\"Il Padrino\" compie 53 anni: il vero cinema che non invecchia mai

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Articolo a cura di...


~ CLAUDIA LAZZARI

“Il Padrino”. Per questo titolo potrebbero inventare una nuova figura retorica o un nuovo termine Treccani che indichi un fenomeno che scaturisce dall’associazione della parola ad un monumento storico del cinema mondiale.


Oggi, 53 anni fa, “Il Padrino” del Maestro Francis Ford Coppola dilaniava le coscienze e costruiva un immaginario di cemento impossibile da abbattere. Tutto cambiò, tutto si confermò, tutto si abbatté e tutto si ricreò.


Contemporaneamente.


“Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare”.


Il film è presente nei nostri modi di dire, nella visione e nell’immaginazione della criminalità, nei costumi e nel linguaggio di situazioni che di criminoso hanno ben poco, nell’atto di fare cinema stesso. L’impatto fu spaventoso. L’esempio d’oro della commistione irriconoscibile tra realtà e fantasia. Il mezzo mafia che traina il concetto di melodramma familiare, le ripercussioni della guerra in Vietnam, la ricostruzione sociale del postguerra, usi e costumi trainati da storia, emotività e tradizione. Una perfetta ricostruzione di vita.


“Famiglia” al posto di “Mafia”, così come oggi “Brutto male” sostituisce “Tumore. Questo è il fil Rouge della storia dei corleonesi, questa è la giustificazione alle azioni sanguinare e immorali a cui le devastazioni storico-politiche hanno fornito un alibi costante.


Il film inizia e finisce con due cerimonie: un matrimonio e un battesimo. Due punti importanti nelle storie familiari, due crocevia di sviluppo personale e collettivo. Il padre della sposa è Vito Corleone, il magistrale Marlon Brando, uno dei cinque “boss” più importanti della comunità italiana insediata a New York. La tradizione vuole che il “don”, nonché padre della sposa, accolga tutte le richieste che gli vengono rivolte il giorno del matrimonio della figlia. Nell’iconico studio in cui avvengono le udienze benevolmente offerte al popolo da don Vito, simboli di potenza e sacri ornamenti caratteristici irradiano lo schermo di un’atmosfera religiosa e palpabile, grazie alla gestione della luce e all’interpretazione storica di Brando. Quando il padrino rifiuta di appoggiare i traffici di droga di Virgil Sollozzo, scatenando il parere contrario di suo figlio Sonny, Sollozzo, di conseguenza, cerca di eliminare Vito, colpendolo con cinque proiettili ai quali il patriarca riesce a sopravvivere.

Michael, l’inarrivabile Al Pacino, l’unico figlio deciso a tenersi fuori dai sanguinosi affari di famiglia, decide allora di vendicarsi, brutalmente colpito da quanto accaduto a suo padre. Il fatto di essersi sempre chiamato fuori dal business corleonese lo rende insospettabile, dandogli l’opportunità di uccidere più facilmente Sollozzo e il poliziotto corrotto McCluskey.

In seguito agli omicidi, Michael si rifugia in Sicilia, antica patria d’origine, lasciando a New York l’ignara fidanzata Kay, strepitosa Diane Keaton. A contatto con la patria di sangue, il carattere di Michael - già solcato da quanto accaduto a New York, si indurisce sempre di più . Qui si innamora e sposa Apollonia. Coppola ci regalerà uno spaccato visivo di cultura e tradizione maestoso in questa fase.


La risposta alla vendetta, però, non si farà attendere: Apollonia muore nell’attentato destinato a Michael e Sonny viene ucciso a New York. Michael fa ritorno in USA, dove suo padre è distrutto da un dolore reso vivido e lucido da un’interpretazione dignitosa e orgogliosa di Brando, che plasmerà per sempre tutti i ruoli affini a quello del padrino. Ritornato a casa, Michael sposa Kay, che gli dà un primogenito: Anthony Vito.


