Morte di un uomo, nascita di un eroe

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Articolo a cura di...


~ MASSIMILIANO AITA

(O DI COME SI COSTRUISCE L'IMMAGINARIO FILMICO)

Ricordo perfettamente quel pomeriggio.

Io e i miei due fratelli minori confinati nella stanza denominata, arditamente, “camera”.

Dai letti a castello, anziché riposare - come ordinato dalla Waffen Ss, bionda e

decisamente bella, attribuitasi il ruolo di “mamma” – giocavamo a “Chi ti piace di più tra”.

Ovviamente io sceglievo sempre “quella del primo banco, la più carina” (quando cito questi versi, mi domando perché Venditti non abbia smesso di cantare venti anni fa).

Entra mia madre..

Ha un’espressione strana sul volto ed ancor più stranamente mi chiede di seguirla in salotto.

Rivolgo uno sguardo perplesso ai miei fratelli mentre scendo la scaletta del letto a castello.

Mia madre, la Waffen Ss, mi fa accomodare sul divano e mi guarda con tenerezza.

Devo aver combinato qualcosa di grosso, penso.

La suddetta madre mi prende le mani e mi comunica che c’è stato un incidente a

Zolder.

Zolder? Dove cavolo sta Zolder, mi chiedo in silenzio?

La mia espressione deve rasentare l’idiozia più spinta se la Waffen S.s. precisa che

l’incidente è avvenuto durante il Gran Premio di Formula Uno.

Già scrivendo questa frase, a distanza di quarantatre anni, sento i brividi salire.

All’epoca rammento che smisi di respirare.

Non metaforicamente. Sul serio.

Chiusi gli occhi.

Gilles era ferito gravemente, disse mia madre.

Probabilmente non ce l’avrebbe fatta.

Con gli occhi sgranati ora fissavo imbambolato mia mamma.

Sta morendo domandai sull’orlo del pianto.

Mia madre annuì.

La mia testa cominciò un movimento di scuotimento e negazione fortissimo.

Gilles non poteva morire.

Gilles era un supereroe.

Era il Superman vivente della Formula Uno.

Era quello che aveva ingaggiato con Renèè Arnoux un incredibile duello fatto di sorpassi e controsorpassi.

Gilles era quello che, mio Dio, aveva condotto una Ferrari a trecento all’ora su tre ruote.

Come poteva morire?

Ed invece Gilles morì.

L’8 maggio 1982 a Zolder. Belgio, per la precisione.

Perché questa inutile premessa?

Perché vedete io ho elaborato una teoria su alcune mie scelte filmiche.

Ovviamente è discutibile, censurabile, probabilmente a-scientifica.

Ma chissenefrega.

Mi serve a razionalizzare, a spiegare.

La teoria, in sintesi, è questa: le nostre scelte filmiche dipendono in buona parte

dall’immaginario che abbiamo costruito dentro di noi nei primi anni dell’esistenza.

Cerco di chiarire.

Se noi siamo cresciuti ascoltando Elvis, Celentano, Gino Paoli è evidente che il nostro immaginario verrà edificato su una fondamenta inscalifibile: il vero amore esiste, mi aspetta e prima o poi si “lascerà cadere così nella sabbia e tra le mie braccia” (Gino Paoli, Sapore di Sale).

Di conseguenza, ogni volta che in Tv passano “I ponti di Madison County” o “Le parole che non ti ho detto” o “The family man”, passeremo due ore tra “pianto e stridor di denti” (Dante Alighieri, Commedia).

Se noi abbiamo amato alla follia un folle pilota canadese o un pazzo tennista americano (parlo di John Mc Enroe), ogni volta che sullo schermo – piccolo o grande che sia – trasmettono film che raccontano epiche appartenenti a qualunque epoca (penso a Trecento o a Il Gladiatore, per non citare il noto film che Luca Ferdinandi ama), tu sei lì, in prima fila, a domandarti (come i Bros degli anni ’80) “When will I be famous” e soprattutto come farai a vivere e morire in modo che non sia banale, mediocre, quotidiano.

Il punto è che questa dinamica rappresenta un chiaro esempio di “cane che si morde la coda”.

Ogni visione di film appartenente a quel nostro immaginario, alimenta l’immaginario stesso che per noi diventa realtà.

E dunque diventiamo bipolari in senso a-tecnico.

Diventiamo cioè incapaci di distinguere “l’essere” dal “voler essere”, l’esistente dal ciò che vorremmo fosse.

Rimaniamo intrappolati in un loop infinito che, purtroppo, porta ad effetti devastanti nella vita reale.

Okay, non è che domani rubo una Ferrari e mi lancio sulla tangenziale di Milano a 250 km all’ora.

Però, lo dico con franchezza, io ho sognato mille volte di morire come Guido Laremi in “Due di due”: schiantandomi con un Maggiolino contro un muro.

Qualcuno potrebbe dire che sarebbe una scelta stupida più che epica.

Tuttavia, se ci pensate, l’immaginario eroico è sempre stupido.

L’eroe quasi mai agisce razionalmente.

Esempio classico: Don Chisciotte della Mancia.

Il primo riconosciuto esempio di romanzo europeo ha quale protagonista una

sorta di dissociato mentale che, dopo aver letto “millanta storie di cavalieri erranti” (Guccini, Don Chisciotte), decide di combattere dei presunti nemici in nome e per conto di una Dulcinea incontrata in una “locanda a ore” (sempre Guccini).

E perché accade questo?

Perché Don Chisciotte ha costruito un suo immaginario sulla base dei libri e ne alimenta la sopravvivenza – attraverso imprese più o meno sconclusionate.

E lo stesso vale per l’immaginario filmico.

Ogni volta che guardo “C’era una volta in America”, mi identifico in Noodles perché – nella mia infanzia – ho vissuto esperienze (come tutti voi) che mi hanno “indotto” ad evadere dalla realtà.

Parlo della fine della mia promettente carriera da mezz’ala per la scoperta di extrasistole ventricolari, parlo della sclerosi multipla di mio padre, parlo della morte – a distanza di un anno - di mia nonna e mio nonno.

Un peso troppo grande per un ragazzino di dieci anni.

Un peso che ho trasformato, attraverso la visione dei film, in universo parallelo – in cui io gioco accanto a Manoel Dos Santos detto Garrincha (per me il più grande giocatore di tutti i tempi); in cui mio padre è Dark Vader; in cui mio nonno è Obi One.

Sono alcuni esempi. Non tutti.

Chiudo permettendomi un suggerimento alle nuove leve: vivete intensamente ma vivete nel mondo reale.

Costruirsi un immaginario di eroi aiuta sì ma poi vi trascina lontano.

E dove navigo io, non c’è approdo, non c’è salvezza.

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