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~ LA REDAZIONE DI RC
Il cinema è una macchina del tempo. Ogni film è una finestra su un’epoca, un riflesso delle idee, delle tecnologie e delle sensibilità artistiche che lo hanno generato. Guardando i film che hanno segnato la storia del cinema, possiamo osservare non solo l’evoluzione del linguaggio cinematografico, ma anche i cambiamenti culturali, sociali e tecnologici che hanno trasformato il modo in cui raccontiamo e viviamo le storie.
Ci sono film che hanno introdotto innovazioni tecniche rivoluzionarie, altri che hanno ridefinito il concetto stesso di narrazione. Alcuni hanno lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare, altri hanno cambiato per sempre il modo in cui pensiamo al cinema. Ogni grande film è il risultato di un momento storico preciso, di scelte artistiche coraggiose e di attori, registi e sceneggiatori che hanno saputo trasformare il loro tempo in immagini indimenticabili.
Questa rubrica esplora quei film che, per un motivo o per un altro, hanno lasciato un segno nella storia del cinema. Opere che hanno cambiato il modo in cui il pubblico guarda il grande schermo, influenzato generazioni di cineasti e ridefinito i confini di ciò che il cinema può essere.
Il film di oggi è...
Quando si parla di Quarto potere (Citizen Kane, 1941), si ha sempre la sensazione di entrare in una stanza già piena di voci, citazioni, analisi, leggende. È stato definito per decenni il miglior film della storia del cinema, una vetta inarrivabile, un’opera-monstre nata dal talento smisurato di un giovane Orson Welles che, a soli venticinque anni, decise di prendere il linguaggio cinematografico e smontarlo e rimontarlo da capo.
È un film che riflette sulla memoria, sull’illusione del potere, sullo scarto tra immagine pubblica e verità privata. È la storia di un uomo e, al tempo stesso, della costruzione del mito americano. E in fondo è anche una domanda rimasta senza risposta: chi era davvero Charles Foster Kane? E perché, nell’ultimo respiro prima di morire, ha pronunciato la parola “Rosebud”?
Il film inizia con una delle scene più iconiche della storia del cinema: una grande villa in decadenza, Xanadu, sorge in mezzo al nulla. Dentro, un vecchio miliardario, Charles Foster Kane, muore. In mano stringe una sfera di vetro con la neve. Le sue ultime parole sono: “Rosebud”. Da qui parte l’indagine. Un giornalista, incaricato di scoprire il significato di quella parola, intervista le persone che hanno conosciuto Kane: amici, collaboratori, ex mogli, tutori. Ognuno racconta una versione diversa dell’uomo, un pezzo del puzzle. Ma il significato di “Rosebud” rimane oscuro.
Alla fine, dopo aver raccolto tutte le testimonianze, il giornalista conclude che nessuno potrà mai conoscere veramente un essere umano. La cinepresa allora ci mostra un dettaglio che nessuno ha potuto vedere: tra gli oggetti che stanno per essere bruciati a Xanadu, c’è una piccola slitta con la scritta Rosebud. Era il giocattolo dell’infanzia di Kane. L’ultimo oggetto che possedeva prima di essere strappato alla sua famiglia e affidato a un tutore, destinato a diventare l’uomo più potente d’America.
Kane è una figura ispirata chiaramente al magnate dell’editoria William Randolph Hearst, ma è anche un personaggio universale. È l’uomo che ha tutto: ricchezza, fama, potere. Ma che, a poco a poco, perde ogni cosa che conta veramente. Kane costruisce un impero editoriale che manipola l’opinione pubblica. Entra in politica, vuole diventare governatore. Ama essere amato, ma non sa amare. Il suo castello (Xanadu) è la metafora perfetta della sua esistenza: monumentale, vuoto, inaccessibile.
Ogni testimonianza nel film ci mostra un Kane diverso:
Per il tutore Thatcher, è un ragazzo ribelle e ingrato.
Per Jed Leland, l’amico giornalista, è un idealista tradito dal proprio ego.
Per Susan, la seconda moglie, è un uomo ossessivo e infantile.
Per il maggiordomo Raymond, è una figura cupa e solitaria.
Welles costruisce così un personaggio polifonico, impossibile da definire con una sola prospettiva. Kane è l’uomo moderno, diviso tra ciò che mostra al mondo e ciò che ha perso per sempre.