Alla morte di Vito Corleone, nel 1955, Michael riceve un’offerta di pace dalle altre famiglie newyorkesi. Grazie agli insegnamenti paterni, però, capisce che quello non è altro che un tentativo di farlo fuori ed eliminare i corleonesi dalla piazza. Così, anticipando gli eventi e sovvertendoli a proprio favore, Michael fa uccidere uno ad uno i rivali, compreso il cognato Carlo Rizzi, durante il battesimo di suo nipote. Connie, sua sorella, aveva involontariamente attirato Sonny nell’agguato riservatogli anche dal marito stesso, senza saperlo. Quando si scaglierà, sconvolta, contro Michael, suo fratello negherà sempre tutto, tenendola fuori da qualsiasi fatto inerente gli affari di famiglia.


Emblematico, in questo senso, il finale in cui Kay - benché tenuta sempre fuori da ogni questione, come tutte ledono - capisce quanto commesso da Michael mentre lo osserva ricevere nello studio del padre gli omaggi al nuovo padrino.


“Luca Brasi dorme con i pesci”.


La trama si stende su immagini epiche, su di una messa in scena sacrale di riti e tradizioni macabre e grottesche, criminose e iconiche. Un dettame, un vangelo laico di diciture dalle quali tutte le storie mafiose, da quel momento in poi, non riescono ad evitare. Il nucleo è sempre, però, la storia di una famiglia, che anche in situazioni estreme - come quelle di appartenenza ad una criminalità così grave - trascinano le volontà e allacciano i membri (anche quelli apparentemente più emancipati, come Michael) in una morsa di appartenenza inevitabile.


E poi, le scene violente che impressionano con ambigua bellezza: la testa mozzata del cavallo nel letto di Woltz, la tempesta di proiettili e fuoco che trapassa Sonny, lo sparo che buca gli occhiali dell’uomo di Greene e il “giudizio universale” del finale, la furia esecutiva che sancisce il finale di una pellicola che sembra rappresentare un intero rito di iniziazione.

La bella Sicilia, spaccati di mondo cristallizzati da Coppola come un sogno dai colori vividi e romantici, i volti in chiaroscuro che emergono e rientrano nelle tenebre, la poesia di un cinema che abbiamo il terrore di perdere.

Il best seller mondiale

Il romanzo di Mario Puzo del 1969, da cui è tratto il film, vendette nove milioni di copie. Già nel 1967 il vicepresidente Paramount, Peter Bart, lo sottopose alla compagnia. La Paramount offrì a Puzo 12.500 dollari per continuare il lavoro, e altri 80.000 se avesse accettato di farne un film. Nonostante il parere contrario del suo agente, Puzo – all’epoca tormentato dai debiti per la sua dipendenza dal gioco – accettò.


«Il Don era nato nel villaggio moresco di Corleone, in Sicilia, come Vito Andolini. Ragazzo di salute cagionevole sfuggí, grazie a persone di buon cuore, che lo imbarcarono per le Americhe, agli uomini di don Ciccio; era costui un mafioso del paese che, per questioni d'onore, aveva sterminato la famiglia del giovane. Questo tragico evento segnerà la vita dell'innocente Vito e probabilmente lo renderà l'uomo spietato ma allo stesso tempo guidato da un personale senso di giustizia, che poi fu. Nella nuova terra la sorte volle che prendesse come cognome, per la superficialità di un ufficiale addetto alla immigrazione, il nome del suo paese di origine, Corleone.»


Il libro è suddiviso in nove parti, ed è stato la base per i primi due film. Per il terzo, Puzo - che prese parte alla trasposizione come sceneggiatore - integrò nuovo materiale, intrecciando sempre i fili con Coppola.

Curiosità, molto più che curiosità

Nel 1969, la Paramount acquista i diritti del romanzo per farne un film di genere: l’anno precedente, con La fratellanza (film dal contesto assai simile), la casa di produzione aveva sfiorato la bancarotta. Tutti i registi a cui fu proposto si tirarono indietro: Sergio Leone declinò per C’era una volta in America (grazie al cielo), Peter Bogdanovich, Elia Kazan, Arthur Penn e Costa Gavras, rifiutarono.[ L'unico che si dimostrò disponibile fu Sam Peckinpah, il quale venne però allontanato per via del fatto che voleva trasformare la storia in una specie di western. Poi, arrivò Coppola, ancora abbastanza sconosciuto e con esperienze troppo sperimentali per i gusti della produzione. Regista italiano, dal cachet basso: ottima preda per predatori. Dal canto suo, Coppola non amava per niente la trama di Puzo, ma accettò il progetto per rimediare al fiasco dell'ultimo film a cui aveva lavorato (L’uomo che fuggì dal futuro di George Lucas). Il resto è storia.

