Paradise, la fine del mondo ha (finalmente) qualcosa da dire

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Recensione a cura di...


~ LUCA FERDINANDI

Ci sono serie che si accendono piano e poi ti esplodono dentro. Paradise è una di quelle. Approdato su Disney+ come il classico thriller distopico "alla fine del mondo", il nuovo lavoro di Dan Fogelman (già autore di This Is Us) costruisce un universo narrativo stratificato, personale, malinconico, a tratti crudele — eppure vivo, pieno di domande che ti restano appiccicate addosso anche dopo i titoli di coda.

La storia è quella di una comunità d’élite che vive in una cittadina sotterranea — Paradise, appunto — creata per resistere a una catastrofe nucleare che ha spazzato via il mondo di sopra. Un rifugio per i potenti, i selezionati, i "meritevoli". In superficie, rovine e silenzio. Sotto terra, palazzi scintillanti, piscine riscaldate, biblioteche, cocktail a volontà… e una quantità impressionante di segreti.


Tutto comincia con un omicidio. E come spesso accade, non è tanto il "chi" quanto il "perché" che cambia tutto. L’indagine è affidata a Xavier Collins (uno straordinario Sterling K. Brown), ex agente dei servizi segreti, guardia del corpo del Presidente degli Stati Uniti. È lui il filo conduttore della serie, il nostro Virgilio nei gironi iper-lusso di un’umanità alla deriva.


La cosa che colpisce subito — e che resta una costante per tutta la stagione — è l’ambizione della sceneggiatura. La serie mescola passato e presente con l’uso chirurgico di flashback, costruisce personaggi tridimensionali e spesso contraddittori, e si prende il rischio di rallentare quando serve. Il ritmo è stratificato, come la storia. E ci vuole un po’ per entrare dentro. Ma quando ci sei, ci sei fino in fondo. La scrittura di Fogelman è chiaramente pensata per durare. E anche se la stagione si chiude in modo tutto sommato conclusivo (ci arriviamo dopo), si percepisce già una mappa molto più grande. Dialoghi intelligenti, carichi di tensione emotiva, e capaci — cosa rara — di farti cambiare idea su un personaggio anche dopo sei episodi.


Dal punto di vista visivo, Paradise è una gioia fredda e curatissima. La fotografia lavora su toni spenti, quasi anemici, che esaltano il contrasto tra l’apparente perfezione della città e il disagio interno di chi la abita. I corridoi lindi e i salotti impeccabili diventano teatri silenziosi di piccole apocalissi interiori. Sterling K. Brown regge tutto con una compostezza che si incrina gradualmente, senza mai diventare melodramma. James Marsden, nei panni del Presidente Cal Bradford, è ambiguo, sarcastico, umanissimo. Sinatra, il male dell’elite, riesce a essere glaciale, viscerale, e imprevedibile in ogni inquadratura.

In un’epoca in cui le distopie televisive sembrano tutte fatte con lo stampino, Paradise riesce a distinguersi non tanto per l’idea (comunità post-apocalittica), quanto per il modo in cui la tratta. Qui la distopia è solo il contesto, ma i veri temi sono altri: la selezione, il privilegio, il senso di colpa, il potere, la costruzione della memoria. E soprattutto la menzogna come fondamento della sopravvivenza. Non ci sono rivolte spettacolari o plot twist da cliffhanger disperato. C’è la lenta presa di coscienza che anche il paradiso è una prigione.


Cè una cura rara per il simbolismo. I fiori nei libri, i dettagli sulla musica, i riferimenti letterari, i segreti nascosti in oggetti comuni — tutto serve a costruire un mondo che ha delle cicatrici vere.


Uno degli aspetti più riusciti della serie è il modo in cui riesce a essere, paradossalmente, conclusiva pur sapendo di avere un lungo viaggio davanti.


Fogelman ha dichiarato di aver pensato Paradise come una storia da più stagioni. Ma il bello è che questa prima stagione ha un arco compiuto, con un finale che dà un senso a quello che abbiamo visto, senza dover promettere per forza che “il bello arriva dopo”.

Se dovesse finire qui, sarebbe comunque una serie valida. Ma proprio perché non finisce qui, è una serie da seguire. Paradise è una serie che ha il coraggio di non urlare per farsi notare. Una storia sul mondo che finisce, sì — ma anche su quelli che cercano di salvarsi nel modo sbagliato, o nel modo più umano possibile. È raffinata senza essere pretenziosa, scritta bene senza compiacimenti, recitata con intelligenza e diretta con una cura rara.


È un prodotto originale, maturo, e soprattutto vivo, che sa parlare del potere, della perdita e della paura senza mai diventare retorico o meccanico. In mezzo a tante distopie che sembrano fatte in serie, Paradise è un promemoria potente: che anche dopo la fine, qualcosa può ancora cominciare.

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