Una delle innovazioni principali di Quarto potere è la struttura frammentata. Il film non procede in ordine cronologico, ma attraverso flashback multipli, ognuno filtrato dallo sguardo (e dalla memoria) di un testimone diverso. È un approccio che rompe con il modello narrativo tradizionale e anticipa il cinema moderno, da Rashomon a Memento. Welles e il suo co-sceneggiatore Herman J. Mankiewicz (la cui collaborazione è stata oggetto di molte polemiche, documentate anche nel film Mank di David Fincher) costruiscono un racconto che è un mosaico incompleto, in cui ogni pezzo è parziale, contraddittorio, eppure necessario. Questa struttura non è solo un esercizio stilistico. È la forma stessa del contenuto: non esiste una verità unica su Kane. Esistono solo punti di vista. E in questa moltiplicazione di prospettive, il film ci invita a riflettere sulla fragilità della memoria e dell’identità.
Dal punto di vista formale, Quarto potere è un’enciclopedia di invenzioni. Welles, con la complicità del direttore della fotografia Gregg Toland, porta sullo schermo una grammatica visiva completamente nuova.
Profondità di campo: Welles e Toland utilizzano la profondità di campo in modo radicale: in molte scene, ogni piano (primo, medio e sfondo) è a fuoco. Questo consente una regia più teatrale, più libera, dove lo spettatore può scegliere dove guardare, senza essere guidato dal montaggio.
Inquadrature dal basso: Molte scene sono girate con la cinepresa posizionata in basso, spesso addirittura sotto il pavimento, per conferire maestosità e potere ai personaggi. È un modo per rendere visivamente l’idea di Kane come gigante tragico.
Uso delle ombre: Il chiaroscuro è usato con grande consapevolezza: corpi che si perdono nell’ombra, interni opprimenti, volti metà nel buio e metà nella luce. È un’estetica che prende dall’Espressionismo tedesco e dal noir, ma che Welles personalizza fino a renderla una metafora costante del non detto, dell’ambiguità.
Montaggio e suono: Il film utilizza il montaggio ellittico, le dissolvenze incrociate, l’uso diegetico e non del sonoro, l’eco tra le inquadrature. C’è sempre un senso di fluidità e di costruzione raffinata, ma mai didascalica. Il montaggio non è solo ritmo: è struttura cognitiva.
La parola Rosebud è una delle più analizzate della storia del cinema. È l’enigma centrale, il filo che tiene insieme la narrazione. Ma il film non offre mai una spiegazione chiara: solo lo spettatore, alla fine, scopre che Rosebud era la slitta dell’infanzia di Kane, persa il giorno in cui fu separato dalla madre.
Quella slitta è il simbolo della perdita dell’innocenza, del trauma originario che ha condizionato tutta la sua vita. Ma allo stesso tempo, Quarto potere ci mette in guardia: ridurre un’esistenza complessa a un solo oggetto, a una sola parola, non è la risposta.
L’ultima sequenza, in cui la slitta brucia, è un paradosso: l’unica verità su Kane va in fumo. La verità, se esiste, non è condivisibile. È un’esperienza interiore. E per il mondo esterno, Kane resterà sempre un mistero.
Alla sua uscita, Quarto potere non fu un successo commerciale. William Randolph Hearst, che si riconobbe nella figura di Kane, fece di tutto per boicottare il film. Alcune sale si rifiutarono di proiettarlo. Fu solo con il passare degli anni che il film venne riscoperto, studiato e celebrato. A partire dagli anni ’50, Citizen Kane divenne il punto di riferimento per i cineasti della Nouvelle Vague, i critici dei Cahiers du Cinéma, i registi moderni. Da allora, è stato citato, analizzato, parodiato (I Simpson, Animaniacs, Il prezzo del potere, La vera storia di Mank...) e continua a essere oggetto di studio per chiunque voglia capire cos’è davvero il cinema.
Conclusione: un film che non finisce mai
Quarto potere è uno di quei rari film che continuano a generare significato ogni volta che li si guarda. È un’opera su cui non si può mettere un punto, perché si muove nel campo dell’ambiguità, del dubbio, della contraddizione. Non racconta solo la storia di un uomo, ma la storia della rappresentazione, del modo in cui costruiamo e distruggiamo le figure pubbliche, di come memoria, identità e potere si intreccino in maniera indecifrabile. Welles non voleva spiegare Kane. Voleva porre una domanda: “Chi siamo, al di là di ciò che gli altri ricordano di noi?” E il cinema, da quel momento in poi, non fu più lo stesso.
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