Monologo - Vanessa Scalera in \"Diamanti\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il monologo di Bianca in Diamanti, la celebre costumista premio Oscar, è un momento esplosivo che riflette il suo perfezionismo esasperato, la passione viscerale per il proprio lavoro e la sua visione profondamente artistica del cinema. Il personaggio di Bianca incarna un ideale creativo intransigente: il costume non è un semplice abito, ma uno strumento narrativo che contribuisce a definire il personaggio e a guidare l’interpretazione dell’attrice. Dietro la rabbia, l’insofferenza e il linguaggio brutale si intravede una donna schiacciata dal peso delle proprie aspettative e dall’insicurezza celata dietro la maschera di chi ha vinto un Oscar, ma non si sente mai all’altezza.

Che cazzo fate con questo vestito!

MINUTAGGIO: 53:40-55:46

RUOLO: Bianca
ATTRICE:
Vanessa Scalera
DOVE:
Al cinema



ITALIANO


No, il mikado… Oddio… E’ perfetto, grandi, grandi ragazze, bellissimo, siete eccezionali, brave. No. No, e che cazzo avete combinato, ma che è sta roba, che cazzo è sta roba. Ma questo è cinema, cinema, si chiama CINEMA! chiaro, non è un documentario. Avete dato per scontato che il ballet fosse classico. Ma sapete, avete visto il bozzetto, no? Mettetevi tutte di qua. Mettetevi di qua. Io l’ho disegnato con un’apertura arcuata, al centro, come le facciate dei palazzi di Borromini, che ti accolgono, ti proteggono, e voi che cazzo fate, che cazzo fate, mi fate un monoblocco, ricoperto con laminette, con sto cazzo di tulle. Taci, devi tacere però, devi tacere, zitta! Il costume non deve solo vestire il personaggio. Il costume deve permettere all’attrice di entrare nel personaggio. E allora ditemi cosa, come cazzo faccio a far entrare l’attrice nel personaggio se non può permettersi nemmeno di sedersi o di… di pisciare liberamente. Questa è una donna, signore mie che nel ‘700, nel ‘700, piuttosto che sposare un uomo che non ama rinuncia a tutto. Quindi secondo voi questo personaggio qui rinuncerebbe alla propria libertà. No, ditemelo. Io voglio che l’attrice lo senta qui, in mezzo alle gambe, e lo voglio rosso, lo voglio. No, non come il vestito, come il sangue.

Diamanti

Diamanti” di Ferzan Özpetek (2024) è un film che, nella sua stessa struttura, gioca con i confini tra finzione e realtà, tra creazione artistica e vissuto personale. È una celebrazione del cinema, del teatro, e soprattutto delle donne che, con le loro forze, fragilità e intrecci di vita, tessono non solo abiti, ma anche storie, emozioni e legami.

Il film alterna due linee temporali. Da una parte, il presente: Ferzan Özpetek, in una sorta di meta-cinema, convoca attrici e attori, vecchi e nuovi collaboratori, per lavorare su un copione che diventa esso stesso protagonista della storia.


Dall’altra parte, il cuore del film: Roma, 1974. Qui Özpetek ricrea un microcosmo femminile attorno alla sartoria delle sorelle Canova, un luogo che è al tempo stesso spazio di lavoro e rifugio, dove le protagoniste cercano di conciliare il peso delle proprie esistenze con la ricerca di una bellezza capace di lasciare il segno. La sartoria è il palcoscenico su cui si intrecciano i drammi individuali e collettivi: dalla violenza domestica al peso del passato, dalle difficoltà economiche all’alcolismo, tutto è permeato dalla lotta per affermare sé stesse in un mondo che sembra spesso pronto a schiacciarle.


Come spesso accade nei film di Özpetek, il fulcro della narrazione è la coralità. Le sarte e le loro vite formano un mosaico in cui ogni tassello racconta una storia, e nel loro insieme creano un ritratto vibrante della condizione femminile. Ogni personaggio è scritto con cura, evitando cliché, ma esaltando la complessità e la tridimensionalità di queste donne.


Alberta e Gabriella Canova, le sorelle alla guida della sartoria, incarnano due volti opposti del dolore e della resilienza. Alberta, autoritaria e severa, porta su di sé il peso di una vita che le ha negato l’amore, ma che le ha insegnato a resistere; Gabriella, fragile e tormentata, è l’ombra di sé stessa, prigioniera del lutto per la perdita della figlia.


Nina, la capo sarta, è il simbolo della dedizione materna: suo figlio, che vive chiuso nella sua stanza, rappresenta un peso emotivo che lei riesce a trasformare in una forza creativa. La sua storia, come quella di Eleonora e di Beatrice, mescola il privato con il politico, legando il personale agli anni di piombo e all’Italia turbolenta degli anni ’70.


Nicoletta, vittima della violenza del marito, e Paolina, madre single in difficoltà, sono il ritratto delle donne che lottano contro le ingiustizie quotidiane.


