Monologo - Javier Bardem da \"Monsters: la storia di Lyle ed Erik Menéndez\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

INTRODUZIONE AL MONOLOGO

Nel contesto della serie "Monsters: La vera storia di Lyle e Erik Menendez", che esplora il dramma familiare e il tragico omicidio dei genitori da parte dei fratelli Menendez, il monologo del padre offre uno spaccato disturbante sulle dinamiche di abuso che hanno segnato la vita dei protagonisti. La serie, che fa parte del franchise creato da Ryan Murphy, scava profondamente nelle relazioni tossiche e nei traumi intergenerazionali. Questo particolare monologo utilizza una crudele metafora tra il controllo su un cane e la disciplina inflitta al figlio, permettendo allo spettatore di comprendere meglio la mente dell'abusatore e la giustificazione perversa dietro la violenza familiare, tema centrale della narrazione.

I CANI

STAGIONE 2 EP 6

MINUTAGGIO: 37:57-40:12
RUOLO: José Menéndez

ATTORE: Javier Bardem
DOVE: Netflix


INGLESE


Ah. Okay. And what about it? Yeah, what about it? I hit you. Whatever the fuck else. What about it? That's why you're a loser? Do you remember the first dog we had? Khan? It was a fսck¡ng terrible dog. I fucking hated that dog. Anyway... I went to the pet shop to buy one of those collars that have spikes on them, or pins. But they were not poking out. They were poking in. So when it tightens, uh, it immediately pinches the dog's neck, right? And you tug on the leash and the dog feels it, right? The... the slightest tug, the dog feels it and knows what you want, which is to stop. And when you walk the dog, and the dog wants to run or pull, or whatever you tug on the leash and it hurts. But it only hurts when it disobeys. If the dog behaves and does what the owner wants, the collar doesn't hurt. So after a while, he goes back to a regular collar and that's it. Now, my son, a lot of people out there think that those collars are cruel. I think it's the other collars that are cruel because they create dogs that misbehave, pull, and are completely fսck¡ng lost in who they are and what they are supposed to do. So, you know what I think when you complain that I hit you? I think that I didn't hit you hard enough, Lyle. The way my father hit me. He hit me so hard my head would throb for days and days. I mean, it was fսck¡ng painful. But I knew exactly what was expected of me. Okay? So as a father that loves you, Lyle, I'm really sorry I didn't hit you hard enough. That is my fault. And I'm sorry.



ITALIANO


Ah ok, e con questo? Vi ho picchiati, e vi ho mortificati, è per questo che tu sei un buono a nulla? Lyle, ricordi il primo cane che abbiamo avuto, Khan? Era un cane terribile, cazzo, io lo odiavo con tutto me stesso. Comunque, andai al negozio di animali per comprare uno di quei collari con le borchie o le spille, e glielo misi al contrario con le borchie dentro. Così quando lo tiravo, le borchie pizzicavano il suo collo, giusto? Bastava tirare il guinzaglio, e lui lo sentiva. Bastava il minimo strattone. Lui lo sentiva e capiva che volevo dirgli di fermarsi. Così quando lo portavo a spasso e voleva correre in giro, tiravo il guinzaglio e faceva male. Ma soltanto quando mi disobbediva. Se si comportava bene e faceva quello che volevo non provava dolore. Così dopo un pò siamo tornati al collare normale, e basta. Ora, figlio mio, ci sono molte persone che pensano che quei collari siano crudeli. Io penso che gli altri collari lo siano perché creano dei cani che si comportano male. Tirano e non hanno la minima cazzo di idea di chi sono e di cosa dovrebbero fare. Allora sai che penso, quando ti lamenti perché ti ho picchiato? Penso di non averti picchiato abbastanza forte, Lyle. Come mi picchiava mio padre. Lui mi picchiava così forte che la testa mi pulsava per giorni e giorni. Mi faceva un male inimmaginabile, ma sapevo che cosa si aspettava da me. Ok? E in quanto padre che ti ama, Lyle, ti chiedo scusa per non averti picchiato abbastanza forte. Mi dispiace.

MONSTERS: LA STORIA DI LYLE ED ERIK MENENDEZ

"Monsters: La vera storia di Lyle e Erik Menendez" è una serie che appartiene al franchise "Monster", creato da Ryan Murphy, il famoso produttore di serie di successo come American Horror Story e The People v. O.J. Simpson. Dopo il grande successo della prima stagione dedicata a Jeffrey Dahmer, questa seconda stagione si concentra sui fratelli Lyle ed Erik Menendez, noti per il brutale omicidio dei propri genitori avvenuto nel 1989.


La serie esplora uno dei casi giudiziari più noti negli Stati Uniti, dove i fratelli Menendez furono accusati e condannati per l'omicidio a colpi di fucile di loro padre José Menendez, un ricco produttore musicale, e della madre Kitty Menendez. Il processo mediatico portò alla luce i retroscena della loro famiglia, fatta di presunti abusi e disfunzioni che i fratelli sostennero fossero alla base del loro gesto.