Coppola rischia il licenziamento più volte, già prima dell’inizio delle riprese. Motivo principale? Ma la scelta del cast, ovvio. Paramount non voleva l’ormai tramontato Brando e il puro teatro Al Pacino. Per non parlare di Caan e Duvall.


La Paramount considerò, per Vito Corleone, Ernest Borgnine, Gian Maria Volonté, Orson Welles, Edward Robinson, George Scott. Burt Lancaster desiderava ottenere quel ruolo, ma non fu mai preso in considerazione. Coppola era invece indeciso tra Laurence Olivier e Marlon Brando. Olivier era però già troppo vecchio e malato. Il regista ebbe la meglio, su questa e su molte altre controversie: costi e scelte stilistiche (tra cui le numerose ripetizioni della scena della morte di Sollozzo, ennesimo rischio di licenziamento per il regista, e la scelta della produzione di inserire molte più scene violente - che Coppola non voleva -, come la rottura di piatti di Connie). Il risultato fu un incasso pari a trenta volte il budget speso.

Chi furono, invece, i prescelti contro Al Pacino? Jack Nicholson, Robert Redford, Ryan O’Neal, Dustin Hoffman e James Caan. Ma Coppola insistette a morte su Al Pacino, considerato troppo basso per il ruolo. Ennesimo punto di quasi rottura, sul quale intervenne Brando che minacciò di lasciare il set se Coppola fosse stato cacciato. E Al Pacino fu, ma non senza ritrosie. Fu guardato in cagnesco per molto tempo, fino alla scena dell’omicidio di Sollozzo. Paramount conquistata.

Inoltre, Robert De Niro fece un provino per Sonny ma Coppola voleva Caan, anche fortemente sostenuto da Brando. Sylvester Stallone venne provinato per Carlo Rizzi e Bruce Dern, Paul Newman e Steve McQueen furono considerati per Hagen, che andò a Robert Duvall. Apollonia fu offerta a Stefania Sandrelli, che non mostrò però interesse, per cui la pare andò a Simonetta Stefanelli. Saro Urzì fu scelto come padre di Apollonia, grazie alla sua rappresentazione della sicilianità consacrata da Germi in pellicole come Sedotta e abbandonata.


Coppola attinse alla propria famiglia per arricchire il cast: sua sorella Talia fu Connie, suo padre Carmine fu il pianista nella scena a metà del film e sua figlia, la neonata futura regista Sofia Coppola, fu Michael Rizzi, il bambino battezzato durante la vendetta.


Marlon Brando, nonostante il trattamento iniziale, impiegò molto meno tempo di Al Pacino a stemperare il disaccordo. Sua fu l’idea di invecchiare il suo volto da 47enne con del cotone nelle guance, diventato poi l’iconico apparecchio da mandibola sul set.


Aneddoti pittoreschi, che si sposano alla perfezione con lo stile del film, mica mancano. Frank Sinatra fece pressioni sulla produzione affinché il personaggio di Johnny Fontana, a lui ispirato, non venisse a lui ricondotto, per via dei suoi presunti legami con Cosa Nostra. Prima dell’inizio delle riprese, Joseph Colombo, boss della famiglia Colombo nonché presidente della Lega dei diritti civili degli italoamericani (si ride per non piangere, oramai), avviò una campagna di boicottaggio. Accusava la pellicola di denigrare gli italoamericani, sempre accostati alla mafia. Così, il produttore esecutivo Albert Ruddy (scelto appositamente per il successo avuto con la saga di James Bond) scese a compromessi: la parola “mafia” non sarebbe mai stata scritta nel progetto, né pronunciata. E così fu. La Lega fu coinvolta nella produzione del film e molti mafiosi parteciparono come attori o comparse. Parliamo di Gianni Russo, ad esempio, interprete di Carlo Rizzi - mediatore tra Colombo e i dirigenti Paramount - e Lenny Montana, ex campione di wrestling che dalla metà degli anni ’60 divenne guardia del corpo della famiglia Colombo, proprio come il personaggio che interpreta nel film. Insomma, un inception: film nel film, e guerriglia nella guerra. Già in partenza.