Bianca Vega, la costumista premio Oscar, rappresenta invece il lato pubblico e celebrato del mondo del cinema, ma è anch’essa piena di insicurezze, dimostrando come il successo non sempre coincida con la serenità interiore.


L’atelier delle sorelle Canova è una metafora: un laboratorio creativo in cui ogni filo cucito diventa un frammento di storia, in cui i costumi non sono solo vestiti, ma veri e propri personaggi. L’atto del cucire diventa un gesto simbolico: le donne ricuciono le loro vite, rattoppano ferite, trovano un modo per superare le difficoltà.

Analisi Monologo

"No, il mikado… Oddio… È perfetto, grandi, grandi ragazze, bellissimo, siete eccezionali, brave." Bianca inizia con un’esplosione di entusiasmo, che appare immediatamente eccessiva, quasi teatrale. Questo momento di falsa approvazione serve da preludio al suo sfogo. Il Mikado, tessuto simbolo di eleganza e rigore, diventa il punto di partenza per la sua critica. La sua oscillazione emotiva sottolinea la natura instabile e impulsiva del personaggio. "No. No, e che cazzo avete combinato, ma che è sta roba, che cazzo è sta roba." Con un linguaggio volutamente crudo, Bianca esprime la sua totale insoddisfazione. L’uso ripetuto del termine "cazzo" enfatizza la sua rabbia, ma non è solo una sfuriata: è una dichiarazione di principi. La frase successiva – "Ma questo è cinema, cinema, si chiama CINEMA!" – è un grido quasi dogmatico. Per Bianca, il cinema è un’arte che richiede precisione assoluta e una visione coerente. Qui Özpetek evidenzia il contrasto tra l’idealismo artistico e i limiti pratici: Bianca pretende un’opera perfetta, ignorando le difficoltà e i compromessi del processo creativo.


"Io l’ho disegnato con un’apertura arcuata, al centro, come le facciate dei palazzi di Borromini, che ti accolgono, ti proteggono." Bianca rivela una concezione del costume profondamente artistica e intellettuale. La sua ispirazione viene dall’architettura barocca di Borromini, con i suoi giochi di curve e spazi che avvolgono e accolgono l’osservatore. Il costume non è solo una veste funzionale, ma un’opera d’arte tridimensionale che deve raccontare una storia e riflettere il carattere del personaggio. Bianca esprime frustrazione perché il lavoro delle sarte – un “monoblocco ricoperto di laminette e tulle” – tradisce questa visione. La rigidità del risultato contrasta con la fluidità che lei cercava di ottenere. Qui emerge un tema ricorrente nel cinema di Özpetek: la tensione tra il progetto ideale e la sua realizzazione imperfetta.


"Taci, devi tacere però, devi tacere, zitta!" Bianca perde ogni parvenza di autocontrollo, arrivando a zittire bruscamente le sarte. Questo momento mette in luce la sua vulnerabilità: dietro alla sua rabbia c’è un’insoddisfazione che va oltre il lavoro. Il suo bisogno di controllo e la sua severità riflettono una profonda insicurezza personale. Bianca, nonostante il successo professionale, sembra in perenne lotta con l’idea di non essere abbastanza. La violenza verbale verso le sarte diventa una valvola di sfogo, un modo per scaricare una tensione che probabilmente non ha nulla a che vedere con loro.


"Il costume non deve solo vestire il personaggio. Il costume deve permettere all’attrice di entrare nel personaggio." Questa frase è il cuore del monologo. Bianca spiega che il costume non è un semplice elemento estetico, ma uno strumento narrativo che aiuta l’attrice a incarnare il personaggio. Qui si manifesta il suo ideale artistico: ogni dettaglio, dalla forma al colore, deve servire alla storia e al processo attoriale. Bianca richiama un tema caro al cinema: l’interazione tra l’estetica e l’identità del personaggio, un legame profondo tra l’esterno (il costume) e l’interno (l’emozione).

"Io voglio che l’attrice lo senta qui, in mezzo alle gambe, e lo voglio rosso, lo voglio. No, non come il vestito, come il sangue." La richiesta di un costume "rosso come il sangue" è un’immagine potente. Il rosso è il colore della passione, della vita e della morte, perfetto per rappresentare un personaggio che, nel ‘700, ha scelto di rinunciare al matrimonio e alla sicurezza per seguire la propria libertà. Bianca non vuole un rosso qualsiasi: vuole qualcosa di viscerale, carnale, che l’attrice possa percepire non solo esteticamente, ma anche fisicamente e psicologicamente. È un momento che lega il costume al corpo, facendo del rosso un simbolo di sacrificio e libertà.

Conclusione

Il monologo di Bianca è una rappresentazione feroce e intensa dell’artista ossessionata dalla perfezione e schiacciata dalle proprie insicurezze. Özpetek utilizza questo momento per esplorare il rapporto tra arte e compromesso, tra visione e realtà. Bianca incarna il conflitto eterno dell’artista che cerca di raggiungere l’ideale assoluto, ma si scontra con i limiti del processo creativo e della collaborazione.

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