconta per la prima volta la sua verità: non è stato lui a uccidere Barbara Locci.
In poco meno di tre minuti, il monologo tocca temi centrali della serie: la manipolazione, la paura, la colpa silenziosa e la paternità come ultima ragione per sacrificarsi.
Stefano confessa che la notte dell’omicidio si trovava con Francesco Vinci, non da solo. Racconta che fu Vinci a sparare, spinto da una gelosia patologica: Barbara lo aveva lasciato per un altro uomo, Antonio Lo Bianco. La voce è bassa, lucida. Ogni frase è costruita per pesare. L’accusa è precisa: Francesco sapeva come eludere il test del guanto di paraffina (utilizzato per rilevare tracce di polvere da sparo) e si era costruito un alibi grazie alla moglie, terrorizzata da lui come tutti quelli che lo conoscevano.
Ma il momento più denso arriva quando Stefano parla del figlio, Natalino. Ricorda che, dopo il delitto, si era diffusa la versione secondo cui era stato lui ad accompagnare il bambino a casa del vicino. Quando Mele sente che è il figlio stesso a confermare quella versione, capisce che qualcosa non torna. Qualcuno ha minacciato Natalino. E quell’uomo è ancora una volta Francesco.
A quel punto, Stefano prende una decisione radicale: si autoaccusa, pur di proteggere il figlio. “Mi sono fatto 13 anni di carcere, in silenzio”, dice, chiudendo il discorso senza urlare, senza piangere. Ma con la fermezza di chi ha portato sulle spalle il peso di un’intera famiglia.
Il monologo non è costruito come uno sfogo drammatico, ma come una confessione dolorosa, asciutta. L’emozione è tutta nel non detto, nelle pause, nel tono della voce che non sale mai. L’attore che interpreta Mele (nella serie) lavora su tre registri principali:
Trattenuta rassegnazione: non c’è bisogno di alzare la voce. Il dolore sta già nelle parole e nella postura.
Lucidità narrativa: Stefano non è più confuso. Sa esattamente cosa è successo e perché ha scelto il silenzio.
Protezione paterna: è per il figlio che ha taciuto. È per lui che si è consegnato alla prigione.
Questo è uno dei momenti più forti del primo episodio e dell’intera miniserie. Non tanto per l’azione, ma per la frattura morale che rappresenta: un uomo si è lasciato condannare per paura di ritorsioni sul proprio figlio, e il sistema giudiziario ha accettato quella versione senza scavare. Questo passaggio sposta la narrazione: da “chi ha sparato?” a “chi ha taciuto, e perché?”. Da qui in poi, Il Mostro non è più solo la storia di un serial killer, ma di un’Italia che ha lasciato parlare il silenzio, e spesso lo ha preferito alla verità.

Obiettivo del monologo: Stefano non vuole convincere. Non sta cercando perdono, né giustizia. Vuole solo raccontare perché ha taciuto. L’obiettivo non è riabilitare la propria figura, ma liberare un peso. È una confessione privata fatta in un luogo pubblico.
Sottotesto: Il corpo di Stefano ha imparato a stare zitto. Ogni frase che dice ora, l’ha già pensata mille volte, e non c’è sorpresa nel dirla. C’è paura trattenuta, rabbia passata, vergogna metabolizzata.
Azione minima
Postura chiusa: spalle leggermente curve, mani davanti a sé o poggiate.
Occhi mobili: ogni tanto cercano l’ascoltatore, ma spesso si perdono in un punto fisso, come a rivedere i fatti.
Movimento minimo: i gesti vanno evitati, a meno che non siano involontari (grattarsi il braccio, abbassarsi le maniche, passarsi le dita sulle labbra).
Nessun pianto: se arriva, è accennato e subito trattenuto. L’azione emotiva è il contenimento.
Dinamica vocale: Volume basso, ma mai sussurrato. Ogni parola deve essere chiara, pesata, come se fosse incisa su pietra. Poche variazioni di tono, salvo in due punti: Quando nomina Natalino, e quando dice “mi sono accusato da solo”
Chiusa: “Per questo mi sono fatto 13 anni di carcere, in silenzio.” Questa frase va lasciata cadere. Niente musica, niente enfasi. Finisce così, nel vuoto.
Errori comuni da evitare
Piangere : Questo monologo non è una valvola emotiva. È un equilibrio.
Recitare la confessione come se fosse una denuncia: Stefano non accusa: racconta. La forza sta nella pacatezza.
Enfatizzare la vittima (Barbara) o il colpevole (Francesco) Questo è il racconto di Stefano. Non dei suoi carnefici.
Falsare il ritmo per sembrare “intenso”: Se il tempo interno non è reale, il pubblico lo sente.
Il finale de Il Mostro non offre una chiusura netta, ma piuttosto un passaggio di testimone. Salvatore Vinci, l’ultimo grande sospettato, viene portato a processo e scagionato. La verità resta impigliata nei non detti, nei ricordi frammentati, nelle coperture familiari. Ma qualcosa accade: da quel momento i delitti cessano. Coincidenza? Forse. Oppure qualcuno ha semplicemente scelto di scomparire.
E proprio mentre l’apparente calma cala su Firenze, una nuova ombra si profila: un paesano, dalla provincia di Pisa, invia una lettera alla polizia. Segnala un uomo aggressivo, inquietante, con comportamenti strani. Si chiama Pietro Pacciani. La serie si chiude così: senza colpevoli certi, ma con un dubbio che sopravvive a tutto. E con una consapevolezza: la verità, nel caso del Mostro di Firenze, è sempre stata una storia di omertà, vergogna e ferite mai guarite. Sollima, in questo, non cerca il colpo di scena. Cerca la sostanza. Mostrandoci un’Italia che ha preferito l’imbarazzo alla giustizia, e la paura alla trasparenza.
Quanto dura il monologo? Il monologo dura circa 2 minuti e 30 secondi
Che temi tratta? Il monologo affronta temi complessi come: colpa taciuta, sacrificio personale, paura del potere altrui, protezione del figlio, omertà familiare.
Che età di casting copre? Adatto per interpreti dai 40 ai 60 anni, ma può essere adattato per attori più giovani che interpretano un uomo provato dagli anni, dal carcere e dal rimorso.
È meglio recitarlo in piedi o seduti? Meglio seduti o quasi immobili. L’energia è interna. L’immobilità fisica permette all’attore di concentrarsi sul sottotesto e sulle sfumature vocali. Perfetto anche per esercizi in telecamera fissa.
Serve un interlocutore o si può fare da soli? Può essere portato senza interlocutore in scena, come confessione interiore o testimonianza diretta.
Regista: Stefano Sollima
Produttore: Stefano Sollima, Lorenzo Mieli
Cast principale: Barbara Locci (Francesca Olia); Silvia Della Monica (Liliana Bottone); Stefano Mele (Marco Bullitta); Francesco Vinci (Giacomo Fadda); Salvatore Vinci, (Valentino Mannias).
Dove vederlo: Netflix

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