A suggellare il tutto, come vuole anche il compito stesso delle melodie, Nino Rota alla soundtrack. La sentite, la colonna sonora del Padrino, solo a pensarci? Vedo i puntini sulla vostra pelle dallo schermo. Anche in questo caso Paramount non riusciva a serrare il becco: troppo intellettuale il risultato ottenuto attraverso la riutilizzazione di alcune parti della colonna sonora da Rota composta per Fortunella (1958). Anche qui, Coppola riuscì ad intervenire in maniera determinante e a vincere nuovamente. Inoltre, il regista si servì anche di alcune musiche scritte dal padre Carmine, in particolare ricordiamo il pezzo suonato dalla banda nella scena del matrimonio iniziale.


Prima dell’inizio delle riprese, il cast dovette sottoporsi a due settimane di prova, compresa una cena in cui - per tutto il tempo - ha interpretato i propri personaggi.


Marlon Brando amava fare scherzi sul set. Piazzò sulla barella che trasportava don Vito di rientro dall’ospedale dei pesi che arrivarono a far pesare la struttura 300kg (col suo corpo compreso). Poveri gli sventurati attori che lo trasportarono.


Lenny Montana provava un semplice e puro terrore nel recitare al fianco di Brando. Così la leggenda, per aiutarlo, durante la scena del matrimonio di Connie che li vedeva insieme,
si presentò sul set con un cartellino: “Vai a fare in c***”.

Le riprese iniziarono in anticipo perché Brando aveva firmato il contratto con Bertolucci per Ultimo Tango a Parigi.


Il direttore della fotografia, Gordon Willis, inizialmente rifiutò il lavoro perché giudicava la produzione troppo “caotica” per sé. Anche qui Coppola compie la magia, convincendolo con l’intenzione di eseguire riprese di "formato tableau", ovvero per far sembrare ogni scena un dipinto. Willis usò giochi di ombre e bassi livelli di luce per gli sviluppi psicologici della pellicola e col regista predilissero svariati contrasti di luce e ombre, specie nelle scene iniziali, per donare la sacralità di certe opere religiose. Per le scene girate in Sicilia, invece, la luce è morbida e luminosa, rispetto a quella di New York. Luce sempre connessa col rimando ambientale.


Le scene ambientate a Corleone in verità furono girate tra Messina e Catania: Forza d'Agrò, Savoca, Motta Camastra e Fiumefreddo. I luoghi del film furono scelti dal pittore Gianni Pennisi di Floristella, il quale curò anche l'insegnamento della dizione ad alcuni attori non doppiati.


Il padrino ottenne ben dieci candidature agli Oscar e ne vinse tre: Miglior Film, Miglior Attore Protagonista a Marlon Brando e Miglior Sceneggiatura non originale a Coppola e Puzo. Al Pacino, nonostante abbia registrato il ruolo con maggior minutaggio, ottenne la candidatura come Miglior Attore non protagonista. Per quanto riguarda Brando, appartiene a questo momento il clamoroso rifiuto di ritirare la propria statuetta come protesta contro il trattamento delle minoranze in USA. Al suo posto, mandò Sacheen Littlefeathe, la donna nativa mericana scomparsa recentemente ad ottobre.

I sequel del film sono Il Padrino - parte II e Il Padrino - parte III (rispettivamente, 1974 e 1990). In cantiere rimase Il Padrino - parte IV, a causa della morte di Puzo. Il film avrebbe dovuto contenere, insieme all’ascesa di Vito Corleone nel 1920, interpretato da Robert De Niro, il conflitto col boss Al Capone.


Negli ultimi anni, Michael Wilson ha firmato un lavoro molto particolare, che nasce proprio dalle radici de Il Padrino: “With the Godfather. Art imitate Mafia Life. And Vice Versa”. L’autore riporta una serie di registrazioni e intercettazioni di uomini malavitosi che testimoniano come il film abbia costituito un modello anche per lo stile di vita personale e “professionale” della mafia.

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