Kyle ed Erik Menendez, nella realtà dei fatti, si difesero in tribunale affermando di aver ucciso i genitori in preda alla paura per gli abusi sessuali e psicologici subiti da parte del padre per anni. La serie, come già avvenuto con "Dahmer", segue la prospettiva dei carnefici ma anche delle vittime, cercando di scavare nelle motivazioni più profonde dietro il crimine.


Gli spettatori sono portati a riflettere sugli effetti devastanti degli abusi domestici, e su quanto il trauma possa influenzare il comportamento umano. Come accaduto con altri processi di grande risonanza mediatica negli USA, la vicenda dei Menendez è stata seguita con morbosa attenzione dai media, portando ad un dibattito su quanto il sensazionalismo influenzi l'opinione pubblica. La serie spinge anche a riflettere sulla questione morale di quando il contesto personale possa essere preso in considerazione per attenuare le pene, oppure se il crimine stesso debba sempre essere il solo metro di giudizio.


Essendo una produzione di Ryan Murphy, la serie è nota per la sua grande attenzione ai dettagli, dalla ricostruzione delle scene del crimine ai complessi processi psicologici dei personaggi. Lo stile visivo è cupo e spesso inquietante, in linea con le precedenti produzioni del franchise, e la narrazione tende a non risparmiare colpi di scena o dettagli scomodi.

ANALISI MONOLOGO

Questo monologo tratto dalla serie è estremamente intenso e disturbante. Esplora una dinamica tossica di abuso psicologico e fisico, in cui il padre cerca di razionalizzare le proprie azioni brutali attraverso una visione distorta dell’educazione e dell’autorità.


Il monologo inizia con una crudele metafora. Il padre paragona il figlio a un cane (Khan), stabilendo subito un rapporto gerarchico di dominio e sottomissione. Il collare con le borchie rivolte verso l'interno diventa il simbolo del controllo e della disciplina violenta. L’idea che il cane possa essere "addestrato" attraverso il dolore si estende al modo in cui lui tratta il figlio. Il dolore diventa uno strumento pedagogico, secondo questa logica malata, per ottenere obbedienza.


Questa analogia serve a giustificare il comportamento del padre, che si sente legittimato nel pensare che infliggere dolore sia il metodo corretto per "educare". Ciò denota una chiara mancanza di empatia, trasformando la relazione padre-figlio in una sorta di addestramento animalesco, privo di amore e comprensione.


Il padre minimizza e normalizza la violenza fisica che ha inflitto a Kyle, suggerendo che non l'abbia fatto abbastanza ("non averti picchiato abbastanza forte"). Invece di riconoscere il trauma o il danno causato, lo razionalizza come un atto d’amore mancato, come se la brutalità fosse sinonimo di cura. Questo rovesciamento psicologico è una tecnica comune negli abusatori, che spesso manipolano le loro vittime facendogli credere che il dolore sia una necessità, o peggio, una prova d’affetto.


Il richiamo all’esperienza con suo padre, che lo picchiava "così forte che la testa mi pulsava per giorni", sottolinea il ciclo intergenerazionale di violenza. Il padre stesso è stato vittima di abusi e, anziché spezzare questo ciclo, perpetua lo stesso comportamento sui suoi figli, confondendo il trauma con una forma di disciplina.


Un altro aspetto fondamentale del monologo è la manipolazione psicologica. Il padre si scusa con Kyle, ma è una scusa profondamente perversa: non per avergli fatto del male, ma per non averlo colpito abbastanza. Questo tipo di linguaggio manipolativo crea una confusione emotiva in chi ascolta, in quanto il senso di colpa viene trasferito sulla vittima, che potrebbe finire per interiorizzare l’idea di non essere stato "abbastanza buono" per ricevere più attenzione (anche se in forma di violenza).


Il monologo è una lezione su come il padre percepisca il potere. La sua visione dell’autorità è basata sul controllo assoluto, ottenuto attraverso la paura e la violenza. I cani, come i figli, devono essere domati, non amati. L’obbedienza è il solo parametro per misurare il successo di un genitore, e il dolore è lo strumento principale per raggiungere questo obiettivo.


Per lo spettatore, questo monologo è scioccante e inquietante, poiché offre una visione brutale e senza filtri della mentalità di un abusatore. L'impatto psicologico su Kyle è devastante: il ragazzo è soggetto non solo a violenza fisica, ma anche a un’indottrinazione emotiva che lo porta a mettere in dubbio la validità del suo dolore e la natura della propria sofferenza.

CONCLUSIONE

"Monsters: La vera storia di Lyle e Erik Menendez" affronta tematiche complesse come l'abuso, la manipolazione e la violenza intergenerazionale. Il monologo del padre, che razionalizza la brutalità come strumento educativo, incarna perfettamente il cuore della serie: un'esplorazione delle profonde cicatrici psicologiche lasciate da una famiglia disfunzionale.

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